Luna nel Lago
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Luna nel Lago

About this book

L'estate più afosa degli ultimi cinquant'anni quella in cui sono costretti a muoversi i personaggi di questo romanzo. Una calura insopportabile, che condiziona, se non determina, ogni loro comportamento e pensiero, una presenza fisica e materiale che diventa essa stessa protagonista, inducendo tutti gli attori della storia a un profondo cambiamento, a fare i conti con se stessi e il loro passato.
Un matrimonio in crisi, un marito che si trova a vivere una situazione borderline fra droga e sesso, un disco bar alla periferia di Milano: Luna nel Lago e una misteriosa ragazza madre. Intrecci, amori e vizi in questo romanzo dai mille volti.

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Information

Luna Crescente

─ 1 ─
Edoardo correva spesso. Non che fosse un maratoneta o un podista: correva da solo e non sfidava nessuno, tanto meno se stesso. Ne sentiva l'esigenza, ecco. A volte gli sembrava l’unica cosa da fare, e altro non gli veniva in mente. Allora indossava una delle sue tute color blu notte, privata di ogni parvenza di fantasia ─ o calzoncini e maglietta se si era nella bella stagione ─, calzava delle Nike Free Run allacciando prima la destra e poi la sinistra ─ sempre così, destra e sinistra, da due decenni ormai ─ e usciva di casa, senza neanche scrutare dalla finestra che tempo facesse. Nessun cardiofrequenzimetro a misurare le prestazioni, neppure quelle maglie attillate con la cerniera davanti, che fasciano i pettorali ma esaltano la pancia. Non gli piaceva neppure quello sport: era per lui un mero atto fisiologico, quasi un riflesso condizionato, come sbattere gli occhi o inghiottire della saliva.
Specie in quei momenti lì.
Edoardo correva perché quello era il miglior modo che conosceva per riflettere. Un’ora intera, immerso nei suoi pensieri: gli premeva solo questo, nulla di più. I parchi diventavano ai suoi occhi sconfinati tapis roulant, dove a muoversi al contrario non era la pedana bensì lo sfondo. Prati, alberi, panchine gli venivano incontro sfiorandolo a una velocità che poteva essere di sei, sette minuti per chilometro, mentre lui rimaneva fermo, mentalmente fermo, inchiodato alla partenza. Si sarebbe ricongiunto al suo corpo sudaticcio soltanto al termine di un percorso circolare lungo una decina di chilometri: solo in quel momento tutto gli sarebbe apparso nella sua lucida chiarezza, e allora sì che avrebbe potuto abbandonarsi a un filo di sana e tonica stanchezza.
Molte decisioni importanti della sua vita erano nate così, sui sentieri sterrati di quei radi sputi di verde milanesi. Anche le parole da dire a Marina, ─ quelle giuste, attente, soppesate ─ avevano visto la luce in un parco. Passo dopo passo, aveva previsto tutto: le frasi da drammatizzare guardandola negli occhi, le sue probabili reazioni, l'inevitabile pianto finale ─ di Marina, ma anche il suo. Ogni cosa era stata messa a budget.
Il dolore, però, non diventa più sopportabile solo perché sei stato tu a programmarlo. E pertanto, in quella corsa mattutina d'inizio luglio, l'inquietudine si era fatta così densa, quasi vischiosa, da togliergli il fiato. Si fermò allora all’ombra di un albero, le mani sui fianchi, piegato in due dallo sforzo. Una decina di respiri profondi e via, nuovamente in marcia, ma con le gambe ora più pesanti, come se i chili in eccesso fossero finiti tutti a imbottire gli arti inferiori.
Solitamente i pensieri, che alla partenza indugiavano in un torbido labirinto senza uscita, man mano che correva si purificavano, emergendo dalla coltura celebrale fino a rivelarsi in tutta la loro limpida semplicità. Quando avevano assunto la forma ottaedrica del diamante, ove specchiare l'evidenza in ogni sua sfaccettatura, quello era il momento giusto per tornare alla macchina. La melma che prima li nascondeva era come evaporata, forse distillatasi nel sudore che andava a impregnare la maglietta e appiccicare i capelli alla fronte. Una bella doccia, e quegli effetti collaterali sarebbero scivolati via nella rete fognaria di Milano, lasciandolo nudo, più tonico e con le idee chiarissime.
