La retorica
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Il manuale più completo per conoscere la nobile arte della retorica
La retorica è una vecchia signora che per secoli ha fatto parte di ogni enciclopedia delle arti e scienze redatte nella cultura dell'Occidente, ma poi, quando dall'Illuminismo in avanti è sembrato che la sola scienza sicura fosse quella affidata ai procedimenti rigorosi della ragione analitica, se ne è decisa la rottamazione. Finché, nel secolo scorso, un giurista belga, Charles Perelman, è venuto a ricordarci che ci sono settori di fondamentale importanza per l'uomo, quali i processi nei tribunali, i dibattiti politici, le valutazioni critiche delle opere d'arte, in cui non si può pretendere di raggiungere il vero, ma soltanto un qualche grado di probabilità, e comunque bisogna lottare per imporre le proprie tesi, appoggiandole a una argomentazione non solo sicura nei passaggi, ma anche condita con i piaceri dell'eloquenza e con una calda onda emotiva. Così, il busto di Cicerone è stato tolto dal solaio e rimesso in bella vista. Questo anche perché, come McLuhan ci ha insegnato, oggi grazie al web e alla rete le parole non volano più via ma restano allo stesso modo della scrittura. Tutta questa trama secolare viene qui seguita e ricostruita punto per punto, un occhio alla filologia, un altro all'attualità, infatti questo libro realizzato già nel 1979, ora rimesso in circolo opportunamente riveduto e corretto.
L'AUTORE: Renato Barilli, nato nel 1935, professore emerito presso l'Università di Bologna, ha svolto una lunga carriera insegnando Fenomenologia degli stili al corso DAMS. I suoi interessi, muovendo dall'estetica, sono andati sia alla critica letteraria che alla critica d'arte.
È autore di numerosi libri tra cui: "Scienza della cultura e fenomenologia degli stili" (1982, nuova ed. 2007), "L'arte contemporanea" (1984, nuova ed. 2005), "La neoavanguardia italiana" (1995, nuova ed. 2007), "L'alba del contemporaneo" (1995), "Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna" (2003), "Maniera moderna e Manierismo" (2004), "Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1970-2005" (2006), "La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj" (2010), "Autoritratto a stampa" (2010), "La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil" (2014). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato "Storia dell'arte contemporanea in Italia. Da Canova alle ultime tendenze" (2007) e "Arte e cultura materiale in Occidente" (2011).
È stato organizzatore di molte mostre sull'arte italiana dell'Ottocento e del Novecento.

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1. L’età greca
1.1. Le origini e i Sofisti
Si suole assegnare la nascita della retorica nella cultura greca agli inizi del V secolo a.C. Il luogo sarebbe stato la Magna Grecia, e più precisamente Siracusa, dopo la caduta del tiranno Trasibulo, cui seguirono numerose cause per restituire ai legittimi proprietari le terre loro sottratte nel periodo della tirannide. È dunque alla ribalta fin dall’inizio il genere giudiziario, uno dei campi tipicamente riservati al discorso retorico. Ma riesce difficile calcare troppo la mano su tale precedenza cronologica, e soprattutto trarne delle conseguenze ideologiche, come pure ha tentato di fare Roland Barthes nel suo disegno di svolgimento della retorica antica. Sicuramente in un mondo come quello greco, dominato dall’organizzazione sociale della polis, anche il genere deliberativo o assembleare non dovette tardare a essere coltivato. Forse un certo ritardo sugli altri due lo ebbe lo sviluppo del terzo genere (epidittico, laudativo, “dimostrativo”, cioè il tessere le lodi o il biasimo di qualche personalità), genere meno funzionale e immediato degli altri, quasi voluttuario, la cui fioritura sarà legata soprattutto ai Sofisti.
Sparse indicazioni ci dicono che i pre-socratici erano comunque sulla strada giusta. Dopo i leggendari Tisia e Corace, cui è attribuito il primo avvio, troviamo cenni che riguardano Empedocle e la sua tendenza ad agganciare la retorica alla magia, calcando sulle componenti emotive. I pitagorici introducono la nozione fondamentale del verosimile (ta eicóta), e Parmenide a sua volta introduce la nozione di doxa (opinione).
