II. La “costituzione europea” dopo Lisbona
Ho continuato a fare quello che hanno fatto tutti i napoletani del buon vecchio tempo che hanno amato la cultura francese, inglese e tedesca senza cessare di essere italiani e napoletani.
Benedetto Croce, 1927
§ 1. – Dal ‘Trattato costituzionale’ al Trattato di Lisbona
Il 13 dicembre 2007 la così detta “costituzione europea”, ovvero il “Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa”, firmato a Roma nel 2004, venne di fatto sepolto, senza molto rumore pur dopo le tante discussioni, ma sopra tutto dopo i referendum francese e olandese che nel 2005 lo avevano bocciato. Ciò nel momento in cui se ne firmava – dichiaratamente in nome degli Stati e non più dei ‘cittadini europei’, come nel caso del Trattato costituzionale – uno nuovo, quello “di riforma”, ovvero di Lisbona. Quest’ultimo è un documento tecnicamente complesso, ripetitivo nei concetti, spesso opaco, anzi, come pure è stato definito, semplicemente «oscuro e contorto». Il Trattato di Lisbona sostituisce la così detta “costituzione europea” e prevede – organizzando poi, anche, in un secondo – anch’esso contorto – Trattato ‘funzionale’, il TFUE – le modifiche istituzionali necessarie per l’allargamento prima a 27, ora a 28 Stati, molti dei quali usciti dal dissolto Patto di Varsavia.
A che punto siamo, ora, con la qualità formale del processo di integrazione europeo dopo questo nuovo trattato? Al tempo della Conferenza intergovernativa del 2007 l’ex presidente francese Giscard d’Estaing lo aveva descritto come la vecchia costituzione – o meglio il vecchio trattato così detto ‘costituzionale’ – in ‘abiti nuovi’. Quanti elementi sono stati effettivamente travasati nel trattato di Lisbona? Qual è la posizione più corretta, quella di quei giuristi e commentatori che hanno descritto il nuovo testo come un rovesciamento del processo fino ad allora svolto, dalla costituzionalizzazione dell’Unione alla sua decostituzionalizzazione? O ha ragione Andrea Manzella, uno degli artefici della Carta europea dei diritti, per il quale «se il nomen juris scompare, resta la materia costituzionale. Che anzi per molti punti si accentua. La ‘decostituzionalizzazione’ è solo nominalistica, il tessuto costituzionale europeo resta e si sviluppa».
La tesi di Manzella (e con lui di altri) scaturisce sostanzialmente dal riconoscimento del fatto che il rapporto tra costituzioni nazionali e diritto europeo a partire da Maastricht (ma in realtà già dall’Atto Unico Europeo del 1986, che introdusse il voto a maggioranza nel Consiglio, spezzando così definitivamente il legame di legittimazione tra rappresentanza e corpi elettorali nazionali) si è in parte rovesciato, nel senso che il diritto europeo oggi – in virtù del principio del primato di quel diritto – influisce direttamente sui diritti nazionali. Per un lungo periodo, invece, sono stati i princìpi costituzionali interni ad influire sul processo di ‘costituzionalizzazione’ dell’Unione, producendo quel ‘diritto costituzionale europeo’ che non presupponeva però necessariamente lo sbocco in una ‘costituzione’ europea.
Questa tesi, però, è sia descrittiva sia prescrittiva, nel senso che si fonda su una premessa specifica, il cui senso politico è discutibile, ovvero sulla constatazione che il nuovo Trattato è finalmente riuscito a ‘legare’ formalmente il processo di integrazione con il discorso sui diritti, attraverso il recepimento giuridico della Carta europea dei diritti dell’uomo e l’adesione dell’Unione – per la verità non a caso fino ad oggi ancora non realizzata e che probabilmente mai avverrà – alla Convenzione europea del 1950. Con il rischio – indipendentemente dai dubbi e dalle perplessità pratiche di molti Stati – che l’Unione europea si trasformi ancor più solo in uno strumento della ‘universale’ applicazione dei princìpi della democrazia quale però il Consiglio d’Europa – anche attraverso la sua Corte di Strasburgo – interpreta in maniera ‘dinamica’, ovvero sottraendo preliminarmente quella interpretazione alle procedure della decisione democratica per affidarla vieppiù alle Corti. In quest’ottica il diritto costituzionale europeo non risulta essere il diritto espressione e manifestazione storica determinata di una specifica cultura, ma la forma astratta – che viene imposta dall’alto ad una cultura, quella europea –, di una visione universalistica e normativistica del mondo e degli stessi princìpi fondativi del diritto europeo, compreso, dunque, il principio democratico, entrato a far parte della costellazione valoriale dell’Unione a partire dal Trattato di Amsterdam (art. 6 TUE) per poi essere esplicitato nel Trattato costituzionale in una forma definita giustamente «un guazzabuglio di disposizioni eterogenee».
