Capitolo II
LA GLOBALIZZAZIONE
Di per sé, la globalizzazione
non è né buona né cattiva.
J.E. Stiglitz
1. Genesi. 1971 Annus horribilis
Ancor prima che esplodesse la crisi petrolifera e che le teorie keynesiane si fossero dimostrate inadatte a fronteggiare la crisi che aveva portato alla stagflazione, gli ambienti economici conservatori americani avevano deciso di aprire un nuovo ciclo di decisioni politiche. Da un lato, si tendeva a ridurre progressivamente l’intervento pubblico nell’economia e ad intensificare la liberalizzazione degli scambi commerciali e dei capitali su scala mondiale; dall’altro, si cercava di dare la spallata definitiva all’economia del Welfare State e chiudere una volta per tutte i conti con la stagione delle proteste che, partite da Berkeley, avevano poi infiammato il “sessantotto” parigino e l’autunno caldo in Italia.
Il primo passo fu compiuto da Richard Nixon, il 15 agosto 1971, con la decisione unilaterale degli Stati Uniti di decretare la fine della convertibilità del dollaro in oro e di procedere a una consistente svalutazione della moneta americana, tesa al recupero della competitività del sistema industriale. La decisione del governo americano di porre fine alla convertibilità del dollaro sancita dagli accordi di Bretton Woods nel 1944, com’era naturale, ebbe larga eco sui giornali. L’Unità, organo del PCI, senza giri di parole titolava con l’editoriale di Eugenio Peggio: “Crollo di un mito e di un sistema”. Ma alla fine la decisione fu accettata come fatto compiuto da tutti i paesi industrializzati, i quali espressero comprensione verso gli Stati Uniti per le misure monetarie adottate.
In parallelo a questa decisione del governo americano, fecero seguito altre incisive iniziative con le quali le élites economiche, ispirate dall’economista Milton Friedman, intrapresero un articolato programma di studi e d’informazione allo scopo di ribaltare la sudditanza culturale del capitalismo rispetto alla sinistra, questa sì, acculturata e ideologizzata. Una di queste iniziative fu intrapresa da Eugene Sydnor Jr., direttore della Camera di Commercio degli Stati Uniti, il quale affidò all’avvocato Lewis Powell l’incarico di studiare quali misure bisognasse prendere per frenare la deriva statalista dell’economia. Quando, il 23 agosto di quello stesso anno (in curiosa coincidenza cronologica con l’abolizione della convertibilità del dollaro), l’avvocato Powell consegnò il suo memorandum, i businessmen americani si trovarono finalmente tra le mani delle chiare linee guida per contrastare il diffondersi della cultura socialista nell’economia. Dopo aver conquistato l’Europa democratica, questa cultura stava diffondendosi in America: esisteva un più che fondato rischio, secondo Powell, che la guerra ideologica contro il sistema delle imprese e i valori della società occidentale avrebbe potuto avere successo. In sostanza, i conservatori avevano deciso di combattere le idee della sinistra rivolgendole contro le sue stesse armi e facendo uso di una propaganda aggressiva. In breve, nel memorandum l’autore metteva subito in chiaro da quali settori della società americana giungessero le maggiori critiche al sistema capitalistico: “Le più inquietanti voci che si uniscono al coro dei critici sono giunte da parte di elementi della società assolutamente rispettabili: dai campus del college, dai pulpiti delle chiese, dai media, da riviste intellettuali e ricerche, dalle arti, dalle scienze e dai politici”. Inoltre, l’avvocato si domandava: “Qual è stata la risposta del business a questo massiccio assalto ai suoi fondamenti economici, alla sua filosofia, al suo diritto di continuare a gestire i propri affari e quindi alla sua integrità? La dolorosa e triste verità è che il business ha dato risposte di fatto scarsamente visibili”. Non c’era, quindi, più tempo da perdere: bisognava reagire con determinazione e intelligenza alla strategia della sinistra. L’avvocato non si perse d’animo di fronte a quell’improbo compito e dettò i suoi “comandamenti” che riguardavano la creazione di uno staff di studiosi altamente qualificati nelle scienze sociali; monitoraggio dei libri di testo e di alcuni programmi televisivi; pubblicazione di articoli di esperti su un largo spettro di riviste e periodici all’attacco ai vari Nader, Marcuse e di tutti coloro i quali apertamente cercavano di distruggere il sistema. Lo scritto dell’avvocato Lewis Powell fu determinante per la nascita di numerose fondazioni e istituti tra i quali l’Heritage Foundation: un pensiero, il suo, che avrebbe ispirato la politica di Ronald Reagan.
