I sogni degli altri
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I sogni degli altri

About this book

Un romanzo composto di suggestive immagini, in bilico tra il reale e il fantastico, in cui storia, sogni, desideri e reconditi riferimenti si fondono in una suggestiva vicenda corale. Il protagonista è un giovane autistico la cui vita sarà stravolta da una scoperta imprevista, fatta tra le mura di uno squallido bagno pubblico. Ma il protagonista è anche un ricco uomo d'affari costretto, suo malgrado, alla ricerca spasmodica della sorella ormai svanita nel nulla da diversi anni e della quale scoprirà un passato sconvolgente. E ancora, il protagonista è un uomo sul letto di un ospedale che lotterà contro i suoi demoni e che si rivelerà presto, essere collegato incredibilmente con gli altri personaggi. I sogni sono il filo che li accomuna e una domanda si farà sempre più lapidaria: e se poi la realtà non fosse altro che l'infinito sogno di qualcuno?

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Information

Primo sogno. Sotto anestesia

Dissolvenza.
La situazione era diventata improvvisamente insostenibile e a quello stato d’insostenibilità pareva non esserci rimedio. Era necessario elaborare un piano nel minore tempo possibile, per far sì che si creasse una modifica a quello status quo. L’inventiva non era certo un elemento mancante nelle caratteristiche di Flavio, anzi ne era un portatore sano tanto da renderlo quasi famoso per le sue mirabolanti stramberie che era in grado di inventare per uscire a districarsi da qualsiasi situazione critica. Si sarebbe potuto tranquillamente definirlo un mago dello sgusciamento per il modo scivoloso e silenzioso con il quale veniva fuori da determinate situazioni intricate; scivoloso come quei biscioni che nelle giornate assolate d’estate inaspettatamente attraversano le strade di campagna scorrendo via quietamente. Quindi, azzardò come un abilissimo giocatore di poker.
«Credo sia inopportuno.»
«Cos’è che crede inopportuno?» chiese incuriosito l’uomo con la fronte imperlata di sudore, osservando attentamente il volto di Flavio.
«Suppongo che ci sia uno stretto e vitale collegamento tra il raziocinio e la libertà individuale.»
L’uomo parve ancor più incerto sulla questione che d’improvviso Flavio aveva intrapreso.
«Lei si riferisce alla possibilità che ha ogni singolo individuo di poter fare della propria vita e quindi della fede, quel che più crede sia giusto?»
«Per non parlare poi della sensibilità di alcuni. Sa, alle volte, le persone molto sensibili sono quelle più recettive e la normale conseguenza è la loro inclinazione nel subire degli abusi… i bambini per esempio. Prenda come esempio i bambini» incalzò Flavio.
«Vorrebbe affermare che quelle piccole creature sono fautrici degli abusi ignobili che troppo spesso subiscono?» asserì sospettoso l’uomo.
«Lei crede a una cosa del genere? Lei crede o meglio il suo dio la porta ad affermare una cosa del genere?» ribatté Flavio disegnandosi sul viso un’espressione di serio rimprovero.
«Credo che lei non abbia capito…» sovvenne quasi incredulo l’uomo, anche se non gli era ben chiaro di cosa stessero parlando.
«Oh no, no. Lasci stare che io la capisco bene la gente come lei, sempre pronta a giudicare e denigrare. Che cosa credete che la verità vi si sia riposta nella tasca? Oh buon uomo, questi discorsi non attaccano con me.»
L’uomo si guardò attorno attonito. Si tolse il cappello di colore marrone chiaro mostrando una bella testa priva di capelli, fatta eccezione per quelli presenti sui lati del cranio e dietro la nuca i quali se ne stavano lì come una corona d’alloro. Si deterse la testa sudata con un fazzoletto bianco che in seguito ripose nella tasca del pantalone color beige. Il sole ce la stava mettendo tutta per far sentire la sua influenza e, dalle chiazze che andavano allargandosi sotto le ascelle dell’uomo, si capiva che il suo intento era andato a buon fine. Sbatté le palpebre più volte quasi a volersi destare da quello pseudo incubo che improvvisamente lo aveva avvolto. Quel discorso era illogico, come l’immediata necessità che ebbe di orinare, ma si trattenne.
