Se all'inferno cantano gli uccelli
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Se all'inferno cantano gli uccelli

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Se all'inferno cantano gli uccelli

About this book

L'incredibile e struggente vicenda del soldato inglese Horace 'Jim' Greasley, catturato dai nazisti e rinchiuso in un campo di concentramento polacco, dove riuscì a sopravvivere per ben cinque anni. In quell'inferno fiorì l'amore per una ragazza tedesca che lavorava come interprete.
Una storia di passioni e tormenti, uniti all'eroica volontà di aiutare i compagni di prigionia. Una vicenda che dimostra come l'amore possa nescere anche nella più assurda delle situazioni e come un uomo riesca a conservare la forza della speranza là dove c'è solo morte e disperazione.
A settant'anni da quegli avvenimenti, ormai novantenne, Horace è riuscito a raccontare allo scrittore Ken Scott, lucidamente e con il conforto di testimonianze e documentazioni, ciò che accadde nei cinque anni di internamento. Ma soprattutto la travolgente passione per Rosa Rauchbach. " In quei campi di sterminio, in quei posti terrificanti, gli uccelli riuscivano a cantare? " " Sul cartello stradale, a pochi passi da noi, c'era un pettirosso che sembrava assistere alla scena. Cinguettava, cantava e spostava la testa da una parte all'altra senza fuggire "