Ma spetta senza dubbio ai Sofisti aver costituito il primo grande episodio della storia della retorica, e più ancora, di averne apprestato una specie di modello acronico, o meglio, una certa congiunzione di concezioni epistemologiche ed etiche straordinariamente propizie al suo sviluppo. Come si diceva sopra, la retorica trova la sua ragion d’essere solo là dove venga posta in dubbio l’esistenza di una verità come dato esterno al commercio degli uomini, al loro libero scambio e confronto di opinioni, che non può non avvenire attraverso lo strumento verbale. Protagora (n. 486 a.C.) compie il passo decisivo in questa direzione quando afferma il proverbiale “Di tutte le cose è misura l’uomo”, di cui abbiamo almeno due versioni. La più esplicita ci è data da Platone nel Cratilo: “in quanto come le cose appaiono a me, tali sono per me; come a te, tali sono per te” (Sofisti, p. 38).* Dichiarazione di totale fenomenismo che dissolve radicalmente il concetto di vero facendolo coincidere col verosimile o probabile, chiarendo inoltre esplicitamente, almeno nella formulazione giuntaci attraverso Platone, il diritto di ciascun soggetto di attenersi al suo “vissuto”. Un po’ diversa la versione più tarda che ci fornisce Sesto Empirico, ove viene pur sempre ribadito l’arbitrato ultimo del soggetto, ma non si specifica tanto l’alternativa tra un individuo e l’altro, quanto piuttosto il diritto di pronunciarsi circa l’esistenza o meno delle cose: “L’uomo è misura delle cose, di quelle che ci sono in quanto ci sono, e di quelle che non ci sono in quanto non ci sono” (p. 42)1.
Ma in ogni caso non ci può esser dubbio circa il dissolversi del concetto di verità, o almeno circa la sua estensione inflazionata: il fenomeno ha sempre una sua verità, anche se questa, ovviamente, diviene provvisoria e instabile perché urta subito contro una verità apparsa successivamente allo stesso soggetto, e posta in campo da un soggetto antagonista. Da qui l’esaltazione della retorica, o tecnica del “dire contro”, del fare ricorso alle antilogie, in cui Protagora emerge, fino a un grado che oggi potremmo dire professionale. Tra i dati della sua tumultuosa scheda biografica ripresa con molta evidenza dai filosofi e dagli storici posteriori emerge e fa scandalo il fatto che egli fosse il primo a chiedere un compenso appunto per la prestazione professionale della logografia, della stesura di un discorso per uso altrui. Altra circostanza drammatica attestata dai biografi, il sacco e l’incendio cui la sua biblioteca fu sottoposta dagli Ateniesi, quando egli osò applicare il suo fenomenismo integrale, oltre l’ambito umano, a quello divino, “sospendendo” il giudizio attorno all’esistenza degli dei (Perì theón): “non so se sono né se non sono” (p. 78).
Ma la sua massima forse più significativa, e anche più intrinseca alla professione di retore, quella che ne fissa come meglio non si potrebbe compiti e fini, si compendia nel “rendere superiore il discorso (o la ragione) inferiore” (p. 50). Ove evidentemente i detrattori della retorica possono scorgere il compiersi della peggiore nequizia “sofistica”, nell’accezione svalutativa del termine: occultare la verità, offrire sleali armi pratiche alla posizione inferiore sul piano logico, perché essa possa risollevarsi e imporsi malgrado tutto. Ben diversamente stanno le cose, se partiamo dal presupposto che, almeno nell’universo delle faccende umane, non c’è “verità” sicura e univoca che possa trionfare; ci sono solo argomenti più o meno probanti; ed è allora dovere-diritto di chi è persuaso della bontà dei propri renderli “migliori”, più competitivi, farli accettare agli altri. Una delucidazione di straordinaria onestà di tale brano ci viene dal nemico più spietato dei Sofisti, Platone, che nel Teeteto lo esemplifica facendo appello al contrasto tra le opinioni di una persona sana e di una malata. È escluso che ci sia un criterio necessitante per “convincere” il malato di essere tale: bisognerà invece esercitare una paziente opera educativa-persuasiva per portarlo ad avere opinioni “migliori” (Opere, p. 300). Questo il compito nobile dei Sofisti, nell’autodifesa che nel dialogo platonico Protagora effettua di sé e del suo metodo, e che Platone ha l’onestà di lasciargli svolgere.