«Lei mi vuole prendere in giro giovanotto, ma io non starò qui a farmi canzonare dal primo pinco pallino che passa per strada. Lei deve solo stare attento alla giustizia divina perché è scritto che la fine del mondo verrà e solo i puri potranno salvarsi e aspirare a una vita eterna. Mentre lei, caro giovanotto, è sulla via della perdizione, sul sentiero dissestato dell’immoralità, del vizio e del peccato. Lei è ancora giovane e ha tempo per redimersi e capire che la vita vera non è quella che andate predicando e praticando voi altri. Ah no, mio caro giovanotto, la vostra vitaccia fatta di lussuria e mere necessità, non fa altro che condurvi in un percorso tortuoso e… aaaaaahh!»
Sette, erano sette. Flavio riuscì a contarle tutte le otturazioni che l’uomo aveva in bocca. Quattro nell’arcata inferiore e tre in quella superiore e, a onor del vero, erano fatte anche piuttosto bene; appena avrebbe smesso di urlare, gli avrebbe dovuto chiedere chi era il suo dentista. Spostò il suo piede destro che era ben schiacciato su quello dell’uomo ed egli smise di urlare. Flavio non sapeva più come uscire da quella situazione, così aveva pensato bene di calpestare violentemente il piede dell’uomo il quale ora lo fissava in cagnesco.
«Lei è un folle» gridò l’uomo mentre tentava di massaggiarsi il piede con tutta la scarpa, assumendo una posa piuttosto buffa. «Lei è davvero un pazzo furioso. Spero le prenda un accidente… Cristo se glielo auguro» anatematizzò l’uomo andando via percorrendo la strada nel senso contrario a quello di Flavio, il quale parve sollevato. Era riuscito, anche se in modo non semplice, a svincolarsi da quella situazione intricata. Del resto non aveva mai potuto soffrire i testimoni di Geova, soprattutto quelli che infastidivano nelle situazioni meno opportune, proprio come quella, poiché era diretto velocemente al bar. Posto sacro, ritrovo dei perduti o semplice luogo nel quale rifugiarsi per non pensare ai problemi dai quali si è afflitti, che siano essi lavorativi o sentimentali o di qualsiasi natura.
Il bar Rial Caffè era il classico bar bettola che si può facilmente incontrare in qualsiasi periferia di una qualsivoglia città italiana. Il bar bettola è agli antipodi del bel bar situato sul corso principale della città o a ridosso di un luogo d’interesse turistico o storico, perché il bar bettola punta a tutt’altra clientela, offrendo tutt’altro servizio. Flavio sapeva benissimo cosa aspettarsi una volta entrato in quel bar e ciò perché, in quel luogo, da anni ci passava il suo tempo libero e ne aveva molto a disposizione. Il nome del bar non aveva alcun significato specifico, semplicemente il proprietario voleva chiamarlo Real Caffè, ma poiché quel nome era già stato utilizzato da un altro bar bettola che distava pochi metri e l’insegna era già stata ordinata, il proprietario si era visto costretto a modificare il nome Real in Rial. All’insegna bastò coprire con del nastro adesivo le tre linee della E così da tramutarla in I e il gioco era fatto.
Entrando nel bar, Flavio fu accolto com’erano accolte tutte le persone che bazzicavano di frequente il locale ovvero, con totale indifferenza. Genesio, il vecchio postino ormai in pensione, era assorto nella lettura delle notizie di calcio mercato sulla Gazzetta dello Sport. Marione, con la solita maglietta degli Iron Maiden, era intento in un rapporto al quanto intimo con il vecchio flipper che, il più delle volte, andava in tilt. Al bancone Valerio serviva un’acqua tonica a Serena, una donna di sessant’anni la quale da giovane, si raccontava in giro, la dava per due giri di vodka e due Martini. Ora, probabilmente, si sarebbe accontentata dei soli due giri di vodka ma Flavio l’aveva sempre vista con davanti un bicchiere di acqua tonica e sul volto l’espressione di leggera tristezza che ha una donna consapevole di aver perso il suo fascino, se pur prezzolato.
