Tra le rose e gli ulivi (Irene)
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Tra le rose e gli ulivi (Irene)

About this book

Tra le rose e gli ulivi è un libro di amicizia, di amore, e di storia italiana. In una Treviso di fine anni '70 due amici Flavio e Marco decidono di realizzare un giornale locale. Flavio, proveniente da una famiglia benestante contadina andata in disgrazia dopo il boom economico italiano, e Marco, nipote della grande famiglia trevigiana Manin resa nota e ricca per essere stata il braccio mediatico all'interno del ventennio fascista. Da qui ha inizio questa storia all'interno della quale entrerà presto l'amore e tutto ciò che ne consegue. I due conosceranno Maria Billè proveniente da una famiglia immigrata dal sud durante gli anni 50. Mentre il giornale fondato dai due amici "Controtendenza" continua ad aumentare il numero delle tirature, Marco e Flavio vivono le tensioni e disillusioni tipiche del mutamento delle condizioni storiche italiane. Per i due amici arriverà il momento di separarsi e di intraprendere nuove e difficili strade della vita. Un libro intenso, vero che racconta l'Italia e l'amore con fiera crudezza.

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Information

1

Era autunno e avevo la faccia corrugata da una giornata passata a non fare niente, tra la cucina e la camera, nel tentativo di studiare per una tesi di laurea che, oramai, mi sembrava giorno dopo giorno sempre più lontana. Non sapevo più nemmeno il perché, mesi prima, avevo scelto di avventurarmi nei meandri delle guerre tra gli interessi politici ed economici dalla trafugazione delle spoglie di San Marco ad Alessandria d’Egitto. Forse era la poca stima che avevo di me stesso che mi aveva spinto fin lì, ma a quel punto che fare? Di certo non potevo buttare cinque anni di studi di storia e ricominciare da capo.
Ero lì, con un gin lemon tra le mani, a guardare chi entrava e usciva da quel postaccio. Un posto come tanti, qui a Treviso, dove, tra un discorso di lavoro e le solite questioni di soldi, la bestemmia è intercalare comune e anello di congiunzione. Un posto molto anonimo, in fondo, tavole di legno scuro e pieno, più unte che altro. Un posto come tanti, ma speciale perché lì c'era la magia della libertà; lì chiunque entrava a bere o a mangiare poteva buttare per terra i resti di ciò che non gli piaceva. Poteva perdersi tra le pentole di inizio secolo, appese ai muri e al soffitto, o rimanere a fissare con sguardo incantato le foto degli emigrati in sud America. Facce nostrane, conosciute. Lineamenti antichi. Uomini che avevano scelto il Brasile o l’Argentina per cercare il lavoro che qui non c’era.
“Ciao Flavio… finalmente, è da un bel po’ che ti sto cercando…”
“Scusa Marco” dissi io “sapevi che ero qui no? ”.
“Sì, lo immaginavo, ma avevo tentato comunque a casa tua. Avrei bisogno di parlarti, ma non qui, qui c’è troppa gente, usciamo dai? ”
Camminavamo oramai da un quarto d’ora, le mani in tasca, la brezza autunnale che ti sfiora la faccia, la condensa del respiro che ti esce dalla bocca, camminavamo e lui non diceva una parola.
Marco mi stava addosso dai tempi delle magistrali, quando ci conoscemmo più per un interesse esterno a noi, che per una reale pulsione o curiosità di conoscenza.
Era il 1975: Guccini si sgolava con la sua “Locomotiva” e io e Marco eravamo nella mischia dei dimostranti, con il pugno alzato e l’eskimo indossato a gridare “Borghese-carogna-ritorna-nella-fogna”
Fu un ideale utopistico, com’era quello comunista, a unirci, come avvenne per tanti nostri coetanei; eppure tra di noi fu subito intesa.
Piombati, per uno scherzo del destino o per progetto divino, nello stesso banco e rimasti lì inchiodati ai nostri posti per quattro anni, diventammo inseparabili.
“Senti Flavio” disse finalmente lui “ho in mente una cosa straordinaria, ma ho bisogno del tuo aiuto, ci stai?”
“Potrebbe essere, sì, se mi spieghi cosa dovrei fare” dissi io perplesso, e già pensavo che solo Marco poteva essere così strampalato da buttarsi a capofitto in idee che gli venivano al mattino e si spegnevano la sera “l’importante è che questa cosa non rubi troppo tempo alla tesi che sto facendo…”
“Ma no figurati, vedi, voglio creare un club letterario… e come organo d’informazione dovrà avere un giornale dove ognuno potrà trovare spazio di espressione e vorrei te come inviato speciale per intervistare gli artisti. Non ti sembra un’idea fantastica, su non puoi dirmi di no...”
