Il prezzo del Requiem
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Il prezzo del Requiem

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1992. Italia. Auro Ponchio, assistente di laboratorio in un istituto scolastico e autore di un romanzo di scarso successo, viene contattato da un vecchio compagno di scuola divenuto deputato. L'onorevole Alberto Malacarne. Il politico gli chiede di diventare il suo ghostwriter. Anche se con qualche riserva Auro accetta, il ricordo di ciò che avvenne poco prima degli esami di terza media è ancora vivo. Come cambierà il suo destino?
In una città senza nome si consuma una spettacolare corsa verso i territori dell'auto-indulgenza, una discesa lungo la scala dei cattivi. Luoghi e atmosfere surreali, personaggi disegnati come maschere deformate dall'abuso dei più sordidi vizi capitali. Il milieu espresso è appeso a un quadro narrativo grottesco e solo apparentemente inverosimile. Sullo sfondo il primo anno di mani pulite, con il suo carico di paure e di speranze disattese.

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Information

PRIMA PARTE

Estate 1992
1.
«Allora, i soldi?» Un fischio ansimante ingarbugliò la domanda. Boccheggiava, un pesce appena pescato.
«Dovresti metterti a dieta, guarda come sei ridotto.» Disse Antonio.
«Ho capito, ma che ci posso fare, mangiare è un po’ meno penare.» Gli rispose con un rantolo. «Tra il caldo e tutte quelle maledette scale che non finivano più!» Con un fazzoletto si tolse il sudore dalla fronte. «Sono là?» Sbuffò e puntò il ditone anellato in direzione del tavolo, dove una ventiquattrore di pelle sembrava trasudare insofferenza per l’afa.
«Oh Vincenzo, non sei ancora arrivato e già ti metti a chiedere?» Disse Alberto.
«Tirali fuori, dai!» Si mise a sedere esausto.
«Sta’ calmo, piuttosto, lui?» Allungò gli occhi verso l’uomo magro e ossuto sulla cinquantina impalato davanti alla porta.
«Te l’ho già detto l’ultima volta, lui è sicuro, è un mio uomo di fiducia.» La sedia scricchiolò sotto il suo peso. Una mosca gli svolazzò davanti alla punta del naso. Diede un paio di manate a vuoto.
«Ho capito, ma non c’entra niente, digli di aspettare fuori, così fa la guardia.»
«Sei pieno di paranoie.» Fece un cenno con la testa, un quarto di cerchio dal basso verso l’alto, secco e imperioso. L’uomo, allampanato e pallido dentro un dozzinale completo gessato che lo conteneva in abbondanza, si dileguò silenzioso giù per le scale.
«Ha ragione Alberto, che vada a fare il palo.» Disse Franco, allentandosi il nodo della cravatta. «Signori, avete visto che casino?» Si mise una sigaretta in bocca e ancor prima di averla accesa tirò con avidità. «Mi verrebbe da scappare!»
«Impossibile, ormai siamo compromessi.» La mano grassa e pelosa di Vincenzo finì per schiantarsi improvvisamente sul tavolo. Ci fu un soprassalto generale. «Mosca moschina, se ti becco ti mangio, birichina.»
«Mi rimetto a fare il medico.» Insistette Franco.
«Sì, e voglio vedere chi viene a curarsi da te, speri forse di imbucarti in qualche ospedale?»
«Certo che no Vincenzo, sarebbe impossibile.»
«Ecco, mio caro dottore ci tengono per le palle.» Si guardò intorno per cercare di capire dove sarebbe andata a posarsi la mosca, poi proseguì. «Abbiamo voluto ballare? Bene, ora si deve ballare, in fondo siamo ben remunerati, e poi teniamo tutti famiglia.»
«Che cosa andate a pensare, e se dovesse succedere? Siamo delle semplici pedine, dei soldati.» Si fece strada tra il fumo del suo sigaro il quinto uomo, un ex-giovanotto sulla quarantina dai capelli sale e pepe, la barba vecchia di tre giorni e una giacca di cotone sgualcita. «Non rubiamo per noi, ma in nome della conservazione dello status quo.»
«Federico, è vero fino a un certo punto: rubiamo anche un po’ per noi e i soldi che accumuliamo sono una prova.» Intervenne Antonio.
«I soldi si nascondono, io come Federico D’Arena non ho nulla in banca, a mio nome non c’è intestato niente, voglio vedere come fanno a portarmi via quello che non ho, dovrebbero beccarmi in flagranza.» Disse stizzito, gli mandò addosso uno sbuffo di fumo.