Quel giorno, invece, i pensieri stentavano ad affiorare, rimanendo sepolti nel fango rinsecchito di quell'estate, quasi la calura avesse inaridito anche loro. Non era trascorsa nemmeno una mezzora da quando aveva iniziato, ma si era già pentito di quella scelta avventata. E che avrebbe fatto meglio a non andare a correre lo avrebbe dovuto capire fin dalla sua sortita in auto. Distratto, aveva mancato la svolta che lo avrebbe portato al parco abituale vicino a casa, e questi sono errori che a Milano nessuno ti perdona: clacson e improperi lo avevano convinto a proseguire, e così si era ritrovato, quasi senza accorgersene, in un vialone senza sbocchi; qualche tentennamento ancora ed eccolo irrimediabilmente impilato nell'inferno della tangenziale. Poi aveva visto una macchia verde balenare alla sua sinistra e aveva inforcato la prima uscita. Il cruscotto segnava le otto e quarantasette, e ventinove gradi centigradi. Solo un pazzo poteva correre in quelle condizioni. O un uomo confuso.
Aveva parcheggiato in un piazzale sterrato che dava su uno di quei laghetti che riempiono le cave in disuso della periferia milanese. Chiavi e documenti nel marsupio e via di corsa, al solito passo.
Adesso, però, non ce la faceva più. La sete gli seccava la gola e i pensieri residuavano come pezzi di carbone grezzo più che luminosi brillanti. Finalmente, cento metri avanti a lui, intravide una fontana, da buttarsi sotto e sostarci per delle ore. Proprio quello che stava facendo un altro matto come lui. Ora che gli era più vicino, Edoardo ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un vagabondo, uno di quegli individui che dopo un comodo soggiorno invernale alle terme della stazione centrale, amano traslocare d'estate negli accoglienti e freschi giardini pubblici della città. Ricordava un fenicottero, così allampanato e in equilibrio precario: un piede nudo sulla ghiaia, l'altro sul bordo della vaschetta. Ogni tanto tirava su il viso grondante, gli concedeva una sbirciatina indifferente e si rigettava sotto il flusso purificatorio. Una ragnatela di piccole vene color amaranto gli disegnava il volto e faceva da cornice a due occhi nordici. Età indefinibile, come per chiunque abbia scelto la strada come casa. E un viso che a Edoardo non sembrava del tutto sconosciuto.
─ Ehm… Scusi! Ne ha ancora per molto?
Il senzatetto era appena passato al lavaggio delle ascelle e non pareva proprio dell’idea di cedergli il posto, né di rispondere.
Sarà straniero, pensò Edoardo. ─ Excuse me, may I
─ Cazzo vuoi, fighetta di merda! ─ gli proferì il tizio senza scomporsi minimamente, rimanendo curvo sotto il rubinetto e colpendolo in faccia con uno schizzo d’acqua. L’italiano lo parlava, eccome, e con un accento che suonava duro, forse tedesco.
─ Ma che modi sono questi? ─ rispose Edoardo con una smorfia di schifo, augurandosi che il gusto salato che stava assaporando fosse sudore che calava dalla fronte, la sua. ─ Sappia che questa è acqua pubblica. PU-BBLI-CA. Lo conosce quest'aggettivo?
─ VA FA-RTI FO-TTE-RE… Tu conoscere queste parole?
Edoardo si passò il dorso della mano sulla bocca per prendere tempo ed espellere la saliva contaminata. Forse gli sarebbe bastato trotterellare ancora qualche minuto per decidere se affrontare il lanzichenecco in campo aperto o fingere una ritirata strategica per aggredirlo da dietro. Così, su due piedi (fermi), non riusciva a ragionare.
─ Io ancora dieci minuti buoni, ─ aggiunse lo straniero. ─ Oggi giorno di pulizia generale per corpo di Klaus… Comunque, oltre quegli alberi, c’è bar con bello bagno.
E perché non ci è andato lui nel bello bagno, pensò Edoardo. Nonostante l’informatore non potesse essere annoverato tra i più affidabili, Edoardo lo ritenne comunque un consiglio accettabile, o forse fu il buon senso, che a volte è arduo distinguere dalla vigliaccheria, a suggerirgli di desistere. Così riprese, con fatica, a correre. Superato un piccolo boschetto, il sentiero saliva su un pendio che portava a una casetta, forse il bar indicatogli dal senzatetto. Arrivato sul prato antistante, ci girò attorno, quasi camminando.
