Centopelli
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Centopelli

About this book

Elide Centopelli vive con il padre in un piccolo paese sulle rive del lago d'Iseo. La sua famiglia, da generazioni, gestisce un piccolo negozio di souvenir. Ma questa è solo una sorta di copertura perché nel negozio Centopelli si svolge ben altra attività: le persone entrano per non uscirne più. Per rivivere in eterno il loro "mentre perfetto".

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Information

CAPITOLO XXIV

 
Sandra non aveva il piede sinistro dall’età di dieci anni. Ma a Impruneta, così come a Firenze, tutti immaginavano che il piede sinistro non ce l’avesse mai avuto. Che fosse nata così.
In pochi sapevano. Mentre in tanti, immaginavano. Del resto come dar loro torto? A vederla camminare così svelta, mai nessuno avrebbe pensato che quel modo di ondeggiare da pendolo Sandra lo avesse dovuto apprendere anziché avercelo in dote genetica.
Comunque i pochi che sapevano, sapevano. E nel gregge degli altri, di sicuro, nessuno avrebbe mai immaginato che Sandra si allenasse a scappare da qualcuno. Neppure lei, in fondo, lo sapeva.
Che il reale merito della sua spigliatezza fosse però da accreditare al rancore, di quello sì, ne era cosciente.
Ogni mattina era quel sentimento che la spingeva a mettere una gamba e mezza fuori dal letto, a incastrare il piede di vetroresina sul moncherino.
Per Sandra il rancore aveva i contorni di una pietra liscia e nera che picchiava e batteva come un secondo cuore, prendendo energia dai brutti ricordi del passato. Perché si sa, il passato ha poteri straordinari… e quello di Sandra non era da meno. Anzi.
Il suo passato poteva essere racchiuso tutto in unica figura: quella del vecchio che aveva sulla coscienza (sempre che una coscienza, quell’uomo, l’avesse davvero) il suo piede di carne e di ossa.
Il vecchio era suo nonno. Ma Sandra, fin da quando aveva memoria, non lo aveva mai considerato tale. Lo chiamava nonno solo per abitudine e perché non aveva idea di quanto, nella realtà, i nonni veri fossero ben diversi.
Sandra lo odiava dal profondo, come solo i bambini sono in grado di fare. Ancora ricordava il giorno in cui un adulto le aveva detto che lei e il nonno erano come due gocce d’acqua. Che avevano lo stesso sangue.
Doveva essere stato un complimento per chi aveva pronunciato quella frase, ma alle orecchie di Sandra quelle parole erano giunte come una bestemmia. Ci aveva rimuginato sopra per gran parte della giornata, restando ore davanti allo specchio a confrontare i tratti del suo viso con quello decrepito del nonno. E sì, qualche punto in comune l’aveva trovato, tuttavia una risposta evidente non era stata in grado di darsela. Così, a fine giornata, si era costretta a prendere una decisione coraggiosa ma fondamentale per la sua esistenza: era corsa in cucina, aveva afferrato un coltello e, senza pensarci due volte, si era aperta a metà il palmo della mano. Il sangue si era mostrato immediatamente e Sandra lo aveva osservato, annusato, assaggiato.
Una volta memorizzate le caratteristiche visive e olfattive, aveva nascosto la mano ferita dietro la schiena ed era corsa dal nonno.
L’aveva colto alla sprovvista come meglio non avrebbe potuto. Il vecchio sonnecchiava con la schiena appoggiata al muretto a secco e la bocca spalancata a dar aria alle mosche.
Non la sentì neppure avvicinarsi ma all’improvviso ZAC! Un dolore tagliente al braccio e una sensazione di caldo. Come se non bastasse sua nipote svettava accanto a lui, con una luce assassina negli occhi, un coltellaccio in una mano e l’altra, chissà perché, nascosta dietro la schiena.
“Avrà mica una pietra per fracassarmi il cranio?” si era domandato. E nel rispondersi che forse poteva essere, era stato un attimo mettersi in movimento e disarmare la piccola.
In verità Sandra non lo avrebbe più colpito. Ciò che voleva scoprire le era già diventato evidente.
