Dentro al letto e altri racconti
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Dentro al letto e altri racconti

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Dentro al letto e altri racconti

About this book

Dalle riflessioni della narratrice nascono sette brevi racconti + due, differenti gli uni dagli altri ma appartenenti ad una stessa dimensione in cui la realtà scivola nel sogno e nel suo contrario. Situazioni sempre diverse trasportano in un territorio fatto di mistero, un mondo "altro" creato talvolta dai sensi allucinati dei personaggi e dove mutevolezza ed imprevedibilità sono in agguato per stravolgere le aspettative del lettore. L'autrice tocca con abilità varie corde dell'animo umano dando vita a un'opera in cui fantasia visionaria e poesia costruiscono immagini macabre o di struggente delicatezza che si intrecciano fra loro, suggerendo riflessioni sulla vita e la morte, sul relativismo delle percezioni, sull'impossibilità di conoscere il mondo per ciò che realmente è.
Una raccolta originalissima che accenderà il piacere di coloro che amano perdersi in mondi alternativi realizzati con la mente.

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Information

RITO DI VITA

Uno dei personaggi più singolari del paese era l’ebreo Osvaldo Levi, un ricco becchino un po’ matto. Tutti dicevano che gli mancava qualche venerdì poiché continuava a fare quello squallido mestiere di guardiano del cimitero nonostante le grosse somme di denaro accumulate con fortunate speculazioni in borsa, ma soprattutto per via di una strana fissazione che era nota a tutti i suoi compaesani e oltre i confini del villaggio. Osvaldo, infatti, aveva ricevuto in regalo da suo padre, anch’egli guardiano dello stesso cimitero, una pezza di stoffa intessuta di fili dorati che, secondo i racconti del genitore, racchiudeva la proprietà di risvegliare i morti se sfregata sopra le lapidi; una leggenda tramandatasi di bocca in bocca nella famiglia Levi voleva che questa stoffa prodigiosa fosse appartenuta niente meno che a Gesù Cristo, il quale se ne servì per resuscitare Lazzaro. Dunque nessun comandamento del Messia affinché la salma si alzasse e camminasse, bensì una semplice passata della pezza sulla pietra che chiudeva il sepolcro e il miracolo fu compiuto, pronto a ripetersi nei secoli a venire per mano dei discendenti di Lazzaro, al quale Cristo aveva infine donato la stoffa. La famiglia Levi era, ovviamente, l’ultimo ramo di quell’albero millenario che vantava come uno dei suoi frutti più antichi il fortunato amico di Gesù.
Osvaldo aveva raccontato che, oltre all’episodio di Lazzaro, erano noti ben sette casi di resurrezione per merito della stoffa, tutti risalenti al sedicesimo e al diciassettesimo secolo fuorché l’ultimo, avvenuto nella prima metà del diciottesimo; poi, per qualche ignoto motivo, il meccanismo magico si era inceppato e nessuno più era stato strappato dalle tenebre e riportato in vita. Il becchino non aveva comunque perso la speranza che, nelle sue mani di uomo religiosissimo e di salda integrità morale, la pezzuola avrebbe ripreso a compiere miracoli, e ne era talmente certo da passare molto tempo a strofinare le tombe del cimitero come avevano fatto suo nonno e poi suo padre. Questa attività apriva e chiudeva le sue giornate saldando le prime ore dell’alba con quelle del crepuscolo, costituiva la cornice di una vita che si dipanava fra bare e lapidi marmoree e, al tempo stesso, ne costituiva il senso più profondo. Se Osvaldo continuava a fare il becchino era infatti per poter svolgere liberamente ciò che lui stesso definiva una “missione”, un compito sacro condensato in una stoffa dorata che, da quasi duemila anni, veniva passata di mano in mano da padre a figlio. Solo un’ esiguissima schiera dei Levi aveva avuto il privilegio di ripetere l’azione del Divino con successo ed egli, ne era certo, era predestinato a farne parte: se lo sentiva dentro da quando era piccolo e accompagnava il padre a strofinare le tombe, con il cimitero ancora immerso nella luce lattiginosa dell’alba e gli occhi semichiusi per il sonno o per il timore riverenziale di possedere interamente con lo sguardo quel potenziale luogo dei miracoli. Talvolta il padre gli passava il quadrato di stoffa e lo incitava a proseguire il lavoro indicandogli le lapidi ancora da sfregare, ma il piccolo Osvaldo tentennava stropicciando la pezzuola nelle mani e soffermandosi a osservare a lungo i crisantemi che appassivano nei vasi. Sentiva, infatti, che era affidato alle sue manine di bambino (e non a quelle grosse del padre) il compito di riportare in vita la gente meritevole, e la solennità di un tale incarico lo atterriva e lo eccitava enormemente al tempo stesso; allora esitava, per paura e per procrastinare con sottile masochismo il momento tanto atteso. Con gli anni, a furia di spalare buche nel terreno e di trasportare bare, le sue manine si erano fatte grosse e ruvide come quelle del genitore, ma la certezza di essere stato scelto da Dio non era affatto mutata nel suo cuore.