La premessa di questa impostazione risiede nell’idea secondo la quale l’Unione europea non è soltanto un ordinamento giuridico sui generis, dato concettualmente ambiguo, e sopra tutto liberatorio rispetto ad uno sforzo di approfondimento teoretico, ma configura in maniera concreta l’ipotesi dottrinale della esistenza di “costituzioni senza Stato”. Peter Häberle, interpretando le costituzioni come fenomeni culturali – pur senza chiarire in cosa effettivamente consista questo retroterra culturale – si richiama all’internazionalista austriaco Alfred Verdross per sostenere la tesi secondo cui «il concetto di costituzione non è più riferito in modo primario allo Stato», sicché gli stessi Trattati di Maastricht e di Amsterdam presupporrebbero non tanto «un processo di formazione di uno Stato europeo», quanto «un processo di costituzionalizzazione dell’Europa che si va intensificando nel tempo»: già oggi – siamo alla fine del secolo scorso – si potrebbe parlare quindi «dell’Unione europea come di una comunità che si fonda su una costituzione». Il problema è però di capire cosa si intende, concretamente, per ‘costituzione’, visto che non manca chi parla di costituzione a proposito dei trattati (già di quelli comunitari), che la costituzione può essere intesa come espressione di una decisione costituente (sulla premessa, quindi, della esistenza di un soggetto costituente fornito di potere costituente), come documento formale, come accordo normativo, ma anche come quel fenomeno storicamente dato nella storia dell’Occidente moderno che presuppone determinanti caratteri e che è alla base di precise discipline scientifiche (la dottrina del diritto statuale, la dottrina dello Stato, la scienza costituzionale). Oramai, invece, il termine ‘costituzione’ perde vieppiù sostanza teorica a favore di un uso impreciso, ondivago, che non segnala soltanto la fine della funzione storica delle costituzioni moderne, ma sembra voglia mettere il concetto stesso al servizio di altre impostazioni culturali, in particolare quelle fondate sul primato dei diritti umani e la loro superiorità anche sulla costituzione, di fatto diventata più che altro il simbolo di un processo di delegificazione. Da questo punto di vista è emblematico l’uso che della tematica dei diritti è stato fatto dalla Corte di Giustizia del Lussemburgo a partire dalla sentenza Stauder del 1969 proprio per fare dei Trattati comunitari la ‘costituzione’ della Comunità e di se stessa la corte propriamente ‘costituzionale’ della nuova formazione giuridica.
Da questo punto di vista due sono le principali strade interpretative possibili: una resta nella tradizione della dottrina dello Stato e del diritto statuale (Staatsrecht), l’altra se ne allontana costruendo scenari teoretici nuovi sulla base di esperienze indubbiamente originali, quale appunto l’associarsi tecno-mercatista degli Stati in una struttura fondata sui princìpi della concorrenza economica. Ma mentre la tradizione statualista/internazionalista, pur nelle difficoltà che deve affrontare, riesce a costruire spiegazioni plausibili ed altrettanto plausibili argomenti critici dell’esistente, la via dottrinale opposta, diciamo della ‘federazione’ o dell’ordinamento giuridico post-statuale o a-statuale, finisce semplicemente con l’assumere nel discorso dati di fatto empirici che andrebbero analizzati innanzi tutto nelle loro criticità, mentre invece vengono irrimediabilmente spacciati per delle rivoluzioni di paradigmi teoretici che devono invece essere ancora dimostrati in quanto tali.
Fa certamente molto ‘postmoderno’ parlare di diritto senza Stato, di ordinamento fondato sui ‘diritti’, sui giudici che li proclamano e li legittimano e via dicendo. Rispetto a questo nuovismo la statualità può sembrare retaggio di epoche passate ed anche un po’ buie, per non parlare della sovranità statuale, della legittimità sostanziale, semmai anche dell’egemonia, della politica e dei conflitti. Il problema, tuttavia, è che parlare di diritti non assicura che quelli importanti vengano effettivamente garantiti; parlare di concorrenza del mercato non implica che i consumatori vengano effettivamente tutelati anche in quanto soggetti diversi: per esempio in quanto cittadini membri di una comunità culturale, con le sue memorie, i suoi affetti, i suoi legami.
Un trattato di fondazione di una federazione (di un Bund) può anche essere paragonato ad una costituzione, come ha fatto la Corte del Lussemburgo e ripetono molti giuristi, ma senza uno scopo politico generale resta un qualcosa di labile nel senso negativo del termine, una figura incerta e quindi, trattandosi comunque di ordinamenti politici, suscettibile di crisi e di degenerazione. Abbiamo sotto gli occhi di tutti, in questi giorni, il disgregarsi dell’Unione alle prese con il fenomeno dei migranti, effetto anch’esso, a ben vedere, di quella mancanza di orientamento politico che deforma il viso dell’Europa in quanto patria culturale. Rispetto a questa incapacità strutturale dell’Unione serve a poco una teoria della federazione che pensi di superare, ma al tempo stesso di ...