I. Lo Stato moderno e la sua scienza
La dottrina dello Stato, scriveva negli anni Trenta del secolo passato Santi Romano, «è disciplina variamente intesa, ma in sostanza, a prescindere dalla concezione che l’identifica col diritto costituzionale generale (…) o è, come avveniva per il passato, puramente filosofica, o, più spesso e più recentemente, è giuridica soltanto in parte, e, in questa parte, analoga alla scienza del diritto costituzionale generale». Significativo che per la parte giuridica Santi Romano parlasse di scienza del diritto costituzionale generale, per sottolineare un aspetto specifico della dottrina dello Stato, appunto in quanto scienza. Volendo in questa sede mettere in evidenza l’importanza di questa disciplina pur in presenza di una crisi del suo oggetto, lo Stato (di cui parlava lo stesso Romano già all’inizio del secolo scorso), potremmo anche limitarci a ricordare questa definizione, che salva la disciplina sotto altro nome; vorremmo invece tentare di andare oltre il problema, per certi aspetti privo di importanza, della definizione formale per tentare di capire il significato sostanziale di una disciplina il cui oggetto determina sotto molteplici punti di vista il suo significato non tanto accademico, ma politico, culturale e scientifico al tempo stesso. Per certi aspetti un azzardo, considerando che lo Stato viene oggi dato per spacciato; e così la scienza che se ne occupa.
La dottrina generale dello Stato ha un’origine, com’è noto, tipicamente tedesca, potendo esser fatta risalire nella sua genesi – prima ancora che a von Mohl – già a Kant e alla sua idea di uno Stato garante del diritto, ovvero, meglio, delle libertà di tutti (si tratta appunto del Rechtsstaat come figura omogenea alla centralità dell’individuo e quindi per molti aspetti insensibile alle “formazioni sociali”, donde il primo manifestarsi della “crisi dello Stato” già, in fondo, con la stessa Rivoluzione francese, di cui il pensiero politico di Kant è sublime traduzione filosofica). Quelle “libertà di tutti” (per la verità va ricordato che in Kant i requisiti per essere uomini liberi sono tali da rendere cittadini di fatto solo coloro che possono essere definiti borghesi e proprietari proprio nell’accezione consueta del termine) rispetto alle quali l’idealismo successivo a Kant vorrà però rivendicare anche i diritti delle comunità, delle associazioni, degli organismi e poi, specificamente, delle “nazioni”, con Fichte e con Hegel.
La concezione dello Stato nell’Ottocento si svilupperà tacitamente sempre più nel rafforzamento della convinzione che lo Stato è la forma giuridica propria della nazione, che Stato e nazione sono intimamente connessi, e ciò in Italia con il Romagnosi e il Mancini, altrove in quelle teorie prima giuridiche, poi politiche, che presto – in un rovesciamento di posizioni dalla ‘sinistra’ alla ‘destra’ – si chiameranno “nazionaliste” (e che troveranno in Francia la loro patria, soprattutto nelle elaborazioni dottrinali di autori come Barrès e Maurras). Una convinzione che in verità – va detto già qui – è tutt’altro che fondata, esprimendo soltanto una vocazione del tempo, una sua idealità (il farsi Stato delle “nazioni” in senso moderno), nient’affatto, però, sempre rispondente alla realtà delle cose, realtà che ancora nell’Ottocento vedeva Stati non coincidenti con una data e sola nazione (esempio tipico l’Impero austro-ungarico, Stato in forma di impero, ma pur sempre, già ed ancora, Stato).
La dottrina dello Stato si sviluppa però come disciplina in senso proprio solo nella seconda metà dell’Ottocento, trovando la sua piena fioritura tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento, specialmente in riferimento al tema della ‘sovranità’ degli Stati dopo la fondazione del II Impero tedesco e l’unificazione della Germania sotto la guida della Prussia di Bismarck. È perciò utile vedere, sia pure schematicamente, come viene definito lo Stato agli albori di questa disciplina.
La prima concezione dello Stato lo considera come espressione della forza, ciò in particolare, per esempio, in Gumplowicz, per il quale – criticando le concezioni ‘giuridiche’ in quanto politicamente ‘tendenziose’ – lo Stato è una organizzazione del dominio di una minoranza sopra una maggioranza. Per Max von Seydel, poi, lo Stato risultava essere soltanto un fatto, e fatto era ciò che conferisce ad un paese e ad un popolo essenza di Stato, cioè l’imperio. Lo Stato è per lui oggetto di imperio inteso come il fatto della forza.