Sempre in quegli anni, il 23 giugno del 1973, per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, fu costituita la “Commissione Trilaterale”, un’associazione di privati cittadini dell’Europa occidentale, del Giappone e del Nord America, con l’obiettivo di “promuovere tra le suddette regioni del mondo atteggiamenti e processi di cooperazione”. La Trilaterale era un club esclusivo di cui facevano parte personaggi del calibro di Zbigniev Brzezinski, Henry Kissinger, Giovanni Agnelli, Edmond de Rothschild. In tempi più recenti, ne hanno fatto parte tanti politici come Mario Monti, George W. Bush, Dick Cheney, Bill Clinton. Ho richiamato l’attenzione su questa peculiare associazione privata non perché io sia succube della cosiddetta “teoria del complotto”, ma solo perché ritengo che essa sia uno straordinario strumento di analisi politica al servizio degli studiosi di scienze sociali. Non deve stupire più di tanto il fatto che anche la cosiddetta “destra” economica si sia occupata del funzionamento delle democrazie in Occidente. Quanto poi alla favola che tende ad addebitare alla Trilaterale oscure trame volte ad indebolire la vita democratica, – i suoi detrattori l’accusano di esercitare una pressione politica occulta sui governi delle nazioni industrializzate al fine di orientarne la politica sui propri interessi – mi sembra frutto di una forzatura, soprattutto se si legge il rapporto della Commissione, pubblicato nel 1975 con il titolo “The Crisis of Democracy”. Certo, il rapporto guardava con favore alla creazione di sistemi democratici “decisionisti”e individuava una minaccia alla democrazia negli intellettuali contrari ai governi subordinati al capitalismo monopolistico. Secondo il rapporto, la maggioranza dei problemi politici e governativi degli Stati Uniti derivavano proprio da un eccesso di democrazia e perciò la soluzione indicata stava nella restaurazione del prestigio e dell’autorità delle istituzioni forti a livello governativo. Lo stesso rapporto aggiungeva che, nonostante in Francia e in Italia i partiti comunisti propugnassero il rovesciamento della “democrazia borghese” in nome del socialismo rivoluzionario, la loro stessa partecipazione al governo non avrebbe determinato la fine della democrazia”. Quel punto di vista, reso pubblico in piena Guerra Fredda, rappresentava una grande apertura di credito verso l’affidabilità democratica dei partiti comunisti francese e italiano. Non c’è dubbio, comunque, che leggendo alcuni passaggi del rapporto permangano dubbi sulla volontà della Commissione di voler interferire sui processi democratici in atto. L’obiettivo degli autori si configura, in ultima analisi, con la volontà di screditare l’attività dei mezzi di comunicazione e di opporsi a quello che viene definito come un “eccessivo attivismo” dell’informazione.
In quegli anni, si lavorava, non solo negli Stati Uniti, per dare una svolta all’economia: anche di qua dell’Atlantico c’era un certo fermento intellettuale. Ad esempio, in Gran Bretagna questa temperie portò all’affermazione dell’Istitute of Economic Affairs (IEA), che ebbe un ruolo primario nel diffondere la politica del laissez-faire. Attraverso un lungo percorso di ricerca, pubblicazioni e proposte, negli anni del predominio dello statalismo laburista e delle teorie keynesiane in economia, lo IEA aveva rovesciato la cultura politica britannica: da minoranza emarginata esso era lentamente diventato ideologicamente dominante.
Come scrive Castellani, dopo alcuni decenni di sofferenza, la cultura capitalista era ritornata egemone sulle due sponde dell’Atlantico. I tempi erano perciò propizi perché gli Stati Uniti e la Gran Bretagna decidessero di comune accordo di accelerare il processo decisionale che avrebbe portato alla piena restaurazione delle politiche liberiste. Per raggiungere l’obiettivo, prima di tutto, tali governi modificarono le linee strategiche di alcune importanti istituzioni economiche pubbliche, quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale. Sul rilievo che tali scelte hanno avuto nel sorgere di quel fenomeno chiamato “globalizzazione” permangono, tuttavia, due antitetiche scuole di pensiero: una sposa la tesi che tale fenomeno sia stata la conseguenza di una precisa scelta politica operata dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalle lobby; l’altra sostiene che si sia trattato di un processo economico pressoché spontaneo.
In molti sostengono che il successo della globalizzazione sia stato facilitato dal verificarsi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica – uno degli eventi più sconvolgenti per gli equilibri geopolitici del XX secolo. Forse sarebbe più corretto dire che esiste una correlazione tra il processo economico avviato dalla globalizzazione e il crollo del sistema comunista. Joseph E. Stiglitz sostiene che la caduta del muro di Berlino, alla fine del 1989, abbia segnato l’inizio di una delle più importanti transizioni economiche di tutti i tempi, ovvero il secondo coraggios...