Alquanto più capziose le argomentazioni di Gorgia (483 ca-374 ca), l’altra figura dominante del fronte sofista. Nell’opera Intorno al non ente o intorno alla natura, che potrebbe essere posta in parallelo con il Perì theón di Protagora, se non altro per la medesima tematica metafisica avanti lettera, Gorgia non si limita alla prudente “sospensione del giudizio” del suo predecessore, ma perviene a una serie di asserzioni negative tanto perentorie quanto le tesi positive del pensiero dogmatico: “Nulla esiste; se anche vi è un’esistenza non può venir rappresentata; se anche può venire rappresentata, non può certamente essere comunicata e spiegata agli altri” (p. 38). Ontologia, gnoseologia, logica, l’una dopo l’altra vengono travolte dalla stessa ondata nichilista. D’altronde è palese il carattere di esercitazione appunto sofistica di un saggio come questo, ove il metodo delle antilogie diviene fine a se stesso. Ugualmente capzioso l’Encomio di Elena, che più che appartenere al genere laudativo, come farebbe supporre il titolo di encomio, si situa in quello giudiziario, trattandosi di una specie di arringa in difesa del fatale personaggio mitologico. Comunque, anche in tale occasione compare, diversamente da Protagora, un’assenza di mezze misure e un’argomentazione tutta spostata a favore dei poteri emotivi-irrazionali della parola. Non si tratta cioè di rivendicare lo statuto fenomenico delle cose, e quindi l’opportunità di misurare i rispettivi argomenti, tentando di rendere “migliori” i propri: “La parola è un potente sovrano… ha la virtù di troncare la paura, di rimuovere il dolore, d’infondere gioia, d’intensificare la compassione” (p. 99). Più avanti Gorgia la definisce un farmacon, quasi una droga. Fatto sta che chi cade sotto il suo influsso diventa incolpevole, perché a tanta fascinazione è impossibile resistere, e le responsabilità morali ricadono per intero su colui che esercita una simile potente azione narcotizzante. Elena pertanto è pienamente da assolvere, perché “incapace di intendere e di volere”, si direbbe con formula giuridica, quando ubbidì all’invito di Paride; tanto più che accanto alla malia della parola che penetra per l’orecchio vi è quella che passa per gli occhi, esercitata dalle statue o dai corpi belli. Nella versione gorgiana, i poteri emotivi e passionali del “significante” verbale ottengono un rilievo perfino eccessivo, contro cui sarà facile a Platone muovere una dura requisitoria. Posizione estrema, perché se in genere la retorica viene certo per rivalutare anche gli aspetti fisici del discorso, è suo compito non disgiungerli da quelli intellettivi: il movere deve porsi in equilibrio col docere. Ma conviene ancora osservare il carattere di esercizio, di exemplum fictum proprio dell’Encomio di Elena, quasi un topos letterario, frequentato in seguito anche da chi si guarderebbe bene dall’abbracciare le vedute estremiste di Gorgia.
È il caso di Isocrate (436-338), autore anche lui di una difesa di Elena che approda a risultati non molto diversi. Eppure il grande retore ateniese è forse il primo ad abbozzare una reazione contro i Sofisti (nell’orazione omonima), ove ne combatte l’eccesso di tecnicismo, di professionismo fine a se stesso, vale a dire la pretesa di poter costruire discorsi intrinsecamente validi, come se si potessero comporre allo stesso modo meccanico e obbligato secondo cui si ordinano in successione le lettere dell’alfabeto per dar luogo alle parole. Invece i discorsi possono essere belli solo se si accordano alle circostanze, se sono aderenti al soggetto e raggiungono una loro originalità non stereotipata (p. 438). Inoltre accanto alle regole tecniche o interne di costruzione del discorso bisogna ricordare la necessità di altri apporti esterni, di ordine morale. Intanto, il buon oratore dovrà curare la propria reputazione, godere di fama e di prestigio presso i cittadini (un anticipo dell’attenzione che Aristotele dedicherà appunto al “carattere” del retore). Inoltre è opportuno avere un ampio corredo di nozioni, non solo formalistiche, letterarie, ma anche relative alla cultura in generale, alla filosofia. Da notare però le molte riserve che Isocrate indirizza alle scienze che noi oggi diremmo fisico-matematiche, considerate come fantasticherie “simili ai giochi di prestigio che non giovano a nulla ma attirano l’ammirazione degli sciocchi” (Lo scambio degli averi, p. 518), o che tutt’al più costituiscono un’utile ginnastica mentale. Un tale disprezzo verso le scienze fisico-matematiche, che troveremo ben più ampiamente svolto e motivato in Cicerone, trae alimento sia dallo stato di arretratezza di queste, tutt’altro che “scientifiche” in molte fasi delle culture antica e medievale, sia dal fatto che il discorso retorico, per sua natura, si occupa prevalentemente delle scienze umane. Malgrado tutte queste avvertenze a riempire l’esercizio retorico di contenuti etici e filosofici, Isocrate ebbe soprattutto la fama di grande, elegante stilista dell’arte del dire, tanto che Aristotele fu indotto proprio dal successo di questo concorrente a prestare, nel terzo libro della sua Retorica, un’ampia attenzione alla lexis, arricchendo un quadro che nei due libri precedenti si era attenuto prevalentemente a una robusta struttura logica.