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1
Joseph Horace Greasley aveva amato la vita nella fattoria dei suoi genitori da quando poteva ricordare. Gli piaceva mungere la mezza dozzina di vacche, badare alle galline e dare il pastone ai maiali, ma la sua attività preferita in assoluto era prendersi cura dei pony gallesi di suo padre.
Mentre sostituiva il terreno salato nelle stalle, rigirava il fieno e le rigovernava, quelle creature dal portamento elegante incombevano su di lui, che ai tempi era solo un bambino. Ma non ne era mai stato intimorito.I pony a loro volta sembravano apprezzare la presenza di quel ragazzino che tutti i giorni si dava da fare tra le loro zampe, portando il cibo e cambiando l’acqua.
Joseph Horace Greasley era sempre stato chiamato Horace; ci aveva pensato sua madre, fin da quando era piccolissimo. Nessuno doveva chiamarlo Joe come suo padre. Per lei era francamente incomprensibile che qualcuno volesse abbreviare il nome di una persona.
A Horace piaceva la massacrante aratura manuale dei campi, amava la semina e in generale fare le cose per bene, in modo che tutta la famiglia godesse dei frutti dei circa dodici ettari lasciati in eredità dal nonno parecchi anni prima. La casa si trovava al numero 101 di Pretoria Road, a Ibstock, in fondo a una fila di casette a schiera per minatori.
Horace, il suo gemello Harold, la sorella più grande Daisy, la piccola Sybil e il neonato Derick erano più fortunati della maggior parte delle famiglie che vivevano in quel periodo, prima della seconda guerra mondiale. Anche se non era ancora stato introdotto il razionamento, la situazione era critica, e nonostante il padre di Horace lavorasse a tempo pieno nella miniera locale di carbone, di denaro ne girava poco, per usare un eufemismo. Ma questo non aveva la minima importanza. Horace e suo padre facevano il possibile perché alla famiglia non mancasse niente.
Joseph Greasley senior era un minatore, un prima linea con un turno di dieci ore nella vicina miniera di Bagworth, e ogni mattina si doveva alzare dal letto alle tre e mezza per mungere le vacche. Prima di andare al lavoro, qualche ora dopo, scrollava il giovane Horace che, nonostante una profonda stanchezza e delle spesse occhiaie, era pronto a sostituirlo quando questi usciva di casa.
Gli animali si fidavano di Horace e lui si sentiva a proprio agio in loro compagnia: il rispetto era reciproco. Horace era il padrone, colui che li nutriva regolarmente, che si prendeva cura delle lettiere e curava le loro ferite, e loro sembravano percepirlo. Erano i suoi animali, e lui si sentiva il ragazzo più fortunato della scuola. Compresi polli e pony aveva all’incirca cinquanta bestiole di cui prendersi cura. I maiali, così brutti e sporchi, erano i suoi preferiti. La vita non era stata generosa con loro, ma non c’erano dubbi che li amasse più di tutti.
John Forster, che abitava al numero 49 della stessa via, una volta in classe si era vantato di avere ben sette animali domestici. Tre pesci rossi, un cane, due gatti e un topolino. Puah! Horace l’aveva messo a tacere con una litania di nomi di pony gallesi, vacche, maiali, persino di polli. Ventidue polli, all’ultimo censimento, ognuno con un proprio nome. Solo che non erano animali da compagnia, non proprio insomma, e Horace ne era consapevole.
Ogni anno, a novembre, quando il padre uccideva il maiale per integrare l’alimentazione familiare, Horace si ritrovava immerso in una rassegnata tristezza. La riserva di carne durava fino a Natale, a volte addirittura oltre. Horace se ne faceva una ragione, se non altro quando, nel fine settimana, gustava il panino al bacon o l’arrosto di prosciutto durante il pranzo domenicale, che comprendeva patate arrosto dei loro campi e spesso un uovo o due raccolti quella stessa mattina. Era la catena alimentare, la legge della giungla, la sopravvivenza del più forte. L’essere umano è carnivoro, e la famiglia Greasley di carne che gironzolava per i campi ne aveva parecchia.
Dopo la macellazione del maiale Horace rimaneva seduto per ore – non per scelta sua, ma perché era quello che ci si aspettava da lui – a sfregare il sale sulla carne, per conservarla. Ogni ora suo padre entrava nel grande retrocucina all’aperto, dove il giovane Horace stava seduto a lavorare sul cadavere del suo amico. Guardava la carne, la tastava, in certi casi ne tagliava una fetta e, dopo averla assaggiata, proclamava: “Ancora sale!”
Le spalle di Horace si piegavano, le dita già rosse, gonfie e doloranti, ma non si lamentava mai e nemmeno metteva in discussione gli ordini del padre. Il maiale, che solo pochi giorni prima aveva un nome proprio, finiva senza troppe cerimonie culo all’aria, e un’altra libbra di sale gli veniva spalmata addosso.
Al termine della salatura, suo padre arrivava nel retro con un grosso coltellaccio da macellaio, e con gesti esperti faceva a pezzi l’animale. Le cosce, destinate a diventare prosciutti, venivano tolte e lasciate stagionare in una fresca dispensa vicino all’ingresso, mentre i tranci di pancetta finivano appesi nella tromba delle scale che portavano alla zona notte, su al primo piano. Era uno spettacolo bizzarro, ma quello era il posto più adatto per appenderle: suo padre e sua madre avevano discusso più di una volta, a questo proposito.
“È il punto più arieggiato della casa, riceve un flusso costante di ossigeno che conserva la carne per diverse settimane” spiegava lui.