«Fossi in te, andrei in giro con un cartello al collo con la scritta saldi» esordì Flavio sedendosi su uno degli sgabelli al bancone di fianco alla donna.
«Invece, ai coglioni come te, dovrebbero attaccare un campanaccio al collo così, annunciando il loro arrivo, noi altri possiamo rifugiarci dalle infinite cazzate che da lì a poco saremmo costretti ad ascoltare.»
«Oh, oh, siamo nervosette oggi? Cos’è non hai cavato nessun ragno dal buco?» aggiunse Flavio ridendo sonoramente di una battuta che solo lui aveva apprezzato e di fatti, guardandosi attorno, nessuno parve dargli retta.
Serena lo guardò e mugugnò, poi si voltò dandogli le spalle e si mise a osservare la televisione nella quale, il bel presentatore di turno, parlava con fare deciso e professionale delle avventure amorose e a limite del legale del politico di turno.
«Ah, vorrebbero farci credere che adesso un politico del suo rango e con così tanti soldi, perda del tempo a pagare quattro sgallettate minorenni? Che brutta bestia è l’invidia anzi, meno male che c’è lui altrimenti sai che palle sto’ Paese» affermò la donna con gli occhi puntati sul televisore.
«Comunisti del cavolo ecco cosa sono. Nient’altro che comunisti! Sono solo bravi a criticare e farci credere che la verità sia solo nelle loro parole e gettano fango su chi cerca di fare qualcosa di buono per questo fottutissimo Paese» intervenne ardito Valerio, mentre con una pezzuola non del tutto linda, asciugava dei bicchieri.
«Sante parole Valerio» disse Genesio il postino che fino allora sembrava riversasse in uno stato catatonico. «Io, quegli schifosi rossi, li ho combattuti e so come agiscono. Sono delle carogne che vivono in attesa che il proprio nemico faccia una mossa sbagliata e là zang, gli segano la testa. Loro macchinano il tutto e i giornalisti, loro amici, sono manovrati come marionette. Ah, se ne avessi ancora la forza, spaccherei il culo a tutti» e mestamente osservò la sua mano che, guantata dal mostro invisibile del Parkinson, era pervasa da un tremolio ininterrotto.
«Diciamocela tutta: quest’uomo che i giornali non fanno altro che diffamare, in realtà è un tipo forte. Quanto meno lui se la spassa con delle belle gnocche mentre, quegli altri barbosi, non fanno altro che dire cose… barbose, ecco» argomentò Marione mentre addentava una barretta di cioccolato.
L’uomo, per natura, è stupido a differenza degli animali. Non si è mai sentito dire che un animale sia stupido mentre l’uomo lo è. Lo è perché è presuntuoso e si erge a essere superiore, intelligente e a giudicarsi è se stesso. Come potrebbe essere intelligente un essere che si giudica da solo? Nessuno dovrebbe giudicare se stesso, dove sarebbe l’intelligenza? Magari la superiorità si evince dalla sua capacità di parlare, ma spesse volte gli uomini parlano e non comunicano, al contrario degli animali che scambiano tra di loro informazioni di qualità. Il punto nevralgico però sta nel fatto che gli umani fanno nascere dalle parole l’immaginazione ed essa, a sua volta, induce a fare sogni, ad avere desideri. I desideri e i sogni hanno sostanza aulica e il passaggio da essi all’illusione è davvero breve e quest’ultima si potrebbe ben definire un osso duro da digerire soprattutto quando svanisce. Gli animali non hanno sogni e quindi illusioni, hanno solo necessità di mangiare e sopravvivere quindi, il crollo delle illusioni, è un problema prettamente legato all’essere umano il qual crollo lo fa riversare nello stupore. Il termine stupidità nasce da una condizione d'incapacità o insensibilità, indotta da meraviglia, sorpresa e di conseguenza si deduce che, al crollo delle illusioni e al sopravvento dello stupore, l’essere umano riverserà inesorabilmente nella stupidità. Seguendo questo ragionamento è chiaro che gli animali non hanno parole, non hanno i sogni, né i desideri né le illusioni: che culo! È evidente come mai l’essere umano è il più stupido degli animali e tutto è dovuto al fatto che l’uomo ha la parola. Socrate di tutto ciò ne era cosciente, infatti affermava che: «L'alfabeto genera l'oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori attraverso segni estranei. Ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di moltissime cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti.» Questo fu il ragionamento pseudo filosofico che elaborò Flavio osservando e riflettendo sulla puerilità delle argomentazioni date dai suoi attuali compagni. Ma ben diversa e più usuale fu la frase che pronunciò di seguito.