“Che schifo!” si continuava a ripetere mentre il vecchio la trascinava in casa e, con un calcio nel culo ben assestato, la faceva rotolare sul pavimento della sua stanza.
“Che schifo. Sembra proprio uguale al mio” aveva concluso tristemente sfregando il fondoschiena dolorante sulle mattonelle fredde. Ed era rimasta così per un po’, sentendo lo sgomento salire dal fondo della pancia seguito a ruota dalle lacrime.
Era stato proprio allora, nel sollevare lo sguardo per impedire alle lacrime di scendere, che le aveva viste: due gocce di sangue, nitide e definite. Sporcavano il pavimento vicino alla porta.
“Sangue di nonno” si era detta. E gli si era avvicinata cautamente, strisciando sulle ginocchia e sulla mano ancora chiusa a pugno. Una volta vicino le aveva osservate, annusate e infine assaggiate.
“Stesso sapore” aveva constatato. “Stesso colore” aveva aggiunto.
Allora le lacrime, questa volta in vantaggio sullo sgomento, avevano ripreso a salire dalla pancia e a scendere lungo le guance.
Sandra aveva pianto per dieci minuti, seduta sul pavimento freddo a contemplare due goccioline rosse che sembravano rubini. E si era addormentata così, pensando a quando odiava il nonno. A come disprezzava quegli occhi verde scuro, identici a quelli di una serpe. Serpe nera, viscida, silenziosa. Serpe d’altri tempi, dotata di un veleno di cui nessuno avrebbe mai trovato l’antidoto.
E che dire della bocca? E di ciò che usciva da quella che sembrava una fornace sempre accesa?
“Sputa sentenze” l’aveva sentito soprannominare dalla sguattera che, tre volte a settimana, veniva a rassettare la casa e a rifornire di viveri la dispensa che avevano per cucina.
Eppure quella donna era una di quelle che considerava suo nonno un uomo affascinante. Li aveva visti più d’una volta Sandra, avvinghiati in una danza di gonne alzate e pantaloni abbassati. Una danza che lei si era augurata di non dover mai apprendere.
Sicuramente era meglio essere considerata scema. Cosa che il nonno non lesinava mai di rammentarle.
“Non sono scemo come te” era la sua tipica affermazione. E gliela propinava ogni volta che lei gli domandava una cosa da bambini, tipo perché le stelle cadono? Perché i pesci muoiono fuori dall’acqua? Perché il fuoco scotta?
“Non sono scemo come te” le rispondeva sempre. Niente di più. Non le dava alcuna spiegazione perché tanto lui quelle cose le sapeva.
Era un uomo colto e intelligente il nonno. Ma anche ignorante. Di quell’ignoranza tipica di chi nemmeno di Dio ha paura, figuriamoci di una bambina.
Giovanmaria si chiamava. E seppure la parte finale del suo nome rievocasse la madre di Gesù, in lui di dolce, materno e santo non c’era proprio niente.
Purtroppo Sandra, a parte lui, non aveva nessuno. Non una mamma, non un papà. Nemmeno il loro ricordo.
Se ne erano andati a cercar fortuna in continente quando lei aveva appena due anni e con la scusa di trovare un lavoro e non avere un bambino d’intralcio l’avevano lasciata alla cura dei nonni paterni. Dopo poco più di un mese però la nonna era morta e i suoi genitori, quasi il fato ci avesse preso gusto a mettere in piedi quel macabro teatrino, avevano incontrato la stessa sorte.
Erano tornati sull’isola sotto forma di polvere grigia e comodamente alloggiati in vasi d’alluminio alti due spanne.
Lei e il nonno, il primo novembre di ogni anno, andavano a trovarli al cimitero. Ed era stato proprio lì, in quel luogo benedetto da Dio, che Sandra aveva incontrato per la prima volta il medico che in seguito le avrebbe amputato il piede.
Si chiamava Dottor Giglio Vittorio e a quel tempo la sua professione di medico l’aveva portato a Lei, paesino di settecento anime, in centro alla Sardegna.
“Che uomo strano…” aveva pensato la prima volta al cimitero quando le aveva accarezzato la testa.
La stessa considerazione l’aveva sfiorata quando, al loro incontro successivo, il Dottor Giglio Vittorio e il suo vestito di tessuto spesso e scuro, erano apparsi sull’uscio polveroso della casa del nonno e lì, in attesa che qualcuno li invitasse a entrare, si erano fermati.
