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Guarda e passa
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Italia, 1958. Lui, Alberto, è un giornalista. Viandante per la penisola, ritrattista dei personaggi del proprio tempo. Lei, Ludovica, è una donna di buone maniere, dai tratti gentili. Vive a Roma, in una casa bianca e curata, nella quale Alberto è spesso ospite e amante. Lei, Ida, è una donna dagli occhi bui e luminosi. Astuta e passionale, incontra il giornalista nelle verde e nera Venezia. Lui, Khaled, è un poeta arabo. Calmo ed errante, porterà con sé il protagonista dall'Emilia alla Valle Dei Templi. Il contrasto tra le due donne, unitamente ad un'inquietudine indossata senza riflessione e ad il viaggio col poeta, condurrà Alberto ad una nuova realizzazione, e ad una scelta.
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Information
Guarda e passa
Un complesso di vecchi uomini suonava la scaletta che ogni membro conosceva e ripeteva come la domenica l’Ave Maria, nel locale semivuoto e fumoso. Fumoso di tabacco che strabordava dai calli dei disperati, non di incenso librato ed espanso dalle mani del predicatore.
Il trombettista in particolare eseguiva movimenti con le dita che richiamavano la meccanicità degli operai Ford dei primi del secolo, con il fumo color carbone che usciva dal tubo di scarico.
Il trombettista in particolare eseguiva movimenti con le dita che richiamavano la meccanicità degli operai Ford dei primi del secolo, con il fumo color carbone che usciva dal tubo di scarico.
“Cosa posso servirle?” Chiese il barista, un uomo tracagnotto in procinto di cadere nella calvizie più profonda.
“Un doppio Bushmills.”
Il tizio si voltò per eseguire il proprio lavoro manuale, mentre la band faceva il suo, e io preparavo il mio. Nella valigetta ai piedi dello sgabello stavano raccolte le domande che avrei posto al rabbino Amaram, nel portafoglio il biglietto recante l’indirizzo a cui trovarlo. Non una sola persona sedeva in sala per diletto. Il cameriere con la camicia di fuori doveva servire ai tavoli, i musicanti dovevano muovere le mani a tempo e soffiare negli ottoni, mentre i clienti nelle sigarette, per conquistare le prostitute al bancone, dimentichi che servisse altro per farle proprie; io correggendo il tiro delle domande, per non risultare mai banale né invadente.
Due sgabelli oltre un uomo, aggiustandosi le bretelle, contava i soldi che aveva fatto. La band smise di soffiare una melodia ormai noiosa e soffiò la seguente.
Due sgabelli oltre un uomo, aggiustandosi le bretelle, contava i soldi che aveva fatto. La band smise di soffiare una melodia ormai noiosa e soffiò la seguente.
Arrivò il Bushmills accompagnato da un bicchiere d’acqua gelida. Bevvi di uno e dell’altro.
Avevo vaghe direttive dalla redazione. Che fondamentalmente si limitavano ad un “niente politica”, per via di diversi affari che lo vedevano coinvolto. Non c’era problema: la politica non era di mio interesse.
Avevo vaghe direttive dalla redazione. Che fondamentalmente si limitavano ad un “niente politica”, per via di diversi affari che lo vedevano coinvolto. Non c’era problema: la politica non era di mio interesse.
Una delle cinque domande, tuttavia, andava riveduta. “Che rapporti ha con il nuovo sindaco della sua città?”
Sarebbe stata una provocazione ad un uomo dalla coda di paglia, ora che questi aveva presenziato come testimone in un processo che lo vedeva coinvolto.
Mi rifugiai in una domanda priva di carattere “Ho sentito che lei è un grande appassionato di Dante. Cosa ne pensa dell’oggettivazione che fa dell’aldilà?” Presi un sorso e preparai due domande di riserva, poiché con un personaggio d’autorità il riserbo ben spesso si mischia alla censura.
Mi rifugiai in una domanda priva di carattere “Ho sentito che lei è un grande appassionato di Dante. Cosa ne pensa dell’oggettivazione che fa dell’aldilà?” Presi un sorso e preparai due domande di riserva, poiché con un personaggio d’autorità il riserbo ben spesso si mischia alla censura.
Alzai la testa verso il balcone per organizzare le idee e attraverso lo specchio notai un’ultima lavoratrice: una donna che, scopa alla mano, spazzava il locale mentre ancora lo spettacolo andava avanti. Il complesso muovendo gli occhi sapeva che la sera seguente avrebbero soffiato altre bocche, quella dopo lo stesso, e nulla sarebbe cambiato, fino al loro ritorno in una notte di Novembre. Nessuno avrebbe aggiunto nulla alla scena che la donna ogni sera cancellava per far riscrivere. Mi chiesi che cosa ci facesse una donna tanto bella in un posto come quello.