Queste teorie ed altre simili sono oggi dimenticate, ma esse rivestirono una certa importanza, anche perché costruirono i loro sistemi su premesse filosofiche: Gumplowicz, per esempio, si richiamava al determinismo di Spinoza per elaborare una teoria dello Stato fondata su una divisione di classi che corrispondevano anche – sulla base delle teorie di Gobineau – a due razze distinte: quella dei vincitori (i Franchi) e quella dei vinti (i Galli).
Anche uno storico come Treitschke sostenne nella sua Politica la tesi per cui gli Stati «non sono derivati dalla sovranità popolare, ma sono creati contro la volontà del popolo; lo Stato è la forza della schiatta (Stamm) più forte, che impone se stessa (…) Anche nell’ulteriore corso della storia, fra tutti i poteri efficienti, che ci sono noti, la guerra è il fattore più importante e più potente dei popoli (…) la guerra e la conquista sono i più importanti fattori della formazione dello Stato».
Impostazioni tutte che implicano una concezione ‘elitista’ della politica, nel senso che lo Stato sovrano si identifica in qualche modo, prima o poi, con la classe politica di governo, con il governo in quanto tale, come accade, ad esempio, nella dottrina dello Stato del Bornhak, ma poi anche nella dottrina del Duguit, in Francia, o del Laski in Gran Bretagna. Vocazione sociologica, dunque, quando non “darwiniana”, che in qualche misura riduce lo Stato a forza, al fatto, o lo configura secondo modelli naturalistici, che siano essi di tipo individualistico (lo Stato-persona alla maniera dell’individuo-persona a fondamento della dogmatica giuridica dell’Ottocento) o di tipo organicistico (Bluntschli, nel primo caso, Ahrens, Trendelenburg nel secondo, per ricordare solo alcuni autori).
Si dirà che a queste concezioni si contrappone la più ricca e liberale teoria dello Stato di diritto, ma: cos’è, propriamente, ‘Stato di diritto’? Premesso che i significati del termine possono benissimo essere accolti da chi scrive nella loro generalità, dal punto di vista concettuale il termine Stato di diritto, Rechtsstaat, ha sempre palesato un’ambiguità di fondo che non a caso è proprio alle origini – sia pure inconsapute – dell’attuale crisi della dottrina dello Stato, nella misura in cui gli ideali politici e di civiltà della anglo-sassone rule of law, una volta identificati con il continentale Rechtsstaat, si sono scoperti essere però cosa diversa dallo Stato di diritto. Questo, infatti, si identifica storicamente con l’individualismo liberale e con la sua costruzione teorica; ora, la crisi dell’individualismo liberale è alle origini proprio della crisi dello Stato, così come la crisi dello Stato sociale ha aggravato, a sua volta, la crisi dello Stato in quanto tale e, di conseguenza, la sua ricostruzione ideale, sia essa giuridica o filosofica.
Fu a suo tempo osservato criticamente da un filosofo del diritto idealista che «lo Stato di diritto nell’estensione somma del contenuto, quale è stata svolta da alcuni studiosi, non è che lo Stato moderno negli aspetti storici da esso assunti e nelle funzioni concrete che progressivamente è venuto svolgendo. Un’indagine sullo Stato di diritto si confonde con l’indagine sullo Stato sic et simpliciter, anzi meglio sui fini dello Stato». Ed è proprio qui il punto cruciale della questione: lo Stato ha fini (anche se non sono i fini a determinare il concetto di Stato) e questi fini dipendono anche dall’ideologia che li elabora con riferimento agli apparati statali; questi fini non sono fissati una volta per sempre – esclusi alcuni, connessi specificamente all’essenza dello Stato come forma storica determinata – e quando questi entrano in crisi, perché superati o assorbiti da altre finalità imposte di volta in volta dalla società, si comincia a parlare di crisi dello Stato, confondendo la natura dello Stato (la sua finalità fondamentale) con le finalità che la società, nella sua evoluzione, impone allo Stato. Ma ciò che alla fine è in crisi è sempre una specifica funzione che si pensava – erroneamente – essere propria dello Stato, mentre lo Stato, continuando a sussistere, avrebbe bisogno esattamente di una dottrina dello Stato rinnovata in grado – in una simbiosi di approcci giuridici, filosofici, sociologici, economici ed etici – di spiegare lo Stato nelle sue continue trasformazioni a partire dalle comple...