Preso il posto di becchino al camposanto dopo la morte del padre, che avvenne quando era ancora adolescente, Osvaldo portò avanti la tradizione con maggiore dedizione dei suoi predecessori, raddoppiando il rituale giornaliero che fu esteso anche alle ore della sera dopo la chiusura del cimitero, e consolidando nella mente dei compaesani l’idea che i Levi erano matti da legare. Per molti di loro era diventata una simpatica abitudine quella di passare all’imbrunire davanti al cancello arrugginito (ma alcuni fra i più mattinieri facevano capolino in compagnia dei primi raggi del sole), spesso si trattava di piccoli gruppetti di amici o addirittura di intere famigliole che incastravano le teste fra le sbarre di metallo e osservavano attenti e divertiti Osvaldo aggirarsi fra le tombe. Certuni portavano la macchina fotografica, altri la cinepresa, c’era poi un pittore che, per un periodo, si sistemava tutti i giorni su una sedia pieghevole davanti a una grossa fenditura del muro di cemento tutt’attorno al camposanto e da là, tirati fuori cavalletto, tela, pennello e colori, dipingeva quella scena surreale. Osvaldo odiava gli sguardi indiscreti e canzonatori che insudiciavano la solennità del rito, così tentò di liberarsene foderando interamente il cancello di una spessa carta da parati e chiamando un muratore che gli tappasse la fenditura del muro. Tempo pochi giorni, il sindaco del paese, probabilmente anche lui compreso nella folla dei curiosi, gli intimò di liberare il cancello dalla carta poiché, a suo dire, gli spazi pubblici dovevano rimanere tali anche livello visivo, perciò non era permesso in nessun modo togliere alla vista comune l’interno del cimitero. Lo spettacolo poté quindi continuare a beneficio di tutti i voyeurs e alcune foto di Osvaldo vennero persino pubblicate su di un quotidiano nazionale, accompagnate da un trafiletto in cui il becchino veniva presentato come il “matto di B. di M”; effettivamente, il modus vivendi dell’uomo non poteva essere definito in altro modo che bizzarro. Anche la sua dimora era decisamente particolare, una casupola di pietre nere situata all’angolo del camposanto che maggiormente distava dall’entrata e che, a prima vista, non si capiva cosa fosse. La linea ad arco della facciata, forata da un’enorme porta di metallo ma da nessuna finestra, e l’imponente comignolo che sovrastava il tetto, a tal punto da sembrarne la continuazione, la facevano infatti assomigliare più a un forno per giganti che non a una casa. L’ interno non era mai stato visitato da nessuno, ma qualcuno mise in giro la voce che quel luogo non fosse che una sorta di secondo cimitero coperto o, per meglio dire, una macelleria di resti umani trafugati nella notte dal becchino e appesi con dei ganci al soffitto, per farne sa Dio cosa. La fioraia che lavorava vicino al camposanto aveva guadagnato enorme credito presso i suoi clienti, inserendosi con malizia nel chiacchiericcio e raccontando di aver assistito personalmente alla sistemazione di una testa di donna sopra un mobile della camera di Osvaldo, situata al primo piano della casa e dirimpetto al balconcino del negozio di fiori; fu sempre lei che completò l’opera creando un collegamento fra l’attività di strofinamento delle tombe e la collezione macabra dell’uomo. La sua intuizione fece il giro del paese incontrando l’approvazione generale e venne definita (non si sa poi su quali basi) di un’ “evidenza lapalissiana”, una ovvietà che modificò l’atteggiamento con cui la gente si accostava alle sbarre del cancello spiando i movimenti del becchino nell’ora del crepuscolo. Adesso le persone non erano più interessate a farsi due risate, bensì a poter arricchire con macabri dettagli le storie sul becchino. Che cosa si aspettassero di vedere, questo davvero non so dirlo. Forse che, a una passata di stoffa sulla lapide, seguisse una magica apertura della tomba e l’estrazione di cadavere da parte di Osvaldo proprio là, di fronte agli sguardi morbosamente interessati degli astanti? La gente, alle volte, è di una stupidità sconcertante.