Uscii dal locale senza lasciare una moneta né una parola alla donna, inconsapevole prima e pentito poi. Fuori era una notte buia e stellata. La primavera ancora attendeva in sala, e alcuna rondine anticipava il suo ingresso. Allontanandomi di isolato in isolato sentivo la musica farsi più sottile, i colpi di batteria scendere dalla fronte al petto fino ai piedi, per essere scaricati ai primi hipster con sentore d’America.
Conoscevo molti hotel, ma al Corso non c’ero mai stato. Era la prima volta che visitavo Latina. Ricordavo il discorso che fece Mussolini alla radio quando la inaugurò, come si conviene per un cinema o un supermercato. E per una città, nel nuovo secolo distopico. Ricordavo gli articoli dei giornali esteri che esaltavano il progetto. Ora sulla strada riuscivo a scorgere in lontananza le impalcature per i lavori alla centrale nucleare.
In albergo un uomo mi consegnò le chiavi e domandò per che ore gradissi la colazione. Era certamente il padre della ragazza che descrisse Guido, l’amico che mi indirizzò per la notte in un assolato pomeriggio di Milano sulle gradinate di Piazza Duomo.
“E Rachele, non te la puoi scordare mica! Certe gambe… È la figlia del capo, puoi immaginare quanto lui sia contento di averla ad intrattenere i clienti.”
“Serio?”
“Serio?”
“Ma che!”
Ma non c’era alcuna Rachele in albergo. Erano passati due anni da quell’assolato pomeriggio milanese, e la figlia del capo aveva fatto in tempo a sposarsi e a figliare.
Ma non c’era alcuna Rachele in albergo. Erano passati due anni da quell’assolato pomeriggio milanese, e la figlia del capo aveva fatto in tempo a sposarsi e a figliare.
Nella stanza di fianco una coppia di novelli sposi faceva l’amore, dopo essersi l’un l’altro recitati lunghe poesie d’amore, mentre io rileggevo un’ultima volta le carte prima di addormentarmi.
Appuntamento fissato per le dieci, ed io già sveglio alle sette, abituato da tempo immemore a correre per il primo treno. Dimenticavo quando fosse stata l’ultima volta che me l’ero presa comoda, svegliandomi quando il sole svetta alto. La moglie del capo d’albergo servì una tazza di latte caldo e pane con marmellata di fragole. Proclamò fieramente di averla cucinata lei, e le credevo: aveva l’aria di una donna molto annoiata.
Lasciai il bagaglio all’ingresso, armato della sola valigetta. Ma sempre troppo presto per l’appuntamento, feci quanto si suole in questi casi in una città che non ti appartiene: visitare i luoghi detti di interesse.
Tutto ciò che seppero enfatizzare i proprietari d’albergo, le voci nel locale della serata precedente e lo stesso Guido fu la nascente centrale nucleare. Non era difficile giungervi: come nelle medievali cittadine italiane a indicarti la via erano le imponenti chiese della piazza, così nel ventesimo secolo a guidarti sarebbero stati i fumi delle centrali. Questo affermavano gli uomini del progresso. E perché non credere? Erano loro gli uomini in cui aver fede.
Un uomo fece gesto di allontanarmi nei pressi della centrale. Portava una mascherina e una bizzarra tuta bianca in tinta col casco. Non riuscivo a vedergli gli occhi, coperti da occhiali neri. Dietro di lui in lontananza riuscivo a scorgere altri operai ugualmente acconciati, marciando tra sacchi di cemento e sbarre di ferro. Erano soggetti interessanti, se il mio capo me l’avesse permesso ci avrei scritto un articolo, un giorno.
In Via Degli Ulivi aprì la porta un distinto signore di bell’aspetto. Indossava un sorriso diplomatico e rughe tutt’attorno agli occhi e sulla fronte, ma le mani estremamente curate lo tradivano.
“Posso offrirti un tè?” Dopo le presentazioni.
“Certo, la ringrazio.” E scomparve dietro la porta, dalla quale sentivo l’acqua scorrere e l’uomo dal largo torace respirare profondamente.
“Lei non ha mai provato un tè preparato nel modo ebraico?” Chiese dall’altra stanza.
“No, mai.”
“Immaginavo.” Disse, facendo capolino con la testa dalla porta, prima di tornare a trafficare in cucina. Sentivo il tintinnare dei cucchiai e delle tazze.
“È una rarità in Italia. Mi arriva direttamente da Gerusalemme. Pensi quanto è piccolo il Mondo.”
Lo studio era inondato di libri lungo ogni lato. Su ogni parete poggiava un’antica e prestigiosa libreria, e su queste un migliaio di volumi di studio. La maggior parte erano testi religiosi, ma altri trattavano di storia, geografia, addirittura di astronomia e psicologia. Un saggio deve essere saggio in ogni aspetto. E lui era tenuto a esserlo, seppure fosse un dito di polvere sulle quattro librerie a tradirlo.