«Ti ci metti anche te?» Antonio agitò davanti a sé le mani tossicchiando, mentre tirò indietro la testa. «Qui sono l’unico che non fuma, ma è come se fumassi tutte le vostre porcherie messe assieme! E poi che caldo, non si respira, non si potrebbe trovare un posto migliore?»
«Eh no, non ho altro da offrirvi, hai per caso tu un’altra soluzione?» Disse Alberto.
«Almeno un condizionatore d’aria.» Insistette.
«Perché non ci ospitate voi, nella vostra bella sede?»
«Non mi pare il caso, sarebbe troppo sfacciato.»
«Ecco appunto, allora smettila di rompere e taci!»
«Ma come ti permetti, io parlo quando e quanto mi pare.»
«Basta, siamo qui per un motivo preciso.» Intervenne Federico.
Alberto sorrise, sembrava stesse gongolando. Ci prendeva gusto quando le discussioni si accendevano. Antonio invece cercò di calmarsi prendendo aria con un teatrale sospiro.
«Procediamo alle spartizioni.» Alberto sbatté sul tavolo un paio di volte la testa del filtro di una sigaretta e la mise in bocca. Tutti annuirono e affondarono gli occhi nella ventiquattrore come i bambini dentro il bancone di una gelateria. La aprì. Un triplice clic, poi un ulteriore giro di rotella. «Mischianti s’è fatto un culo così per raccoglierli.»
«Ma ci sono tutti?» Chiese Vincenzo.
«Certo li ho già contati, per chi mi prendi?»
«Ce ne ha messo di tempo questa volta.»
Spalancò le braccia. «Hai ragione Federico, gli ho fatto pure pressione, ma lui dice che tra i suoi colleghi ci sono alcuni che non riescono a stare nelle spese, chiacchierano di ordinario utile d’impresa che si restringe sempre di più, di posti di lavoro, di sindacati rompicoglioni e altre stronzate.»
«Bastardi, sempre a lamentarsi, ma se hanno tutti la fuoriserie, la villa e il giro di mignotte!» Commentò Federico.
«Perché non li scarichiamo? So che ce ne stanno tanti altri pronti con il cappello in mano.» Disse Antonio.
«Che dici, ti sembra il momento adatto questo? Sei proprio un mentecatto!» Alberto esplose tutto il suo disprezzo.
«Oh amico mio, datti una calmata.» Antonio spinse in avanti i palmi delle mani.
«Li leggi i giornali no? Stanno facendo di tutto per apparire degli agnellini, loro, hai capito? E se adesso li fai fuori, domani mattina ti ritrovi la polizia sulla porta di casa. No, bisogna assecondarli, in fondo hanno sempre pagato, fino all’ultima lira, basta saperli lavorare.» Alberto indicò i soldi sul tavolo.
«Ma chi se ne frega, fatemi vedere tutta questa bella robetta invece.» Vincenzo soppesò le mazzette. Lucide e riflettenti. Emise un flebile fischio di stupore. Erano banconote da centomila lire impacchettate con delle fascette color salmone. «Saranno cento caravaggi a mazzo.»
«Preciso! Hai occhio Vincenzo.» Disse Alberto.
«Soldi, cibo e fica!» Rise. «Su queste tre cose ho costruito la mia esistenza.»
«Ma per favore, piuttosto, mi sembrano i soldi del Petropolis.» Disse Franco.
«Di che?»
«Un gioco da tavola, non ci giochi mai con i tuoi figli?»
«Tu sei matto, ma ti pare che ho tempo per stare con i figli? Quando non lavoro vado a donne, non l’hai ancora capito?»
«Pagando però.» Irruppe Federico. Tutti risero.
«Sì, sì, una sera usciamo insieme, così poi vi rendete conto...» Mormorò. Sembrava offeso e indispettito, ma forse faceva soltanto finta di esserlo.
Poi tornarono seri.
«Oh, ha ragione Alberto, lasciamoli stare, avranno ritardato ma non manca un quattrino, tenete presente che questa è la tranche più grossa.» Disse Franco.
«Siamo un bel gruppo affiatato, mi dispiacerebbe se le cose andassero a finire male.» Disse Antonio.
«Ah, ma allora porti iella?» Lo riprese Alberto. «Procediamo alle divisioni, prima le parti che spettano a noi.»
«Già i nostri onorari.» Federico gli andò sopra con la voce. «Ci chiamano la banda del dieci percento.»
«La banda! In tempi non lontani saremmo stati i salvatori.» Disse Antonio.
«Diamoci una smossa, su, mi sono stufato di sentire le vostre chiacchiere.» Tagliò corto Alberto.
«Venti milioni ciascuno, niente male, dai qua.» Vincenzo portò verso di sé le banconote, felice, come se avesse vinto un piatto a poker.
«E poi il resto, si fa per dire, novecento milioni, ce lo dividiamo secondo il lodo Grispo.» Disse Antonio. «A proposito Alberto, come sta?»
