Le parole per dirlo
La partita di ping pong
Pensavo che si potrebbe fare l’amore… ma pensavo che fosse impossibile. È possibile?
Dipende.
Dipende da cosa?
Dipende se c’è un motivo.
In che senso?
Se c’è un motivo, allora non vedo perché, se non c’è, allora non vedo perché no.
Non capisco…
“Senti, che lavoro… me ne ero dimenticato, che lavoro fai?”
“Beh, mi interesso di molte cose: cinema, teatro, fotografia, musica… leggo…”
“E… concretamente?”
“Non so, cosa vuoi dire…”
“Come non sai? Che lavoro fai?”
“Nulla di preciso…”
“Va be’, come campi?”
“Ma te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo… conosco, faccio delle cose…”
“E l’affitto?…”
Ogni volta che mi trovo a parlare di comunicazione mi tornano in mente questi due dialoghi: il primo fra Michele e Cristina, il secondo fra Michele e Flaminia, entrambi tratti dal bellissimo film Ecce Bombo, di Nanni Moretti, che nel film interpreta la parte di Michele. Tale film descriveva sapientemente, nel 1978, ciò che Goffredo Parise definì in un suo articolo sul Corriere della Sera: “l’ideologismo verbale incontrollato e permanente del ’68”.
Nascono spontanee le domande: “ma, in definitiva, cosa è la comunicazione?” ed “esiste la non comunicazione?”.
Dice Annamaria Testa: “Comunicare è una partita a ping pong che possiamo giocare bene o giocare male, ma che non possiamo non cominciare a giocare né interrompere”.
Sappiamo che la non comunicazione non esiste e che perfino il silenzio è comunicazione, è un bene primario, una necessità…
Per bene che vada, quando non parliamo, per caso o per decisione, capita o può capitare di essere comunque interpretati e di ritrovarsi citati anche “tra virgolette”, con scarse possibilità di potersi difendere in maniera adeguata.
Quindi, vale quasi sempre la pena di comunicare, esprimendo ciò che si pensa o, almeno, ciò che si intende dire.
Comunicare non è semplice, come invece la maggior parte delle persone crede, e non significa semplicemente: parlare, scrivere, interloquire, tenere un discorso, leggere una relazione…
Per sapere se abbiamo comunicato e se abbiamo comunicato efficacemente occorre attendere che il processo di comunicazione sia ultimato verificando se e cosa coloro cui la comunicazione era diretta hanno ascoltato e capito.
Comunicare vuol dire “mettere in comune”, quindi per impostare correttamente un’azione di comunicazione e sperare che abbia successo, occorre conoscere bene il contesto nel quale ci troviamo e rispetto al quale intendiamo comunicare, la lingua, le abitudini e credenze, il valore e il significato che le parole e i silenzi hanno in quel contesto… e soprattutto, una volta soddisfatte tutte queste pre-modalità, bisogna conoscere bene l’argomento che si vuole trattare e trasmettere.
Abbiamo già detto che sapremo se la nostra comunicazione è stata efficace soltanto alla fine, quando sarà possibile verificare cosa è stato recepito, cosa è stato capito, e cosa è rimasto nella mente di chi ha ascoltato. Si tratta, dunque, di prendere coscienza del feed back.
Il problema non è banale e studiosi di tutto il mondo hanno dedicato e continuano a dedicare tempo ed energie nel tentativo di conoscere sempre meglio la comunicazione, le sue implicazioni e conseguenze.
Un’efficace esemplificazione del fenomeno, scaturita molti anni fa da una serie di studi sull’argomento, e a nostro avviso ancora attuale, è divenuta e resta, ancora oggi, importante spunto per discussioni e analisi sulla comunicazione.
Tale esemplificazione si basa sul parametro “cento” attribuito a ciò che una persona intende comunicare a un’altra e analizza come il processo di comunicazione si sviluppi e da quali e quante dispersioni è caratterizzato il percorso del messaggio.
Indicato con 100 ciò che si intende comunicare, spesso ciò che viene effettivamente comunicato risulta 70; il destinatario del messaggio recepisce 40 e di questo 40 capisce in maniera completa e corretta il 50%.
Siamo quindi arrivati al 20% di ciò che avevamo intenzione di comunicare all’inizio. Sembrerebbe provato che l’interesse si concentri soltanto al 75% di ciò che generalmente si ascolta o si comprende; quindi dal 100 iniziale siamo arrivati a 15 e a questo punto scattano altri meccanismi: cosa si accetta, cosa si crede, e cosa si ricorda di ciò che è stato ascoltato dall’inizio?
Gli studi ci indicano un 15 che diventa 10, poi 5 infine 2…
Anche se dovessimo ritenere una forzatura l’esempio citato, è certamente noto a tutti il peso della dispersione nella comunicazione e quanto sia difficile riuscire a comunicare esattamente ciò che si vuole.
Enorme la distanza tra ciò che si vuole dire, e a volte si è convinti di aver detto, e ciò che invece, alla fine, l’ascoltatore ha recepito, capito, condiviso ed è disposto, consciamente o inconsciamente, a ricordare.
Dovremmo imparare a metterci sempre dalla parte di chi ascolta e domandarci: “Se mi dicessero ciò che sto dicendo io, capirei quello che voglio si capisca?”
Spesso sottovalutiamo l’importanza di possedere informazioni complete sull’argomento che vogliamo tra...