Sembrava chiuso. Era un fabbricato a un piano color rosso rubino, con un ampio porticato dal soffitto in cannicciato che si stendeva per due lati. Un po’ defilata si allargava una pedana di legno, ricoperta da una tettoia che si univa al tetto del portico. Distaccata di una decina di metri, una struttura metallica sorreggeva un tendone ed era transennata da un nastro bianco e rosso come quello usato della scientifica per delimitare il luogo di un crimine. Qua e là erano appesi manifesti e poster, che Edoardo trascurò, spostandosi verso il retro. Lì trovò due porte con i simboli dei cromosomi maschili e femminili. Si fermò un attimo a pensare se lui fosse "XX" o "XY", poi spinse il secondo uscio, azzeccandolo ma inutilmente: entrambe le porte erano serrate.
Mi ha preso in giro, quel crucco di merda... Quando pensava, Edoardo perdeva il suo tipico savoir-faire e sapeva essere scurrile, a modo suo. D’altra parte i pensieri sono astratti e soprattutto muti.
Si voltò e guardò giù dal declivio. Da lassù il lago sembrava una grossa pozza grigia i cui vapori, risucchiati da un cielo già arroventato, ne sfumavano i contorni. Intravedeva l’ultimo tratto del sentiero appena percorso, interrotto da macchie d'ippocastani e di pioppi, e qualche platano più in là, mentre la riva del laghetto era puntellata da una sparuta fila di tristissimi salici piangenti. A parte queste ultime piante, cui si sentiva sentimentalmente legato, dei nomi delle altre non era poi così sicuro, in quanto era Marina l’esperta di casa in botanica. Lei avrebbe saputo nominargli ogni tipo di arbusto incontrato lungo la corsa, secondo la forma e la grandezza delle foglie.
Marina, però, non c’era. Non più.
Decise di non perdere altro tempo e tornare verso la fontanella, e qualora fosse ancora occupata dall’energumeno, proseguire diritto alla macchina.
Il tipo, in effetti, era ancora lì, intento a bere. ─ Trovato bar? ─ disse, sputando l'acqua in eccesso.
Allora vuoi proprio la guerra, villano di un teutonicoQuando pensava, Edoardo sapeva essere anche sufficientemente aggressivo, intanto quei pensieri raramente si tramutavano in azioni. ─ Mi prende in giro? ─ disse. ─ Certo che l’ho trovato il bar… chiuso, però. Ecco come l’ho trovato!
─ Io detto che c’è bar con bello bagno. Non che c’è bar con bello bagno... aperto.
Edoardo cercò di fulminarlo con lo sguardo, serrando i denti e stringendo le dita delle mani. Non ci riuscì, perché fastidiosissime gocce di sudore gli penetrarono negli occhi, costringendolo a socchiuderli: difficilmente uno sguardo a occhi chiusi riesce a incutere timore.
─ Comunque io qui avere finito. Questo è ultimo mio piede da lavare. Io non ho altri piedi, solo due. A dire verità, c'é anche uccello da lavare, ma io non lavo mio strumento di lavoro con occhi di libidine che mi guardano da dietro… sehr gefährlich… ─ e si scostò di qualche metro cedendogli il posto.
Edoardo borbottò qualcosa e si avvicinò alla fontana. Aspettò che il getto d’acqua scrostasse anche l’ultimo microbo lasciatogli in eredità e cominciò a ingozzarsi ad ampi sorsi. Poi immerse anche la testa. Grazie a quel flusso gelido gli sembrò di rinascere, e si sarebbe anche levato la maglietta se non avesse temuto di essere confuso con lo zingaro ─ fosse passato qualcuno, non si sa mai. Quando si allontanò dallo zampillo, si accorse che quell'uomo lo stava osservando ridendo.
─ Bar chiuso perché oggi è lunedì, giorno chiusura. Aperto solo di sera. Io non ricordare… I’m sorry.
Edoardo inclinò leggermente il capo di lato, sorpreso da questa pallida forma di educazione. Klaus sembrava adesso un’altra persona, così tirato a lucido, beh, quasi a lucido, e inaspettatamente malleabile. I lunghi capelli umidi, ora raccolti in un codino, aprivano una fronte ampia e spaziosa, e doveva aver perso addirittura qualcuna di quelle striature rosate che prima gli imbrattavano il viso, forse risanato dal fonte battesimale.
─ Ma quel bar è bello davvero di sera, ─ proseguì il tedesco. ─ C’è musica, c’è fiesta, si balla. Io apro sempre concerti.
─ Ah! Allora non me lo posso certo far scappare.
Klaus non fece caso alla provocazione, forse non la colse nemmeno. ─ Tu fare bene di venire. Ja. Qui pieno di allegria, ─ disse, sfiorandosi il mento con la mano e annuendo più volte con la testa.