«Come sta chi?»
«Tuo suocero, Primo Grispo.»
«Non ha più tanta memoria.»
«Be’ almeno se lo beccano non si ricorda niente.» Antonio rise in modo isterico, Alberto lo fulminò con uno sguardo cattivo, poi scosse la testa sconsolato.
Vincenzo menò di colpo un fendente a mano aperta nell’aria, poi strinse il pugno e lo aprì di scatto come se stesse scagliando qualcosa per terra. Chinò il capo sorridendo compiaciuto.
«Scusa Alberto è lo stress, non volevo... ho detto una cazzata.» Disse Antonio.
«Ammazza che riflessi Vince’, l’hai fatta fuori!» Franco piegò in giù la bocca in segno di sorpresa.
«Visto? È la mia specialità.» Esclamò trionfante. «È una questione di metodo, più che di riflessi, basta intuire la direzione del volo, poi è facile, la mosca parte e va a sbattere contro il palmo della mano aperta, così vedi?» Rifece il gesto a rallentatore. «È un attimo, quando la senti, stringi il pugno e poi la butti per terra con forza.»
«Sì ma che schifo, tenere in mano una mosca dopo che si è posata su merde e carogne, ci sono apposta gli spray.» Disse Antonio.
«Oh signori, siamo venuti qui per disquisire di insetticidi e affini? Veniamo al sodo: trenta percento a Federico.» Alberto sospirò e contò ventisette mazzette, dopodiché lanciò un’occhiata non proprio benigna ad Antonio. «Sì, sì, ci sono anche per te ventisette mazzette.» Gli disse.
«Federi’, vi prendete tutto te e Antonio?» Disse Vincenzo con un tono finto scherzoso.
«Quanto a te il dieci percento: nove mazzi.» Vincenzo annuì, li prese e li fece sparire in una busta da shopping. Dopodiché Alberto mise insieme altri nove mazzi e li consegnò a Franco. Sul tavolo rimase il resto: diciotto mazzette pari a centottanta milioni – il venti percento. «Questi li prendo io.»
«Bene allora chiudiamo qui.» Disse Antonio.
«No, ci sono alcune cose da definire.» Fece un sorrisetto beffardo.
«Non mi sembra ci sia altro.» Intervenne Federico.
«Ah no? Mio suocero non si ricorda più niente, non sa nemmeno di avere l’uccello per pisciare, figuratevi se può ricordarsi il lodo che istituì vent’anni fa.»
«E questo cosa c’entra?» Chiese Antonio.
«Il lodo non va più bene, non corrisponde più al peso effettivo delle forze in campo.»
«Questo lo dici tu, Alberto.» Ribatté Federico.
«Ti sbagli, non lo dico soltanto io, ma lo dice la parte che rappresento.»
«Ognuno rappresenta una parte.»
«Già, e faresti bene a contattare la parte che tu rappresenti, Federico.»
«Ah sì? E per quale motivo dovrei chiamare i miei capi?»
«Forse ne sanno più di te, credi che non si parlino mai i nostri capi?»
«Che ne sai tu dei miei capi!»
«Calmatevi, invece di litigare, affrontiamo i termini della questione: perché dovremmo ridiscutere il lodo?» Disse Antonio.
«Me lo chiedi pure? Prendiamo troppo poco, non ci sta più bene, vogliamo la vostra stessa parte.» Alberto disse rivolgendosi a Federico e ad Antonio.
«E allora noi?» Protestarono in coro Franco e Vincenzo.
«Ci andate voi a trattare con le controparti? Tu Antonio fai un gran parlare di pericoli, però il rischio della flagranza è solo mio quando incontro Mischianti; se qualcuno della cordata parla? Mi ritrovo mandato in onda in prima visione negli uffici della procura. Se volete che continui io, bisogna cambiare il lodo, altrimenti qualcuno di voi dovrà prendere il mio posto. Non mi va neanche di discuterne, parlatene e poi fatemi sapere.»
«E come lo vorresti cambiare?» Gli chiese Antonio.
«Ognuno di voi perde due punti percentuali, mentre io salgo di otto.»
«Che vuol dire?» Disse Vincenzo.
«Vuol dire che Alberto sale a ventotto, mentre io e Antonio scendiamo a ventotto.»
«E noi?» Chiese Franco.
«Tu e Vincenzo scendete all’otto percento.» Precisò di nuovo Federico.
«Non spetta a noi deciderlo.» Disse Antonio.
«E invece sì.»
«Sono disegni da megalomane.» Attaccò Federico.
«Megalomane? Nel merito, i nostri capi sono d’accordo, il lodo è da cambiare, punto.» Usò un tono asseverativo.
«È un bluff, Alberto, io non ne sono al corrente.» Disse Fed...

Table of contents

  1. PRIMA PARTE
  2. SECONDA PARTE
  3. EPILOGO