«Ma soltanto io mi sono reso conto che quello non è un benefattore, ma soltanto un pappone che se la fa con delle ragazzine scemette?» affermò Flavio con la fronte corrugata osservando le immagini al televisore. Si guardò attorno, ma si accorse che la sua frase era caduta nel vuoto e nessuno gli dava credito. Nessuno poteva dargli retta perché non se la sentivano, in cuor proprio, di dar ragione a un ritardato. Sua madre lo definiva speciale e a lui faceva infinitamente piacere immaginarsi così, come un super eroe, come Spider-Man che tanto amava. Non gli diedero retta anche perché, in fondo, sapevano che aveva ragione, ma tanto ormai lo scoramento generale che pervadeva la nazione non poteva indurli ad assecondare il suo ragionamento né tanto meno quello di un manipolo di comunisti anticlericali, pronti solo a sfruttare l’occasione per assicurasi il potere che non erano mai stati in grado di acquisire.
«Ma va là, cosa ne vuoi sapere tu di queste cose. Hai appena un filo di peli sul viso e vuoi metterti a discorrere di politica? Su, su, vai a giocare ai videogame» disse qualcuno, ma Flavio non lo vide perché era ancora rivolto a guardare il televisore posizionato su un braccio di metallo, attaccato alla parete in alto. Osservava quelle scene dell’uomo politico di spicco che sornione e sorridente usciva dal tribunale e dopo essersi sollevato sul predellino dell’auto blu, salutava come un divo d’altri tempi la folla acclamante. Sarò pure un giovane mentecatto, si disse Flavio, ma a me sembrano loro i veri deficienti.
Smise di corroborare su tali iniquità che sembrarono improvvisamente non essere di grossa importanza, a lui bastava leggere Spider-Man e mangiare fette di pane spalmate di Nutella e tutto era okay. Si voltò in direzione di Valerio, il barista, e gli ordinò un bicchiere di Coca-Cola.
«Ne sei sicuro Flavio?» domandò Valerio stufo per quella scena che quasi ogni giorno si andava ripetendo. «Non è che ti fai prendere dagli attacchi di mal di pancia come ogni stramaledetta volta?» e lo guardò con fare nervoso e preoccupato assieme.
«Sì, sì, sta tranquillo. Ecco qua i soldi» e posò sul bancone una moneta da due euro che sbattendo contro il metallo del ripiano, emise un forte rumore. Nel giro di pochi secondi il bicchiere stracolmo di Coca-Cola frizzante era di fronte al ragazzo il quale lo osservava con occhi trepidanti. Flavio mandò giù la bevanda tutta d’un fiato, sotto gli occhi sconsolati dei presenti.
«Dieci, nove, otto… » cominciò a contare divertito Marione.
«Non facciamo scherzi, non di nuovo» esclamò Valerio sensibilmente preoccupato.
Il volto di Flavio, improvvisamente, cominciò a sbiancare e a imperlarsi di sudore, sintomo di una sofferenza interna che andava pian piano palesandosi.
«Sette, sei, cinque, quattro… » continuava a contare ad alta voce Marione.
Ora l’attenzione di tutti era rivolta solo ed esclusivamente a Flavio e a quello che ormai era chiaro sarebbe nuovamente successo da lì a breve. Quella scena era solo una riproposizione di ciò che era accaduto già diverse altre volte e con la medesima sequenza.