Il Dottor Giglio Vittorio non era giunto da loro per caso. Stretto in una mano, quasi a farsi aria, aveva un foglio con il loro indirizzo. Quel giorno aveva deciso di andare di casa in casa a visitare chi all’ambulatorio non ci poteva andare. Oppure chi, come lei e il nonno, non immaginava neppure che un ambulatorio ci fosse.
Il Dottor Giglio Vittorio aveva visitato il vecchio, poi era passato a Sandra. Le aveva osservato il fondo degli occhi, auscultato il cuore, pesata, misurata in altezza e toccata sotto il mento, tastando le due palline vicino alla gola. Le aveva accarezzato la pelle secca del viso e preso la manina per ispezionare lo spazio a triangolo tra le dita. Poi aveva estratto una cartina stretta e lunga quanto il suo mignolo e, con uno spillo magico, le aveva punto il dito indice.
Sandra aveva visto comparire sul polpastrello un pallino rosso che subito il Dottor Giglio Vittorio si era preoccupato di raccogliere sulla cartina. Dalla borsa dei ferri poi aveva estratto una macchinetta grande quanto una grattugia a mano e quella cartina, rossa del suo sangue, era stata infilata in quell’aggeggio. Dopo qualche secondo la macchinetta aveva emesso un suono e sputato uno scontrino con dei numeri. Sandra aveva sorriso e aveva cercato gli occhi del medico per ritrovare il suo stesso entusiasmo. Ma non li aveva incontrati nonostante l’insistenza nel cercarli.
“È facile che sia diabetica la bambina...” aveva detto il Dottor Giglio Vittorio rivolgendosi al nonno che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
“Se le analisi del sangue lo confermeranno… ehh dovrà fare iniezioni d’insulina. E star attenta acciò che mangia. Venga, venite all’ambulatorio giù al paese che così le mostrerò come fare. Va bene?”
“Son dispiaciuto,” aveva aggiunto il Dottor Giglio Vittorio scrutando il volto scuro del nonno, “non sarà mica una passeggiata tenere sotto controllo ‘sti zuccheri nel sangue, ‘stà glicemia, ma si può viver lo stesso cent’anni sa!”
Il medico si era lasciato andare a un sorriso, nella speranza che anche l’uomo che aveva di fronte si sentisse un po’ speranzoso.
“E pigliala tu la pizzinna allora! Che aspetti!” aveva gridato il nonno spalancando la fornace che aveva per bocca. E dopo quelle parole ne erano seguite altre, gridate in dialetto. Il vecchio le aveva sputate tutte come fossero denti marci, investendo il dottore con goccioline di saliva al veleno. Le aveva viste annaffiargli gli occhiali e aveva goduto.
Il Dottor Giglio Vittorio però non aveva battuto ciglio, si era limitato ad alzarsi dalla sedia e a sfilarsi dai calzoni un fazzoletto immacolato. Aveva lasciato che il vecchio terminasse il suo sproloquio e in seguito, con la stessa calma con cui si era lucidato gli occhiali, si era mosso per rimettere a posto i ferri del mestiere.
Il vecchio tuttavia non aveva gradito quei movimenti lenti e misurati e con un gesto istintivo gli aveva strappato di mano la borsa, gettandola fuori dalla finestra.
Il Dottor Giglio Vittorio in un primo momento era rimasto con una faccia di marmo. Poi, d’improvviso, le parole gli erano uscite da sole, direttamente dalla pancia:
“La piglio sì la bambina! Ignorante codardo! Che tu vuoi dirmi? Parla bene e nella lingua che conosciamo tutti e due! Non ti nascondere dietro al tuo dialetto! Che tu hai paura? Paura che ti possa zittire con una parola sola?!” E così dicendo era uscito dalla cucina, aveva raccolto dalla polvere della strada la sua borsa e se ne era andato.
Si era voltato solo per cercare Sandra e farle segno con la testa che sì, la promessa l’avrebbe mantenuta.
Il nonno, di colpo ammutolito, aveva osservato il Dottor Giglio Vittorio andarsene. Poi aveva guardato la nipote e con gesto stizzoso della mano le aveva fatto capire di allontanarsi.
Sandra non era mai stata più contenta di obbedire. Aveva un mucchio di cose cui pensare e non vedeva l’ora di mettersi seduta e guardarsi bene il dito. Quella coccinella di sangue raggrumato infatti non faceva altro che gridarle che quella cosa, il diabete, forse l’avrebbe salvata.

