LORENZO MANGO
DRAMMATURGIA DELL’AFASIA CARMELO BENE E LA SCRITTURA TEATRALE COME NEGAZIONE DEL RACCONTO
Una premessa
Parlare della presenza del monologo nel teatro di Carmelo Bene o del rapporto tra Bene e il monologo è qualcosa che va al di là dell’uso e della pratica di una forma drammaturgica. Significa entrare nel modo stesso che Bene ha di costruire lo spettacolo e, ancora più a monte, nel suo modo di concepire il teatro. Non è esagerato sostenere che la questione del monologo riguarda, nel suo caso, il complesso della modalità e della nozione stessa di scrittura teatrale.
Nel 1983, mentre sta provando il Macbeth, Bene si rivolge a Susanna Javicoli (unica altra interprete di quello spettacolo) spiegandole l’impianto drammaturgico che ha scelto di adottare, limitando i personaggi solo ai due protagonisti e cancellando, viceversa, il resto. La conversazione è testimoniata in un documento di straordinaria importanza, la ripresa video delle prove dello spettacolo, montate, organizzate e, vorrei dire ragionate in forma di implicito saggio visivo da Maurizio Grande e Ferruccio Marotti per conto del Centro Teatro Ateneo dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» 1.
Spiegava, in quell’occasione, Bene che lo spettacolo andava costruito come due monologhi, specificando: «Bisogna eliminare la dialettica a teatro, perché questa porta al pettegolezzo, porta al teatro di costume». È evidente, già dal poco che stiamo dicendo, come ci troviamo di fronte a un’ipotesi drammaturgica estrema, che interviene in maniera drastica sulla materia del testo di riferimento. Ma cosa intende Bene parlando di monologo, quale significato assegna a quel termine e in quale prospettiva di lettura dobbiamo interpretarlo noi? Se monologo può essere definito il momento di pausa, di cesura nello scorrimento dialogico dell’azione, in cui il personaggio parla tra sé e sé, ebbene tale definizione mal si adatta al modo in cui Bene lo acquisisce nel suo lessico. Non si tratta, infatti, di pensare a una «pausa che conferma» lo scambio dialogico come portato dell’azione, ma al monologo come sostituto di quello scambio.
L’affermazione «eliminare la dialettica a teatro» ci consente di entrare subito nel vivo di questo atteggiamento e dei problemi a esso connessi. Carmelo Bene vuole significare l’aggressione al fondamento stesso del dramma come istanza dialettica che si manifesta nel confronto di volontà diverse, una dialettica che mette a confronto un io con un altro io. Confronto dialettico che trova la sua espressione più compiuta nel dialogo che, proprio per tale ragione, diventa l’elemento fondante della struttura drammatica. Un concetto espresso con grande efficacia e chiarezza da Szondi, che ne fa il portato della sua concezione di dramma:
L’assoluto predominio del dialogo, cioè della comunicazione intersoggettiva del dramma, rispecchia il fatto che il dramma consiste esclusivamente nella riproduzione del rapporto intersoggettivo 2.
La questione del dialogo, come la pone Szondi dunque, non riguarda solo l’esito formale del dramma ma la sua sostanza, la sua stessa ragione che è dialogica in quanto relazionale e dialettica.
Quando Bene si oppone a tale soluzione, lo fa avendo ben presenti entrambe le implicazioni, tanto quella di forma quanto quella di sostanza. La sua intenzione è di proporre, grazie all’eliminazione dell’istanza dialogica e dialettica, quella che potrebbe essere definita con un brutto termine una monologizzazione del teatro. La riconduzione, cioè, della intenzione drammaturgica, ancor prima della forma, alla dimensione di un monologo inteso come sostituto del dramma.
Il monologo in forma di teoria
Per evitare che questo assunto si fermi al piano di una pura suggestione critica, proviamo a entrare nel dettaglio della concezione e della scrittura teatrale di Bene, facendo nostro un appello molto opportunamente lanciato da Franco Ruffini a proposito dei grandi visionari del teatro: tenerli saldamente con i piedi per terra 3. Atteggiamento di cui l’esegesi di Carmelo Bene ha un particolare bisogno.
