1. Difficoltà di inquadramento e di sistemazione teorica della figura presidenziale
Fra tutte le istituzioni repubblicane, il Presidente della Repubblica è quella che offre la resistenza maggiore all’inquadramento e alla sistemazione teorica secondo le metodologie proprie dell’analisi costituzionalistica. Questo disagio traspare nel frequente rifugio della dottrina in formule definitorie (magistrato di influenza e di persuasione, potere neutro e intermediario, grande regolatore del gioco democratico, capo spirituale della Repubblica) che ne descrivono il ruolo quale soggetto politico, ma non sono altrettanto utili a fissarne con precisione i limiti di intervento quale potere dello Stato. Né ciò sorprende, perché la disciplina costituzionale, peraltro assai laconica e ambigua nella descrizione dei poteri presidenziali – come appresso si mostrerà – manifesta un’irrisolta duplicità di ispirazione che rende incerta l’interpretazione della figura presidenziale e ardua la ricerca di una ratio unificante alla quale ricondurre le molteplici attribuzioni dell’organo.
Neppure l’elemento storico-genetico, ossia l’esame dei lavori preparatori, è in questo caso di grande utilità. Il dibattito in Assemblea Costituente oscillò in effetti senza trovare un chiaro punto di sintesi fra la volontà di discostarsi dal modello del monarca “ornamentale” invalso nella tradizione parlamentare inglese e il timore di ascrivere al capo dello Stato funzioni di guida dell’esecutivo, così da riprodurre nei rapporti fra gli organi politici lo schema “dualista” operante nel periodo statutario.
Ne deriva un quadro sfocato, nel quale problemi legati alla traslazione nell’assetto repubblicano di prerogative storicamente regie che i Costituenti ritennero di conservare o riadattare (l’irresponsabilità politica, il potere di grazia, il comando delle Forze armate, la nomina dei senatori, limitata a quelli vitalizi), si sommano a questioni interpretative inedite, connesse alle attribuzioni nuove (dalla Presidenza del CSM e del Consiglio supremo di difesa alla nomina dei giudici costituzionali fino al potere di rinvio delle leggi) che fanno del Presidente della Repubblica italiana un unicum nel panorama dei capi di Stato delle democrazie parlamentari per qualità e quantità dei poteri esercitati.
Sono in particolare afflitte da un’interna ambiguità proprio le due disposizioni costituzionali che dovrebbero delineare i contorni essenziali della figura presidenziale, in quanto rivolte a definire la forma giuridica degli atti del Presidente e il fondamento (oltre che il limite) della sua autorità politica: gli art. 89 e 87, primo comma, Cost.
Dalla previsione che ogni atto presidenziale richiede, a pena di invalidità, la controfirma del «Ministro proponente, che ne assume la responsabilità», si desume che il capo dello Stato è politicamente irresponsabile per quegli atti, ma non che essi debbano essere necessariamente preceduti da una proposta ministeriale, con la quale il Governo esprime il potere sostanziale di determinarne il contenuto. Una simile lettura sarebbe in effetti incoerente con l’attribuzione al Presidente della Repubblica di alcuni fondamentali poteri di garanzia, come quello di nomina dei giudici costituzionali o di rinvio delle leggi alle Camere, che non corrisponderebbero alla loro funzione propria di equilibrio e di controllo se fossero proposti e determinati nel loro contenuto dal potere esecutivo. Ne consegue che vi sono atti presidenziali “senza iniziativa” (o presidenziali in senso stretto), nei quali il rapporto fra potere decisorio e responsabilità si inverte; atti strettamente governativi, come pure atti “duali” o misti, nei quali le due volontà del Governo e del Presidente si equivalgono e concorrono entrambe a determinare il contenuto dell’atto. Il valore della sottoscrizione presidenziale varia insomma a seconda dei casi, almeno secondo la tesi – dominante in dottrina – della polifunzionalità della controfirma, e ciò determina incertezze sul ruolo rispettivo da riconoscere a Presidente della Repubblica e Governo in relazione ai diversi atti che assumono la forma del d.P.R. In particolare sugli atti di più elevato contenuto politico, quelli attinenti alla nomina del Governo e allo scioglimento delle Camere, nei quali il potere di decisione si è spostato, nella prassi, in corrispondenza con il mutare dei rapporti di forza fra capo dello Stato e organi di indirizzo politico, coprendo tutto il campo che va dalla mera presa d’atto alla potestà decisionale piena.
Parimenti incerta è l’interpretazione dell’art. 87, primo comma, che definisce la complessiva posizione del Presidente nel sistema costituzionale, stabilendo che egli è il capo dello Stato e «rappresenta l’unità nazionale». Per opinione unanime, invero, la qualifica di “capo dello Stato” esprime una preminenza in onori e in posizione, ma non in funzioni rispetto agli altri organi costituzionali, descrivendo semplicemente la posizione apicale ricoperta dal Presidente nell’organizzazione statale e l’imputazione formale ad esso degli atti che lo Stato pone in essere nell’ordinamento internazionale.
Intimamente vaga è invece la nozione di rappresentanza dell’unità nazionale, sulla quale è opportuno soffermarsi in modo più disteso, per l’importanza cruciale che essa riveste ai fini della complessiva definizione del ruolo del Presidente della Repubblica nella forma di governo.
2. La funzione di rappresentanza dell’unità nazionale
La formula dell’art. 87, primo comma, Cost., secondo cui il Presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» è intimamente incerta, per la plurivocità di entrambi i concetti che accosta. Da un lato, l’unità nazionale può essere riferita al territorio della Repubblica (l’Italia una e indivisibile dell’art. 5 Cost.); o al popolo italiano inteso come tutto unitario al di sopra delle frazioni politiche e sociali (il popolo detentore della sovranità); o ancora allo Stato come apparato organizzativo, e quindi all’articolazione dei poteri costituzionali nel suo complesso; o infine, in stretta aderenza al dato letterale, alla Nazione, intesa come dimensione spirituale del vivere in comune, forgiata dalla storia e dalla cultura, e dunque «una d’arme, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor». Dall’altro, e soprattutto, il concetto stesso di rappresentanza non è fissato dal proprio oggetto in modo sempre identico e «neppure è il nome di una cosa, ma è piuttosto un’espressione “sinsemantica” e “sincategorematica” con la quale si può operare in modi diversi, a seconda del senso che essa può acquisire entro un determinato contesto».
Nel peculiare contesto di una tradizione giuridica non del tutto emancipata dall’influenza del principio monarchico e dall’idea da esso derivata di rappresentazione monocratica dell’unità statale, il verbo «rappresenta» può essere ricondotto, in astratto, tanto alla nozione di “rappresentazione”, quanto a quella di “rappresentanza”, con evidenti differenze quanto al significato da ascrivere alla funzione rappresentativa del Presidente della Repubblica.
Secondo la prima opzione interpretativa, detta funzione potrebbe identificarsi nella rappresentazione simbolica dell’unità territoriale della Repubblica e dell’identità morale e spirituale del popolo italiano e approssimarsi alla dimensione ecclesiologica della rappresentazione eucaristica. Come questa rende presente l’idea di una invisibile veri...