─ Ascolta, Bob Dylan… Ti ringrazio per l’invito, ma non penso proprio che quello sia il genere di locale che faccia per me, ─ commentò Edoardo, allacciandosi la sua Nike di destra, segno inequivocabile dell'imminente partenza.
─ E cosa fa per te? Biblioteca di civiche raccolte storiche? ─ mettendosi a ridere in modo scomposto, quasi danzasse a un ritmo tutto suo.
Edoardo passò alla scarpa di sinistra, anche se perfettamente allacciata ─ era ormai prossimo allo start ─, chiedendosi come un tipo del genere potesse conoscere, e nominare con esattezza, un luogo di cultura sconosciuto ai più. Poi si sollevò, scosse il capo più volte e riprese a correre in direzione del parcheggio. E nonostante il sibilo enfisematoso dei suoi respiri, il rumore gracchiante delle suole sulla ghiaia e il tintinnio acuto delle chiavi nel marsupio, riuscì lo stesso ad arrivare, forte e chiara, la voce rauca del vagabondo, ─ Ja, tu fare bene di venire. Du bist traurig, mein Freund. TRAURIG! ─, che Edoardo finse di non sentire.
─ E poi stasera… stasera canta LUNA! ─ urlò infine.
No, ora Edoardo non lo stava ascoltando per davvero, nel tentativo disperato di riacciuffare il filo delle sue irrisolte congetture, ma quell'ultima parola, luna, s'intrufolò in qualche solco del suo cervello e continuò a risuonargli in testa, fino a quando non accese il motore.
E anche dopo.
─ 2 ─
Cancun, ultima chiamata. I passeggeri del volo BV 01150 per Cancun sono pregati di recarsi all’uscita A27.
Quell'annuncio asettico, scandito dalla solita voce femminile compita e misurata, sempre la stessa in ogni aeroporto, passò inosservato alla folla delle partenze di Malpensa, ma un suo riverbero riuscì a raggiungere almeno un paio di orecchie, quelle di Alessia, mentre si stava spruzzando sul polso qualche goccia di "Classique" di Jean Paul Gaultier. Smise di colpo di scuotere la mano, corrucciò lo sguardo e attese la ripetizione dell’annuncio, cosa che avvenne puntualmente ma in inglese. Non lo parlava bene lei, l’inglese, ma Cancun è Cancun in tutte le lingue e quello era il loro volo, non si sbagliava. Si guardò attorno fremente perché Marina, la sua compagna di viaggio, non l’aveva seguita nella scorribanda al duty free, e le carte d'imbarco le aveva lei. Collocò frettolosamente quel busto femmineo in vetro rosato (sullo scaffale di Dior...) e uscì di corsa dalla profumeria.
Alessia era senza dubbio una donna avvenente, palestrata il giusto e, presumibilmente, ritoccata qua e là ─ soprattutto là... davanti. Lei, però, negava.
Marina, invece, sembrava appartenere a un'altra specie. In verità, quando erano compagne di banco al Sacro Cuore di Milano, i maschietti mormoravano che fosse proprio lei la più bella della classe. Crescendo però, le linee suadenti della femminilità in Marina erano rimaste confinate a un timido accenno, e le acerbe formosità si erano presto svuotate di quella linfa che fa girare la testa agli uomini, linfa cui Alessia, evidentemente, aveva attinto a piene mani. Forse si doveva proprio a questa diversità il fatto che, sebbene fossero passati più di vent’anni, erano rimaste buone amiche, non essendoci tra loro alcuna competizione nella cruenta arena dei sessi. Non bastasse, Marina era sempre stata sentimentalmente impegnata e ─ peggio ancora ─ fedele, e questo fin dai tempi delle prime mestruazioni, alternando due, al massimo tre fidanzati, diventati subito "storici". Anche sforzandosi, non si riusciva a immaginare Marina se non come la metà di una coppia. Adesso però questa "mezza coppia" era una donna ferita, un animale braccato che sarebbe potuto diventare molto insidioso, ora che i cacciatori li odiava. Ma a questo, Alessia ─ preda per vocazione ─ non sembrava dare peso.
Finalmente scorse l’amica tra i volti assonnati che vagavano per la libreria. ─ Cacchio, Marina! Hanno chiamato il nostro volo un casino di volte. Non lo hai sentito? Rischiamo di perderlo! ─ urlò affannata, saltando la coda e raggiungendola alla cassa.
Marina si girò come se fosse lì per sbaglio e cercasse l'uscita per tornarsene a casa. ─ L'hanno chiamato? Strano, non ho sentito nessun volo per Playa del C...

Table of contents

  1. Prologo
  2. Luna Crescente
  3. Luna Piena
  4. Luna Calante
  5. Luna Nuova
  6. Eclissi di Luna