Mabel non discuteva più di tanto. Sapeva che il marito aveva ragione, e che nessun’altra famiglia della loro strada poteva disporre di una tale abbondanza di cibo. Il fatto è che era proprio un brutto spettacolo, in particolare quando veniva in visita il vicario locale. Che vergogna!
Una volta, il vicario Gerald O’Connor si presentò la settimana successiva all’uccisione del maiale. Mabel lo fece entrare, e lui la seguì attraverso il soggiorno con un’espressione di disapprovazione. Si rasserenò dopo una tazza di tè, ma soprattutto quando lei gli consegnò un bel pezzo di pancetta da un chilo e mezzo, con la quale giurò solennemente di preparare un gran pentolone di brodo da vendere per la raccolta di fondi natalizia.
“Brodo invernale bollente” annunciò gongolando. “Due pence a tazza.”
Diverse settimane più tardi, Mabel si recò alla fiera, ma nonostante tutta la sua buona volontà, proprio non le riuscì di trovare il banco che serviva il brodo di pancetta.
Il giovane Horace stava aspettando con ansia il 25 dicembre, giorno del suo prossimo compleanno. Poco tempo prima, un certo Adolf Hitler era stato eletto cancelliere della Germania.
Il giorno di Natale del 1932 Horace compì quattordici anni, e suo padre gli regalò la sua prima arma da fuoco, un fucile Parker Hale 410 a colpo singolo. Era il premio per le lunghe ore passate a sgobbare nella fattoria, il suo modo di ringraziarlo. Harold non ricevette un fucile, ma solo un paio di libri, una mela, un’arancia, qualche nocciolina. Sybil, la sorella maggiore, non ebbe proprio nulla. Troppo grande, spiegò la madre. A Daisy e Derick andò un po’ meglio. Horace ricordava vagamente un trenino di legno per Derick e una bambola – o era una casa per le bambole? – per Daisy. Horace non poteva ricordarselo; aveva avuto occhi solo per una cosa: quando aveva imbracciato il fucile, le mani gli tremavano per l’eccitazione.
Aspettare di sparare il primo colpo fu una tortura. Suo padre aveva fatto sedere la famiglia a tavola, dove li aspettava la colazione natalizia composta da uova e pancetta, panini caldi al burro e tè fumante con l’obbligatorio cucchiaino di whisky, una sorta di usanza Greasley per la mattina di Natale. Il Parker Hale stava appoggiato in cima alla credenza e sembrava quasi sbeffeggiarlo. Tra un morso di pancetta e un boccone di pane caldo Horace guardava suo padre, poi il fucile, poi ancora suo padre.
“Ricordati, non è un gioco” gli disse, mentre si avvicinavano al boschetto ceduo all’estremità della fattoria, facendo scricchiolare con i loro passi il terreno ghiacciato. Il suolo e gli alberi erano ricoperti da una spolverata di neve che sembrava zucchero a velo.
“Devi trattare il fucile con rispetto; è una macchina per uccidere – conigli, anatre, lepri, persino esseri umani.” Indicava l’arma che Horace teneva stretta con entrambe le mani, cercando con tutte le forze di ignorare il freddo pungente e desiderando di tornare a casa a prendere i guanti di lana. Ma quel giorno non lo avrebbe fatto, nemmeno se fosse stato abbandonato in Siberia a meno quaranta gradi.
“Quel fucile può ammazzare un uomo, ricordatelo, e stai attento a dove diavolo lo punti. Se ti becco a puntarlo contro di me ti ci spacco la testa.”
Nelle settimane successive, suo padre insegnò a Horace tutto il necessario. Gli spiegò come smontarlo, come pulirlo e che calibro di proiettili utilizzare per cacciare prede di diverse dimensioni. Ma soprattutto gli insegnò a sparare. Passarono ore a colpire bersagli appesi agli alberi, e barattoli appoggiati sui rami e sui pali della staccionata. Horace sparò al suo primo coniglio dopo soli quattro giorni; suo padre andò a recuperarlo e gli mostrò come scuoiarlo e togliergli le viscere, in modo che fosse pronto per essere cucinato. Quella sera la famiglia mangiò timballo di coniglio, e più di una volta Joseph senior precisò che il cibo che stavano gustando era stato procurato da Horace. Il petto di entrambi era gonfio d’orgoglio.
Suo padre spiegò quanto fosse importante uccidere solo per nutrirsi, e quanto invece fosse sbagliato per il solo gusto di farlo. Horace diventò un tiratore esperto, in grado di colpire uno storno o uno scricciolo da una distanza di cinquanta metri. Ma dopo averlo fatto, e lo faceva solo di rado, soffriva di un fortissimo senso di colpa. Un giorno aveva sparato un colpo a casaccio a un giovane pettirosso, senza nemmeno pensare di poter colpire qualcosa di così piccolo. Quando i pallini di piombo avevano squarciato la carne tenera, le piume del pettirosso erano esplose e l’uccellino era precipitato sull’erba dal cavo del telegrafo, Horace era corso a ispezionare la preda urlando di gioia. Preso in mano l’uccellino, percependo il suo calore, la gioia si era trasformata in angoscia.
Perché? si era chiesto, mentre un rivolo di sangue gli stillava sul palmo della mano e il pettirosso esalava l’ultimo respiro. Perché l’ho fatto? A che scopo?
Giurò a se stesso che da quel momento in poi non avrebbe mai più sparato a una creatura vivente, a meno che non dovesse essere cucinata e mangiata. Avrebbe spezzato il giuramento nel ’40, sui campi e tra i filari di piante della Francia settentrionale.
Più avanti, quello stesso anno, Horace lasciò la scuola insieme al fratello Harold, i due H, come venivano affettuosamente chiamati. I gemelli non erano inseparabili come capita a volte. Il fatto è che erano div...

Table of contents

  1. Il libro
  2. L’autore
  3. Ringraziamenti
  4. Prefazione dello scrittore Ken Scott
  5. Prologo
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. 18
  24. 19
  25. 20
  26. 21
  27. 22
  28. 23
  29. 24
  30. 25
  31. 26
  32. 27
  33. 28
  34. Epilogo
  35. Copyright