«Tre, due, uno» concluse Marione di contare posando l’accento sul numero uno, come a voler dare risalto al termine dell’attesa per lo pseudo spettacolo. Flavio aveva il volto contrito e con gli occhi strabuzzanti osservò implorante Valerio.
«La chiave Valerio, la chiave del bagno. Presto» disse il ragazzo scattando in piedi.
«Eh no, cazzo. Non di nuovo, l’ultima volta ho dovuto chiamare una ditta per pulire il bagno» affermò sconfortato il barista, mentre velocemente si apprestava a porgere la chiave al ragazzo che ormai sembrava in balia di bisogni intestinali incontrollabili. «Stai attento a non sporcare, ti prego» aggiunse implorante Valerio rivolgendosi a Flavio, il quale gli scippò le chiavi di mano e velocemente corse nel bagno.
«Però pure tu Valerio, lo sai che ogni volta è così e allora non dargli da bere quella roba» affermò Serena in modo di rimprovero.
«Non ti ci mettere pure tu, che già mi basta quel che dovrò pulire. Dio santo aiutami tu» disse l’uomo sollevando il volto e le braccia in cielo, implorando un aiuto divino.
Seduto sul water, Flavio era contorto da spasmi intestinali che sembravano non aver termine. Maledisse quella bevanda e la sua irrefrenabile voglia di berla che, ogni volta gli arrecava i medesimi dolori e fastidi, ma che irrimediabilmente continuava imperterrito a bere. Già sentiva i rimproveri della mamma quando avrebbe saputo che per l’ennesima volta non aveva dato retta alle sue raccomandazioni e aveva fatto nuovamente di testa sua. Sbuffò solo all’idea, mentre dall’interno del suo stomaco, venivano fuori rumori non del tutto rassicuranti. Poi sollevò il capo e si mise a osservare le varie scritte presenti sulle pareti del piccolo bagno. Erano tante e scritte con penne dal colore diverso: ora nere, ora blu e anche rosse e verdi, ma tutte con un solo tema specifico. Una, tra le molte, lo fece sorridere, anche se non la capì pienamente. La frase campeggiava sulla parete alla sua sinistra ed era di colore rosso acceso e dal tratto si capiva bene che fosse stata scritta con un pennarello e diceva: A FORZA DI VEDÈ FICHE GLI SI È RIZZATO ANCHE AL MURO!
Sorrise ancora una volta leggendo quella frase figurandosi e, non con poca difficoltà, l’ipotetica scena, ma una nuova scarica intestinale lo riportò subito alla critica situazione attuale. Alzò gli occhi al cielo infastidito da quella brutta circostanza, ma allo stesso tempo si biasimò per quella sua stupidità ripetuta che lo aveva costretto a stare seduto su quel water, in quel bagno maleodorante e poco pulito, checché ne dicesse Valerio. Sicuramente stava contribuendo e non poco allo scarso profumo che campeggiava tutto in torno, ma non poteva fare altrimenti, certo lo avrebbe voluto fortemente non esserne fautore, ma si sentiva morire per la forte colica che lo aveva colpito.
D’improvviso i suoi ragionamenti furono messi a freno dal rumore della porta che si apriva. Restò impietrito: chi si era arrischiato di entrare nel bagno sapendo che vi era lui e soprattutto in quello stato particolare? Non seppe darsi una risposta, passò in rassegna tutti i volti di coloro i quali erano presenti nel bar e gli parve di credere che nessuno di loro avrebbe fatto una cosa del genere. Magari era qualcuno di passaggio nel locale e quindi non di sua conoscenza? Si chiese interdetto Flavio sempre pietrificato, quasi non respirando più per non far alcun rumore. Poi, quel qualcuno, aprì il rubinetto e subito un forte rumo...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. Prologo
  3. Primo sogno. Sotto anestesia
  4. Secondo sogno. Ancora sotto anestesia
  5. Terzo sogno. Sempre sotto anestesia
  6. Epilogo