“Io?” dissi incredulo, con la voce spezzata tra la sorpresa e la poca voglia di aderire a questa cosa da personaggio da fumetti.
“E perché io?”
“Perché tu sei perfetto… io ci metto troppo pathos, lo sai, ma tu… tu no… tu sei freddo, sei distaccato, tu non riesci a far trasparire i tuoi sentimenti, siano essi di stima o di odio. Pensa a noi due… Io non riesco a capire che cosa sono per te, un fratello, un amico, un compagno di scuola, o un diversivo… so che ci sei e non mi pongo il problema… no! Solo tu puoi essere l’inviato che cercavo, allora ci stai?”
Non so se m’infastidiva di più quel suo tentativo spiccio di psicoanalisi freudiana nei miei confronti, o questa sua voglia di trascinarmi dentro ai suoi ideali, troppo grandi per uno così fragile come lui. Ma Marco per me è sempre stato l’amico con la “a” maiuscola, la persona con la quale non avrei mai avuto paura e con cui mi sentivo davvero importante.
Era sì inconcludente e fragile e paranoico e angosciato davanti ai grandi soprusi del mondo occidentale; ma aveva anche quella grinta e quella forza d’animo che gli permettevano di spingersi sempre oltre e, soprattutto, di rialzarsi dopo ogni caduta.
Era un eclettico; uno che non riusciva mai a stare fermo su di una cosa per più di due secondi.
Per ogni idea che tentava di portare a termine, ce n’erano cento varianti e mille nuove altre idee; così spesso, sul più bello, mollava tutto, perché quello che aveva ideato non stava vendendo come lui sperava.
Amava le sue idee ma al centro dell’attenzione doveva esserci lui. Non io. Non le sue idee. Solo lui.
D’altro canto io ero un timido, non parlavo con le ragazze con disinvoltura e a volte ero assalito da attacchi di panico provocati da vuoti di parole.
“Allora ci stai? Mi vuoi rispondere sì o no?”
Marco ormai stava perdendo la pazienza e io, in fretta, bisbigliai qualcosa tra le labbra.
Marco era così, non sarebbe mai cambiato, né io avrei avuto le possibilità di farlo.
Eravamo costituzionalmente diversi, io e Marco.
A tradire le sue origini, c’era quel naso pronunciato che lui tanto odiava, lo stesso di suo padre, di suo nonno e del suo bisnonno, Il Vecchio Nanni.
Il Vecchio Nanni: così era conosciuto tra le famiglie bene della Treviso di fine Ottocento.
S’era trasferito a Treviso dalla grande e mercantile Venezia, dopo una vita di esperienze e attività atte al commercio con l’est europeo.
S’era trasferito con la moglie e le prime due figlie, in cerca di novità, con il desiderio di dare una svolta alla sua vita; la stessa svolta che forse andava cercando adesso Marco, nel suo modo incerto e incoerente.
Il vecchio Nanni si mise subito in attività con una tipografia: la tipografia Manin, che fece la fortuna poi del quartogenito.
Il Nonno di Marco era un vero e proprio imprenditore; il suo naso pronunciato era simbolo di onore e rispettabilità, incuteva timore e invogliava benemerenza da parte della mussoliniana marca trevigiana.
Aveva fondato La voce della mura, un giornale locale di ampia tiratura e aveva dato lavoro a illustri giornalisti e personaggi di spicco.
A lui e alla sua carta stampata si dovevano le più acerrime arringhe giornalistiche di quel periodo; le lamentele dello scultore Martini e tutta la politica bene di quel tempo passava per quelle pagine, che sapevano d’inchiostro e carta.
Chissà che faccia farebbe ora il nonno di Marco, se conoscesse la nostra amicizia e i nostri valori. Farei fatica a immaginarmelo: nelle foto d’epoca appariva sempre con il viso imbronciato. Era alto e fiero e aveva una ruga che gli solcava la fronte, profonda e imponente, come la sua statura e le sue spalle che incutevano paura ma allo stesso tempo trasmettevano protezione.
Era un bell’uomo, stimato e odiato e ben voluto e aveva lo stesso naso che Marco odia tanto.
Il giornale, poi, venne diretto dalla secondogenita, la sorella zitella del padre di Marco, Mariangela Manin.
La donna, per carattere e caparbietà, era in grado di dirigerlo, ma le sue idee politiche divergevano da quelle del padre e molti lettori non si riconobbero più ne La voce delle mura. Mariangela dovette così cedere il giornale al fratello Giorgio, che sperava in cuor suo di lasciarlo al figlio Marco.