Poco alla volta, Osvaldo finì per erigere un altro muro fra lui e gli altri, una parete più solida e impenetrabile di quella reale che già circondava il cimitero tagliandolo fuori dal paese, e che si trovò a oltrepassare esclusivamente per svolgere le sue normali mansioni di lavoro. Sdraiato sulle tombe, Osvaldo passava il tempo libero leggendo e fumando sigari cubani, suscitando fra l’altro i furori della gente che, schiumante dalla rabbia, lo giudicava un imbecille. Le persone si passavano di bocca in bocca sempre la solita considerazione, e cioè che Osvaldo era un egoista idiota perché, invece di utilizzare il denaro accumulato, magari in beneficenza se proprio a lui non interessavano i beni materiali, lasciava marcire la sua fortuna in cassaforte (la gente era certa che ne avesse una nascosta sottoterra nel cimitero) proprio come lasciava imputridire i corpi appesi nella casa. In questo modo, dicevano, remava anche contro l’economia e l’attività delle banche, non contribuendo alla circolazione del denaro. In realtà, Osvaldo alcune spese le aveva fatte, in primis per arredare la sua casa, che non era affatto un mattatoio quanto invece una dimora che rivelava un gusto fine e raffinato, e poi per tenere il cimitero in maniera decorosa. Fosse stato per l’amministrazione comunale, quel luogo sarebbe diventato il regno dell’abbandono e del degrado, mentre invece, grazie alla cura del becchino, esso assunse con il tempo un aspetto gradevole e composto che inspirava sentimenti di pacata serenità piuttosto che di angoscia.
Inoltre a Osvaldo piacevano i begli abiti e le stoffe preziose, per cui una notevole somma delle sue finanze era stata tramutata in guardaroba elegante, il quale donava alla sua figura un che di antico che avrebbe dovuto incutere rispetto, mentre invece suscitava ironici commenti e fortificava la certezza sulla pazzia dell’uomo. La gente avrebbe voluto vedere Osvaldo vestito con una tuta da lavoro o con abiti dimessi e incrostati di fango e terra, ma per Osvaldo il decoro e l’eleganza erano lo specchio della dignità dell’uomo, quella dignità che la gente non attribuiva a un becchino e men che mai a una persona mezza matta. Così si aggirava fra le tombe in smoking di raso nero gessato o di seta lucida e cangiante, con una tuba calcata sulla testa e in una mano un bastone che faceva roteare con grande abilità; dentro un tascapane di pelle, i libri e i sigari cubani e la sua preziosa stoffa.
Sostenuto da ideali di bellezza e di moralità e dalla convinzione di avere una missione sacra da compiere, Osvaldo avrebbe potuto dirsi felice se non fosse stato per un peso che si portava dentro da quando, quattro anni prima, sua nipote Angelica se n’era andata da questo mondo. La donna, figlia del fratello più anziano di Osvaldo, l’unico uomo della famiglia a non aver intrapreso la carriera di becchino e morto poco dopo la nascita della bambina, era stata, se così si può dire, “sentimentalmente allevata” dal giovane zio, di quindici anni maggiore. Essa, infatti, affidata alle cure della madre, una donna fredda ed egoista, aveva ricercato affetto e protezione in Osvaldo, dal quale si recava spesso a fare visita sin dalla più tenera età. Lo zio aveva sùbito provato un grande amore per quella bimba, un amore paterno fin tanto che ella era piccola ma poi, con gli anni, mutatosi forse in qualcos’altro che egli stesso cercava di nascondere nel fondo della coscienza. Quando poi la donna se ne andò nel Nord Italia al seguito di una compagnia teatrale, due anni prima della sua fine prematura, e il legame che aveva con lo zio fu sostituito da un cavo telefonico, Osvaldo provò un dolore che sovrastò la passione con cui si dedicava allo sfregamento delle tombe e che quasi gli fece dimenticare la sua missione. Addirittura capitò due o tre volte che rimanesse a letto tutto il giorno e che il cimitero non fosse aperto al pubblico. Accadde poi, per un maligno scherzo del destino, che proprio quando Osvaldo stava imparando ad accettare l’idea dell’allontanamento di Angelica, egli avesse ricevuto una telefonata dal marito della donna (nel frattempo Angelica si era sposata con un attore della compagnia teatrale), il quale gli annunciava la morte dell’amatiss...

Table of contents

  1. DENTRO AL LETTO
  2. MACCHIE DI RICORDI
  3. MISTIFICAZIONE
  4. EMOZIONI IN BOTTIGLIA
  5. VITA DA CANI
  6. UN TRANQUILLO WEEK-END IN FAMIGLIA
  7. ECCEZIONE (?)
  8. RITO DI MORTE
  9. RITO DI VITA
  10. Indice