Sardine in Scatola
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Sardine in Scatola

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Sardine in Scatola

About this book

Il racconto è ambientato circa venti anni fa sulla base di fatti accaduti. Il protagonista è un ventenne alla ricerca di una occupazione fissa che però tarda ad arrivare. Scoraggiato a tal punto da sentirsi un perdente, cercherà di vivere alla giornata, impostando un atteggiamento di continua precarietà in tutti gli aspetti della sua vita, dalle relazioni con gli amici e le donne, fino alla completa mancanza di fiducia nell'esistenza, quindi non varrà la pena di lottare o affaticarsi per vivere. Il sentirsi rifiutato e conseguentemente il suo senso di inadeguatezza, lo porteranno ad avvicinare persone disperate ed opportuniste, fino a quando un incontro inaspettato gli presenterà una prospettiva di vita diversa e per certi versi migliore, che però il protagonista guarderà con diffidenza.

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Information

III

Intanto l’estate incalzava. E così a ogni risveglio, la mattina, qualche goccia di sudore colava giù dalle tempie facendo capolino dietro le orecchie.
Un’estate che non sentivo assolutamente mia. Dico, le cose bisogna sentirsele dentro, così le stagioni e ogni giorno che passa. Bisognerebbe essere in grado di scegliere cosa vivere, quando e come, ma soprattutto quanto. Invece no. E quella era una mattina che non avrei voluto vedere, Alla prima, così. Appena aperti gli occhi e la goccia di sudore si fermava all’orecchio. Incalzato dal tempo e dall’estate che arrivava piena dei suoi fottuti colori, di odori d’ascella e soprattutto di quella frenesia di dover fare qualche cosa di grandioso, di memorabile e tanto fantastico da poter tirare a rompere le palle a chiunque chieda: “...e questa estate cosa hai fatto?”
Io no. No, no, cazzo. No e poi no. Non volevo vivere quella dannata estate.
Altra birra che sarebbe trasudata dai miei pori durante il giorno alla ricerca del refrigerio serale su una spiaggia, a fumare e a bere altra birra ghiacciata. Magari con una bella topa. E mi mancava anche quella. Si, la topa. Sfido io. Mesi. Non li contavo neppure più i mesi. e io l’aspettavo come la manna dal cielo.
Ma niente.
“C’è topa per me?”
“No.”
“Di nulla, grazie lo stesso.”
Grazie un cazzo!
E la paura di non riuscire a rimediare un lavoro, qualunque esso fosse purché non mi procurasse guai. Ma anche la paura di trovarlo, che qualcuno decidesse di gestire il mio prezioso ozio quotidiano. Il mio prezioso niente, perché anche a fare niente bisogna esserci tagliati.
Beh, comunque la grana scarseggiava ed erano giorni che non uscivo di casa.
Non una telefonata. Tutto il mondo pareva essere stato inghiottito da un enorme buco nero. Niente giornali, niente radio.
Da tempo non avevo più notizie di Erika e tutto il resto della banda. Da tempo non volevo più pensarci. e il mondo, il tempo, la vita e tutto il caos delle auto immobilizzate in pieno centro, le sirene delle autoambulanze, la vergogna, la puzza e tutto quello che non ho ancora elencato mi stava rotolando addosso come un rullo compressore gigante. e io lì, supino sul letto con la mia fedele gocciolina di sudore che ormai si era spampanata tra l’orecchio e la mandibola, proprio sotto il lobo.
Aspettavo. Inconsciamente passavo il mio tempo ad aspettare. Cosa, non me lo sono mai chiesto, anche perché sarebbe stata dura dare una risposta. Probabilmente non aspettavo nulla.
Cosa avrei potuto aspettare?
Da qualche giorno avvertivo uno strano sapore in bocca e le labbra sempre secche e screpolate, mentre tutto il resto racchiuso nella scatola cranica pareva essere morto all’improvviso, senza essersi preoccupato di avvisare.