L’anno prima del Macbeth, nel 1982 dunque, Carmelo Bene pubblica forse il suo scritto teorico più compiuto, un capitolo del libro La voce di Narciso intitolato, giustappunto, Il monologo 4. Al suo interno troviamo un’affermazione particolarmente esplicita nella direzione che abbiamo cominciato ad abbozzare:
Il monologo non è un momento come un altro a teatro. È, al contrario, l’intero spettacolo. Monologo è teatro 5.
Questa affermazione non è un inciso del discorso, è posta, anzi, al suo centro. Rivela come le indicazioni date alla Javicoli in occasione del Macbeth non riguardino solo quello spettacolo e l’ipotesi di una specifica soluzione drammaturgica ma facciano, invece, appello a una visione più complessiva del teatro. Ricondurre alla dimensione del monologo la scrittura drammaturgica, o monologizzare la drammaturgia come abbiamo provato a definire tale procedimento, non è una soluzione «locale» ma l’ipotesi di una visione più generale e complessiva.
Nel saggio dell’82 il concetto non è ulteriormente sviluppato ma, come è nelle abitudini di Bene, a esso vengono associate una serie di altre affermazioni programmatico-teoriche dal sapore vagamente filosofico. Avendo come termine di riferimento polemico l’idea che il monologo, in quanto momento ideale dell’autoesposizione del personaggio, possa essere inteso come luogo massimo dell’affermazione dell’io Bene ne parla, all’inverso, come del «voler svanire del suo [dell’attore] soggetto bambino», come «trama nullificante del suo essere delirio» o ancora come «sospensione del dialogo» e «sospensione del tragico»; in un modo ancor più assertivo ne parla come di un «concorso in rissa» dei diversi frammenti che abitano l’io, per dichiarare, infine che «monologo interiore è parlare-cantare Dio, non le sue lodi, ma la Sua-Nostra mancanza», lì dove il dialogo è definito come «l’osteria del dover essere» 6. Tali affermazioni – in modo particolare quelle in cui entra in gioco il concetto di sospensione – si legano perfettamente al concetto di «azione sospesa» ma in un’accezione estrema e radicale, non sospensione di «una» azione ma sospensione «della» azione, intesa, in senso aristotelico, come base, sostegno e sostanza del dramma.
Si tratta, come è evidente, di affermazioni che sfumano in un territorio che definirei di suggestione teorica più che di teoria vera e propria, ma che, pur nella loro poca precisione concettuale (che, d’altronde, non si può imputare a chi fa della teoria il luogo di manifestazione di una visione e non necessariamente di un concetto, diversamente avremmo poco da ricavare anche dagli scritti di Artaud), aprono interessanti sviluppi attorno a una concezione teatrale di natura non dialettica, non dialogica. In altri termini non aristotelica.
Proprio per restare fedeli al compito di tenere Carmelo Bene con i piedi saldamente per terra, può essere utile verificare il contesto argomentativo al cui interno trovano accoglienza affermazioni come lo svanimento del soggetto o la trama nullificante, facendo notare, anzitutto, come Bene leghi il monologo all’attore e non al personaggio, uno spostamento concettuale di non poco rilievo.
Il capitolo de La voce di Narciso intitolato al monologo ruota attorno a tre argomenti: l’attacco diretto contro la drammaturgia letteraria; un altrettanto diretto attacco contro la regia; la distinzione, se non addirittura l’opposizione, tra dialogo e voce. Si tratta di tre nuclei argomentativi che, pur se sarebbe da ingenui aspettarsi di veder trattati in maniera tecnica, presentano, comunque, delle implicazioni di scrittura, un atteggiamento procedurale nei confronti del linguaggio. La questione del monologo che può sembrare affrontata in termini tutti filosofici, o para-filosofici, va, in realtà, inquadrata all’interno di un discorso più strettamente linguistico.
Il primo di tali nuclei è probabilmente quello che più naturalmente ci aspetteremmo di trovare in un discorso teorico di Bene. Bene stigmatizza quella che definisce «la drammaturgia dell’a priori», quella, cioè, di chi ha pretese autoriali nei confronti del suo prodotto letterario che, invece, viene definito apoditticamente «prologo dell...