CAPITOLO XXV

 
Quel martedì di fine estate, Sandra per la prima volta comprese cosa significasse davvero aver fame.
Il nonno decise d’interpretare alla lettera le parole del Dottor Giglio Vittorio. La diagnosi del medico non era certa ma cosa gli importava? Una bella lezione alla bambina e a quel medico maleducato, lui Giovanmaria Sulis, doveva dargliela. Ma se per il Dottor Giglio Vittorio avrebbe dovuto attendere, per la nipote non sarebbe stata un cattivo inizio, cominciare con una dieta ferrea che, oltretutto, gli avrebbe anche permesso di risparmiare qualche lira sulla pensione.
Così, quello stesso giorno per pranzo, Sandra si ritrovò due uova sode, ancora con il guscio sporco di sterco, e quattro fagiolini lunghi e stretti che se non fosse stato per il colore si sarebbero detti spaghetti al dente.
A lei non piacevano le uova, in nessuna salsa. E il nonno lo sapeva bene. Perciò Sandra affondò i denti della forchetta solo nei fagiolini e se li mise in bocca cercando di masticarli lentamente.
La fame e la tristezza l’accompagnarono per tutto il giorno e quando arrivò l’ora di cena Sandra si scoprì disposta a divorare le gambe del tavolo. Ma si trovò sole le uova e perciò decise di andare a letto senza cena.
La mattina seguente, quando il nonno la scosse violentemente perché era già tardi, non si svegliò. Non diede alcun segno neppure quando il vecchio bastardo la schiaffeggiò fino a farle colorare le guance.
Questo, a Sandra, glielo raccontò la sguattera. Perché quella mattina, per fortuna, a casa del nonno c’era anche lei. Fu lei a chiamare il dottore. Fosse stato per il nonno…
Quella fu l’unica grave crisi ipoglicemica. Con tanto di coma e annessi e connessi. Sandra stette dieci giorni in ospedale a Nuoro e a riaccompagnarla a casa ci pensò non il nonno ma il suo nuovo angelo: il Dottor Giglio Vittorio. Lui l’assistette per tutta la durata del ricovero in ospedale e le spiegò, in termini semplici, cosa fosse il diabete, i cibi che avrebbe potuto ingurgitare a tonnellate e quelli di cui invece avrebbe dovuto scordarsi. Al termine di quella lunga chiacchierata, Sandra aveva ben inteso che lo zucchero bianco, in zollette o in bustine, a seconda del caso, sarebbe diventato il suo miglior amico o il suo peggior nemico.
Solo la raccomandazione di tenere d’occhio le dita dei piedi, decise di mal interpretare.
“Che non diventino blu!” si era premurato di dirle il Dottor Giglio Vittorio ma aveva usato le parole sbagliate. O meglio il colore sbagliato.
“Blu” si era ripetuta Sandra nella testa appena lo aveva udito. E una lampadina dalla luce azzurrognola aveva illuminato la sua idea malsana. Si era guardata le vene del polso e quel colore livido le aveva dato coraggio.
Lo aveva deciso in un secondo: lei voleva il sangue blu. Non vedeva l’ora di vederlo scorrere sotto la pelle sottile delle dita del piede. Guizzare gioioso spodestando quello rosso. Così non avrebbe più avuto il sangue come quello del nonno.

CAPITOLO XXVI

C’erano voluti due mesi di scarpe s...

Table of contents

  1. CAPITOLO I
  2. CAPITOLO II
  3. CAPITOLO III
  4. CAPITOLO IV
  5. CAPITOLO V
  6. CAPITOLO VI
  7. CAPITOLO VII
  8. CAPITOLO VIII
  9. CAPITOLO IX
  10. CAPITOLO X
  11. CAPITOLO XI
  12. CAPITOLO XII
  13. CAPITOLO XIII
  14. CAPITOLO XIV
  15. CAPITOLO XV
  16. CAPITOLO XVI
  17. CAPITOLO XVII
  18. CAPITOLO XVIII
  19. CAPITOLO XIX
  20. CAPITOLO XX
  21. CAPITOLO XXI
  22. CAPITOLO XXII
  23. CAPITOLO XXIII
  24. CAPITOLO XXIV
  25. CAPITOLO XXV
  26. CAPITOLO XXVI
  27. CAPITOLO XXVII
  28. CAPITOLO XXVIII
  29. CAPITOLO XXIX
  30. CAPITOLO XXX
  31. CAPITOLO XXXI
  32. CAPITOLO XXXII
  33. CAPITOLO XXXIII
  34. CAPITOLO XXXIV
  35. CAPITOLO XXXV
  36. CAPITOLO XXXVI
  37. CAPITOLO XXXVII
  38. CAPITOLO XXXVIII
  39. CAPITOLO XXXIX
  40. CAPITOLO XXXX
  41. CAPITOLO XXXXI
  42. CAPITOLO XXXXII
  43. CAPITOLO XXXXIII