La tipografia intanto continuava a produrre e la primogenita Roberta Manin ne prese la direzione trasformandola in un’impresa di edizioni, cosicché le Edizioni Manin furono negli anni del boom economico tra le case editrici di media grandezza e diffusione più importanti in città.
Mio padre, d’altro canto, uomo tutto d’un pezzo com'era, proprio negli anni del boom economico aveva rifiutato lavori, anche remunerativi, in nome della sua autonomia e della sua libertà; tutto a dispetto di una vita di reddito precario che gli proveniva dai campi. Mi soleva dire con insistenza che un uomo si riconosce come tale e in tutto il suo spessore da come lavora, dall’impegno che ci mette e dalla buona volontà del non fermarsi mai.
La società non era importante per lui, o meglio, lo era per una questione commerciale ma nessuna idea che essa proponesse poteva entrare in casa perché era un libero pensatore e, in nome di questa sua assoluta libertà che prendeva toni e tinte tiranniche tra le mura di casa, non si poteva far sottomettere.
Nonostante le recenti sventure, solo l’idea di lasciare i suoi campi, gli stessi che avevano fatto la fortuna della famiglia Meneghetti, lo faceva star male. Era passato da essere un potente proprietario terriero che dava lavoro a mezzadria a buona parte del paese e dei paesi vicini, a essere un semplice bracciante nelle sue terre che gli rendevano, dopo tante e attente cure, solo il minimo indispensabile per una sussistenza quasi decorosa.
***
Era mattina tardi quando alzai la testa dal cuscino senza la voglia di iniziare un'altra giornata di studio. Decisi di andare in Biblioteca; avevo bisogno di nuovo materiale per la tesi, così, mani nelle tasche e capelli spettinati mi ritrovai davanti a soliti immensi scaffali per una delle mie interminabili ricerche. L’unica cosa che mi interessava davvero era occupare il tempo, questo, nonostante quella voce che sentivo dentro che mi ripeteva in continuazione che il tempo è cosa preziosa da non buttare. Credo fosse la voce di mia madre che mi parlava, mi pareva quasi di vederla, mentre annuiva, imprigionata com'era in un matrimonio che andava avanti più per abitudine e istituzione che per stima e amore reciproco. Era stata lei a insegnarmi, al contrario di mio padre, l’importanza del riscatto sociale e dello studio; tutto ciò nella speranza di offrirmi una vita migliore della sua, passata tra le mura domestiche ad accudire figli e il marito. Mia madre aveva rinunciato alla propria libertà di donna un po’ per via della religione, un po’ per dare a noi figli la possibilità di crescere in un ambiente sereno ed era lei che mi ripeteva sempre che lo studio sarebbe stato il mio futuro, nella speranza di tenermi lontano dal lavoro nei campi. Era stata lei a litigare furiosamente con mio padre e a metterlo al corrente delle sue intenzioni di farmi studiare all’università, dopo che, a malincuore, mio padre aveva già accettato la scuola superiore con la clausola che io lo aiutassi nel pomeriggio. Penso che quella sia stata la sua prima vera presa di posizione nei confronti di mio padre, una decisione che non mancò di alimentare grandi tensioni in famiglia; chissà, forse meditava quella decisione fin dal giorno della mia nascita. Del resto, non posso di certo biasimare mio padre che, nella sua poca istruzione e nelle buone intenzioni, vedeva in me il suo futuro, la persona a cui lasciare l’azienda agricola di famiglia che gli era stata lasciata da suo padre prima e a suo padre da suo nonno per generazioni. Ma lei, la donna di casa, la donna del focolare sempre pronta a mandar giù bocconi amari per i figli e per la felicità del marito, quella volta non poteva tacere e così lui fu costretto ad accettare di mal grado. Solo quando lo Stato permise a noi universitari d’insegnare alle scuole medie e superiori per mancanza di insegnati, lui si ravvide e, con fare bonario, si dimostrò ben più che compiaciuto davanti allo stipendio che versavo mensilmente a casa; tuttavia non smise di rinfacciarmi la mia scelta di scendere a patti con uno Stato che a lui sembrava troppo lontano e poco benevolo.
Mentre cercavo una raccolta di atti notarili del Duecento, lo sguardo mi cadde su un articolo del giornale che intitolava: Questa sera la grande cantante lirica Giulietta Bliscei sarà a Treviso. Non che mi interessasse la musica lirica, ma pensai che quello potesse essere un buon battesimo per il neonato giornale del nostro club letterario. Così lasciai la ricerca a metà e corsi a casa. Al mio arrivo trovai Marco davanti al citofono.