Tornò nella stanza con due graziose tazze in preziosa porcellana, poggiate su di un vassoio d’argento. Avendomi concesso il servizio buono, dovevo essergli riconoscente.
Si sedette dal lato opposto della grave scrivania in noce e con un gesto dalle mani grandi ma curate mi invitò a iniziare.
Stava manieristicamente composto, impreparato alle domande, o piuttosto teso all’idea che dalla mia bocca potessero uscire parole sbagliate, non gradite e pericolose. Dietro la sua testa stava al muro un imponente tavola in muro che recitava
DA’AT
Ho cercato l’Eterno ed Egli mi ha risposto, mi ha liberato da tutte le mie paure.
Ho cercato l’Eterno ed Egli mi ha risposto, mi ha liberato da tutte le mie paure.
Ma mentiva, o l’Eterno non gli aveva risposto, o facendolo non lo aveva liberato dalle sue paure. Non lo volevo in agitazione, non avevo interesse nei processi che lo coinvolgevano. Piuttosto avevo curiosità nelle mani curate e nella polvere sui libri. Per rassicurarlo prendevo lunghe pause in cui sorseggiavo il tè caldo che fumava alla destra della mia mano scrivente. Non ci avevo fatto granché caso a primo sguardo, ma i suoi occhi oltre che da rughe erano contornati di occhiaie. Disse di essere perseguitato da quelli che fino a un decennio prima avevano orgoglio nel definirsi fascisti, e che ora si nascondevano sotto diverse vesti, pur mantenendo la cravatta di ugual colore. Così le notti si facevano insonni, la polvere si accumulava, la saggezza svaniva per dar spazio alla paranoia. Era questa la grande pena che Dio gli aveva inflitto, la peggiore. E a suo dire ingiustificata. Decisi di non chiedergli niente a proposito di Dante, ricordando l’infima posizione che i falsari dello Stato occupano all’Inferno. Le sue mani erano nervose, la sua gamba senza freno tremava. A tenerlo calmo era solo quella dolce acqua bollente dal sapore di cannella, noce e dattero. Chiesi allora qualcosa di prima non contemplato, nemmeno tra le domande di riserva. Si trattava di un azzardo, geniale e tremendo.
“Cosa ne pensa della nascita dello stato di Israele?”
“Le mie ossa sono deboli, i miei muscoli stanchi. Sento la necessità di una casa, in cui riposare e curare le mie antiche piaghe.”
Bevvi un sorso e presi appunto delle sue precise parole.
“Posso fumare una sigaretta?” Fece cenno di sì.
“Ne vuole una?” Fece cenno di no. Accesi la mia, tirai due lunghe boccate mentre lui dava lenti sorsi.
“Non teme che la casa in cui lei voglia riposarsi sia già occupata?” Il profumo della cannella si mischiava ora al forte odore del tabacco.
“Sa, l’ho vista questa casa. E una cosa mi ha sorpreso, e sorprenderà anche lei: sì, c’era qualcuno in quella casa –si fermò per controllare la mia reazione- e curava le piaghe dell’ospite stanco.” Non capivo a cosa volesse arrivare.
“Non la seguo, rabbino.”
“Ho detto piaghe? Dovevo dire doglie –bevve ancora, sornione e più sicuro di sé, sapendo di giocare in casa; la gamba aveva cessato di tremare, la mano restava al suo posto, maneggiando con cura il manico della pregiata tazza –una donna araba camminava per una strada fatiscente verso il villaggio. Era tetra e malandata, ma l’unica che collegava la propria dimora isolata al mercato. Un chilometro ancora oltre dalla sua casa poggiavano le fondamenta di quella di una donna ebrea, che invece tornava dal mercato, travolta da sempre più forti dolori. Correva verso casa, per cercare la protezione e l’aiuto del marito, ma non ce l’avrebbe mai fatta. Troppa strada c’era da fare, troppo dolore nelle sue membra. La donna araba, venendo dalla parte opposta, la vide. Era una donna analfabeta, ma aveva assistito al parto dei suoi fratelli. Mise l’ebrea all’ombra usando il velo che portava sulla testa, le strinse la mano e poggiò le sue sul ventre di lei, fino a renderla madre. Fu così che nacque il primo figlio d’Israele.”
Il treno procedeva lento e fumante verso l’arrivo a Roma alle sedici. Soltanto tre ore di scalo e un nuovo treno mi avrebbe portato a Milano. Le mani dicevano di essere già stanche per le due –troppe- ore di lavoro nello studio del rabbino. Perciò la macchina da scrivere da viaggio restava chiusa nella valigetta riposando, e io guardavo fuori dal finestrino la campagna che Orazio cantava tra Roma e la moderna Basilicata. La mente era attiva, e rielaborava le risposte e le movenze del saggio. Avevo ventiquattro, massimo quarantotto ore per la consegna dell’intervista. Non mi era b...
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