Poi mi levai dal letto e aprii la porta del frigo. Solo allora capii, quando ai miei occhi comparve una bottiglia di Tuborg da 66cc. Capii che diavolo mi stava succedendo e nel rendermene conto, gli slip che indossavo si fecero così piccoli da tenermi sottovuoto i genitali. Richiusi la porta del frigo ed uno stanco vento freddo mi fece sentire un poco più vivo di quello che credevo di essere. Ed ecco che qualche cosa cominciò a funzionare. Per uno strano motivo avvertii muovere alcune rotelle del mio cervello. Un campanello d’allarme. Un segnale che poco dopo cessò di esistere.
Sabbia, vento caldo e secco. Nessuna forma di vita. Passai la lingua sulle labbra. Nessun sapore.
Aridità.
Quanto più mi atterriva si era impadronito di me. Ero un cadavere vivente come tanti altri al mondo.
Respirai profondamente perché l’incubo morisse. Riaprii il frigo e afferrai la Tuborg, un pezzo di gorgonzola e richiusi. Altro vento freddo e stanco, ma niente che avesse anche il vago sapore della vita.
Sopra una mensola stava il sacchetto del pane. Mi sedetti a tavola.
Coltello.
Fame.
Apri bottiglia.
Gorgonzola sul pane.
Almeno lo stomaco stava meglio.
Tutto sapeva di nulla.
Il vuoto e l’indifferenza accompagnavano l’aridità attraverso il mio corpo e questa s’impadroniva di me, dopo aver sistemato il suo quartier generale presso il sistema nervoso centrale, tenendo tutto sotto stretta sorveglianza. Ai suoi occhi non sfuggiva nulla mentre io godevo d’una efficientissima cecità.
Comunque avevo identificato il nemico. Non rimaneva che distruggerlo. Ma come? Non sapevo neppure come combatterlo. Ero sua preda a tutti gli effetti, una preda alla sua completa mercé e questo mi rendeva ancora più irrequieto e incapace di agire.
Guardai l’orologio da tasca appeso ai pantaloni che stavano appoggiati sulla sedia. Le lancette segnavano le due e tre quarti. Rimasi ancora li a pensare.
Come sarei riuscito ad arrivare a domani?
Ansia e paura.
Probabilmente non ero coricato sul divano, non respiravo, sicuramente non pensavo e molto probabilmente non esistevo.
Intanto tutto taceva. Il telefono non squillava, nessuno alla porta e neppure il rumore delle auto che passavano giù in strada. Ero un semplice pezzo di carne piazzato in qualche fottuto angolo della terra.
Sforzi indicibili per far muovere le rotelle del cervello. Niente da fare. Non mi restava che sedere e aspettare che qualche cosa accadesse, senza vedere né sentire. Lì, fermo. Perché un tempo vale l’altro. Impotente contro un nemico impalpabile che mi permetteva solo di sudare come una candela accesa e così di consumare. Avrebbe vinto portandomi allo stremo delle forze, quando io stesso l’avrei implorato d’abbattermi. Un bel piano. Io stesso avrei chiesto la fine e lui se ne sarebbe andato con le mani pulite e la coscienza a posto.
Perché avesse scelto proprio me non l’ho mai capito.
E mentre pensavo a tutto questo e mille altre parole graffiavano la materia grigia di un cervello duro come il marmo, capii di essere rimasto senza qualcosa da bere.
Decisi di scendere a comprare qualche birra al market poco distante dalla cabina del telefono pubblico, ovviamente birra a buon mercato, la grana era quella che era e non potevo permettermi altro che la mediocrità offerta dal mercato; dovevo scegliere tra l’underground del luppolo. Mancavano anche le sigarette e non potevo certo continuare a fumare le mie adorate Gauloises, pensai quindi di orientarmi su di una buona busta di tabacco nazionale e cartine Rizla blu, in questo modo sarei riuscito a risparmiare qualche soldo e per arrotolarmele non avevo ancora perso la mano.
Mi alzai dal divano e guardai alla finestra. La sera spianava la strada alla notte, scivolava lungo i vicoli e sbirciava senza troppi complimenti attraverso le scollature delle donne, nessuno l’avrebbe vista.