“Ah finalmente… pensavo fossi a letto! Sono dieci minuti che suono senza sosta… devo dirti una cosa stupefacente.”
“Anch’io Marco è molto importante, credo...”
“Ok, poi mi dici, prima però ascoltami...” disse lui “Questa sera il teatro comunale ospiterà una manifestazione canora... e io pensavo: non è che ti va di andare a intervistare qualche artista? Il giornale dice che ci sarà Giulietta Bliscei, ti rendi conto? Pensa che lancio sarebbe per il giornale... che ne dici?”
Io lo ascoltai e rimasi ammutolito per lo stupore che di solito mi coglieva quando io e Marco arrivavamo a rubarci l’idea per troppa simbiosi d’interessi.
“A dire il vero ci avevo pensato anch’io… beh... allora ci vado e domani ti porto il pezzo scritto, va bene?”
“Fantastico.”
Il teatro era un brulicare di meravigliose signore paffute, ripiene di creme antirughe in tenuta di alta moda per non sfigurare con i loro mariti in doppio petto, ben oliati di orologi quasi più preziosi dei gioielli che indossavano le loro mogli. Il teatro, rimesso a nuovo qualche anno fa, era diverso da come me lo ricordavo. Era un anno che non ci mettevo piede, perché nel programma stagionale non c’era nulla che mi interessasse particolarmente o che non avessi già visto.
Il primo spettacolo che andai a vedere fu con la scuola media: un Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, e subito il teatro, con la sua magia e la sua follia intrinseca, mi rapì. Quell’essere falso ma così reale da essere vero - in carne e ossa - in quel preciso istante; quell’unione di maschera e vita, di tragedia nobile e viltà, quell’essere parte di una ben distinta e unica cosa, ma allo stesso tempo costituita da due parti: una nitida e riconoscibilissima e l’altra sfumata e irrazionale. Tutto ciò mi affascinò.
A ogni modo quella sera in teatro c'era tutta la Treviso bene. Era il 1982, era appena arrivata la notizia dei bombardamenti israeliani su Beirut, e io ero lì, a fingermi giornalista e a descrivere la vita mondana della città per far piacere a un mio amico. Avrei voluto parlare d'altro ma non avevo scelta, dovetti guardarmi intorno e cercare validi argomenti per l'articolo. E gli argomenti seppur leggeri c'erano.
C'era la signora Bergamin che sfoggiava un'esotica collana di corallo, probabile regalo di viaggio del marito che commerciava vestiti con tutto il mondo, con un'eleganza spavalda e di cattivo gusto. C’era il sindaco, un uomo tozzo e paonazzo in viso, che indossava un doppio petto e sfoggiava la figlia Franca, nel suo tulle nero che fasciava la sua longilinea figura, impreziosita da un visino appena appoggiato a un esile collo che le donava regalità. Non c'era invece sua moglie che era notoriamente insofferente al bel mondo e non mancava mai di declinare l'invito a ogni appuntamento importante. C'era tutta la crema della città estasiata dalla Bliscei che, dall’alto dei suoi quasi cento chili, tentava di pronunciare parole che venivano recepite come acuti suoni. Personalmente la trovavo fastidiosa, ma restai al mio posto e una volta conclusa l'esibizione decisi di farmi avanti per strappare un'intervista alla primadonna. Ero pur sempre il giornalista di punta di un nuovo giornale quindi cercai l’ingresso per i camerini. Fu allora che un uomo sulla quarantina, vestito con un gilet rosso incandescente mi si parò davanti:
“Scusi, serve qualcosa?” mi disse. “Chi? Io?” risposi vagamente imbarazzato “No... certo che no... a dire il vero sì, vede sono un giornalista e cercavo il camerino del soprano Giulietta Bliscei per un’intervista…”
“Certo buonasera” disse lui gentile “E per quale giornale lavora?”
Restai in silenzio. Che cosa potevo rispondergli? Era successo tutto troppo in fretta e io Marco Manin non avevamo ancora discusso sul nome del giornale. Trattenni il respiro e buttai lì in primo nome che mi venne in mente.
“L’osservatore letterario.” dissi con un tono tutt'altro che convincente. A quel punto l’uomo annuì e iniziò a spulciare un lungo elenco di nomi su un foglio che teneva in mano, scorse l'elenco un paio di volte e alla fine, con aria scocciata, sentenziò: “Mi ascolti... qui non esiste nessuna testata giornalistica con il nome Osservatore letterario, probabilmente non esiste neppure il giornale, se vuole può aspettare all’uscit...

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