1.2. Platone: episteme contro doxa
Il secondo grande momento nella storia della retorica si deve ascrivere a Platone (428-347); ma è momento negativo, coincidente con la più rigorosa cancellazione o riduzione che la retorica abbia mai subito; e anche in seguito, quando un tale atteggiamento di rifiuto ricorrerà ciclicamente, si potrà constatare che al fondo dei suoi vari seguaci ci sarà sempre qualche traccia di platonismo.
Se i Sofisti vanificano la verità a favore dell’apparenza, in Platone avviene, al contrario, la più netta affermazione dell’episteme sulla doxa; e soprattutto si ha la difesa del carattere solitario, silenzioso della ricerca propria di chi muove verso la verità-episteme: ricerca che si situa lontano dalla folla, dalla moltitudine. L’intento di Platone è appunto quello di togliere ai “più” il diritto di arbitrare, di scegliere, di decidere. Viene da ciò un connotato di antidemocraticità, se almeno si prende il termine nel significato letterale, di potere alla maggioranza, e se ancor più lo si trasporta in sede epistemologica, investendo il “senso comune” del buon diritto di pronunciarsi sulle questioni riguardanti la comunità stessa. Spirito anticomunitario che si rivela anche negli atteggiamenti esteriori, nella rinuncia a piacere agli altri, a esser gradito nei gesti e negli abiti: quasi una “inurbanità” che si manifesta perfino come goffaggine di movimenti. Platone infatti rende famoso l’aneddoto di Talete, il primo dei filosofi presocratici, che distratto dalla contemplazione del cielo cade in un fosso, e ne fa appunto il simbolo di chi professa la ricerca di episteme contro tutti gli allettamenti di doxa.
Ciò non implica uno scavalcamento totale del logos, a vantaggio di una comunicazione muta e diretta, non mediata dalla parola. Al contrario, come è noto, Platone si presenta come il campione di una particolare modalità del logos, la dialettica, incessantemente contrapposta alla retorica. La prima, intesa come incontro di anime il più possibile immediato, e quindi affidato a interventi brevi, a proposizioni corte, costituite da un soggetto e da un predicato, senza digressioni e intrusioni di elementi estranei (brachilogia). La seconda, invece, intesa come arte mondana che vuole divertire, distrarre, piacere alla moltitudine, e per tale fine si vale della macrologia, o del discorso continuo e riccamente articolato, in cui è facile però disperdersi.
Va notato che la dialettica platonica è in realtà il prototipo di quello che poi in Aristotele sarà il logos analitico, e che già nelle pagine introduttive abbiamo proposto di considerare come la controparte polare via via incontrata nei secoli dalla retorica. La dialettica cui con tanta insistenza richiama Platone è infatti, prima di tutto, uno sforzo analitico di scomporre i discorsi, di risalire a elementi primi, e di predicare di essi poche categorie essenziali. Il discontinuo, il discreto viene pertanto opposto alla rotondità e complessità dei retori. E fa parte ugualmente della mentalità analitica il disprezzo per la veste sonora delle parole: i nomi sono le immagini, le copie delle cose, ed è bene quindi che risultino trasparenti il più possibile, venendo confinati a un ruolo strumentale, di pro-memoria, di tracce utili, prive tuttavia di una rilevanza autonoma. Si consuma il grande divorzio tra parole e cose, a vantaggio delle seconde, di cui poi Cicerone rimprovererà aspramente la filosofia di Socrate, del resto per gran parte filtrata e ricostituita dai dialoghi platonici.
D’altronde è anche vero che il dialogo, la partita a due, lo scambio di battute elementari ha un suo ruolo insostituibile, nell...

Table of contents

  1. Collana
  2. L’autore
  3. Introduzione
  4. 1. L’età greca
  5. 2. L’età romana
  6. 3. Il Medio Evo
  7. 4. L’Umanesimo e il Rinascimento
  8. 5. L’età moderna
  9. 6. L’età contemporanea
  10. 7. Il riscatto contemporaneo della retorica
  11. Bibliografia
  12. Copyright