Le auto viaggiavano con le luci di posizione accese e i lampioni prendevano il posto del sole pisciando in faccia alla luna.
Indossai i pantaloni, camicia e scarpe.
Chiusi la porta alle mie spalle guardando sempre diritto davanti a me, puntando gli occhi sulla porta dell’appartamento di fronte.
CLACK.
La mia si chiuse e l’altra si aprì.
Sull’uscio comparve Eleonora, di fretta come sempre. Veloce chiuse a chiave la porta e sorridendo mi salutò.
“Anche questa sera sono in ritardo.”
“Io non ci penso, quindi non tardo mai.”
Sorrise e agitando una mano mi salutò correndo veloce giù per le scale. Quel breve colloquio di cortesia mi giunse ai sensi come una cascata d’acqua gelata, destandomi dal torpore della solitudine. Ascoltai i suoi passi veloci scendere le scale, fino a svanire e ammisi che avrei voluto conoscerla meglio, ma come? Quella ragazza mi dava l’impressione di essere piuttosto schiva e io non ero molto diverso da lei. Da ché mondo è mondo poli uguali si respingono. Peccato, era una bella ragazza ed era fornita di un certo fascino, che su di me si esercitava a meraviglia ogni volta che la incontravo, ma non riuscivo a imbastire un discorso al di là delle solite parole di convenienza e qualche battuta tanto stupida da vergognarmene appena detta, oppure frasi tanto scontate da farmi sembrare uno qualunque e non una persona interessante per la quale valga la pena passarci del tempo insieme. Anche in quel momento mi mancava qualche cosa, cazzo, lo sentivo che mancava. E rimasi fermo a guardare la porta dell’appartamento di fronte, senza battere ciglio per una manciata di secondi.
Scesi le scale lentamente.
Poco dopo ero in strada sotto la luce di un lampione che esaltava tutto il mio pallore e i sei giorni tappato in casa. Quelli si vedevano tutti.
Pochi passi tra il rumore delle auto e varcai la soglia del market. Ora i rumori erano quelli del registratore di cassa e le parole stupide della gente alla ricerca del prosciutto cotto in offerta speciale, ma che non sia troppo grasso e non contenga polifosfati. Quelli no. Fanno male.
Sfilai di fronte agli scaffali dritto verso il reparto alcolici. Afferrai quattro bottiglie di birra dalla marca mai vista né conosciuta; una sorta di roulette russa al cinquanta per cento di probabilità. O.K. oppure K.O., nessuna via di mezzo.
“No, non prendere quella.”
Mi voltai e la donna continuò a parlare, con le sue gambe lunghe in calze di rayon finissimo a esaltare il colore chiaro della sua pelle. E quelle due pertiche stavano sotto ad una mini d’alta classe...e poi, poco più su... una donna... una femmina, di quelle che sprizzano femminilità da tutti i pori, e ogni suo gesto ribadiva il concetto: SONO UNA FEMMINA.
Fiera d’esserlo, continuò a parlare mentre io ascoltavo. Cavolo se ascoltavo!
“Non ha alcun sapore, l’ho già provata. Se ne possono bere a litri di quella roba, ma il risultato è sicuramente tra i più deludenti.” Sospirò mentre io tenevo ben salde le bottiglie tra le mani.
“Capisci di cosa parlo, vero? Anche tu stai cercando quello che cerco io, ma per arrivarci non segui la strada giusta. Dammi retta, fossi in te mi butterei su qualche cosa di più deciso, come...”
Io riposi le bottiglie sul ripiano dello scaffale, mentre lei pensava a qualche cosa di più deciso.
Gran bella donna.
“Ecco, direi un buon Chianti.”
Mi fece cenno di seguirla e obbedii. Come potevo di...

Table of contents

  1. Sardine in Scatola
  2. Accadde nel 1991
  3. I
  4. II
  5. III
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. XI
  15. XII
  16. XIII
  17. XIV
  18. XV
  19. XVI
  20. XVII
  21. XVIII
  22. XIX
  23. XX
  24. XXI
  25. XXII
  26. XXIII
  27. XXIV
  28. XXV
  29. XXVI
  30. XXVII
  31. XXVIII
  32. XXIX
  33. XXX
  34. XXXI
  35. XXXII