Perché le donne non si ribellano
Sono molteplici le motivazioni della mancata ribellione della donna:
1. proiezione della propria identità nel riuscire a modificare l’altro;
2. il senso di colpa di aver provocato l’azione dell’aggressione;
3. il timore dell’abbandono;
4. la sfiducia nella capacità di farcela da sola;
5. il senso di colpa rispetto ai figli;
6. la mancanza di sostegno esterno.
1. La prima motivazione è quasi sempre l’identificazione del proprio Sé positivo nel riuscire a modificare il proprio partner. Come dire: “io ti salverò e la mia vita così ha avrà ragione di essere vissuta”. La vittima ha vissuto con il suo aggressore dei momenti felici, ciò la convince, spesso, che il proprio partner la ama. Si convince che i momenti di aggressività siano solo momenti, che esprimano un disagio, una difficoltà che può essere “insieme” superata. Ciò è possibile ad una sola condizione: che il violento ammetta la sua patologia e venga assolutamente seguito da uno psicoterapeuta e, dove ce ne sia bisogno, da un neurologo o psichiatra. Questo passaggio viene glissato dalle stesse vittime che possono assolutamente farcela da sole: i momenti sereni e felici loro li hanno vissuti e questo può avvalorare la tesi che possano essere ritrovati in modo stabile.
2. Molto spesso gli aggressori riescono a rimandare la responsabilità della violenza sulla donna: “se tu fossi più complice”, “se tu non fossi sempre arrabbiata”, “se tu mi lasciassi in pace quando sono nervoso”. Queste sono alcune delle frasi epilogo degli atti di violenza. La sensazione che il comportamento violento sia in qualche modo provocato dagli inadempimenti della donna porta questa a sentirsi responsabile delle azioni altrui. Il passo successivo sarà quello di attivarsi per far fronte a tutte le richieste dell’uomo, per non scatenare la sua ira e riuscire così a dimostrare di essere adeguata, giusta. Per poter andar bene si deve essere come l’altro ci vuole altrimenti saremo responsabili delle sue reazioni. Ciò scatena nella donna un senso d’inadeguatezza e le fa credere di essere responsabile, e quindi colpevole, di portare la relazione alla distruzione. “Se solo riuscissi ad essere più paziente, meno nervosa, sicuramente tutto andrebbe per il meglio, come infatti prima andava”. Questa è la frase tipica che alcune vittime pronunciano dopo aver parlato in senso negativo dei comportamenti del loro partner violento. Immediatamente dopo, puntano il riflettore verso se stesse, rappresentandosi come le colpevoli di quel dramma. Sicuramente una personalità autonoma, indipendente, non cadrebbe nel tranello della violenza, ma spesso nelle relazioni di coppia è difficile trovare un equilibrio tale da rendere un individuo staccato da quello che il partner pensa di lui. Amare è un verbo molto complesso che riguarda sia meccanismi di scambio emotivo ed energetico sano, sia proiezioni ed imitazioni psichiche, che riguardano aspetti nevrotici della nostra personalità. L’unica cosa che io suggerisco sempre è di considerare l’amore come energia, se ci toglie forze, deve avere una grossa parte malata che lo fa divenire da costruttivo a distruttivo. Non è più amore, ma patologia.
3. L’idea di poter affrontare la vita da soli può, a volte, spaventare di più del dover vivere una relazione disfunzionale, che per quanto tale è comunque in grado di riparare alla sensazione di vuoto. Il vuoto è il problema che più affligge tutte le persone che per la loro storia hanno avuto difficoltà a strutturare un saldo rapporto con il “sé”. La sicurezza in se stessi è fondamentale per affrontare l’ignoto, le difficoltà, le paure. Se tutto ciò psichicamente non è avvenuto, la nostra scelta non potrà essere certo di avventurarci, senza armi, nei meandri della vita: dobbiamo trovare un punto di riferimento e ad ogni costo rimanerci attaccati per non affrontare quella sensazione di perdersi nel vuoto. Una mia paziente, anzi, mi correggo poiché il nuovo codice deontologico ci suggerisce di chiamarli assistiti, rappresentava questa sensazione come il cadere in un pozzo senza fondo, che si ripeteva all’infinito senza mai fermarsi.
4. La violenza subita contribuisce alla riduzione del livello di autostima e sicurezza. Infatti da alcuni studi (BMFSFJ, 2004; Killias et al., 2005; Wetzels, 1995) è emerso che la violenza subita o osservata nell’ambito della propria famiglia di origine ha un’influenza rilevante sull’eventuale comportamento violento adottato successivamente e sulla capacità di sopportare violenze all’interno della coppia. È chiaro che più m’illudo di proteggermi rimanendo attaccata al mio punto di riferimento, anche se violento e aggressivo, più sarò minata nell’idea di potercela fare da sola e quindi più rimarrò nella situazione patologica. Questa idea che da sola non sarò in grado di affrontare la vita non è un pensiero ma uno stato d’animo che produce una profonda paura solo nell’immaginare il distacco. Per questo motivo, le vittime tentano delle ribellioni molto miti per poi continuare a subire; sono più terrorizzate da ciò che potrebbe accadere loro là fuori nel mondo, che da ciò che invece sta accadendo all’interno della loro relazione reale.
5. L’eventuale presenza di figli complica notevolmente la situazione, che di per sé è già complessa. Il non poter garantire protezione ai propri figli, il sentirsi responsabili di non aver dato loro una famiglia che li faccia sentire protetti, spesso non aver potuto evitare che essi stessi siano testimoni di violenza o di averla subita, incrementa notevolmente nella donna sensi di colpa, di fallimento e di vergogna ed anche di paura. Ad esempio la donna può avere dubbi in merito all’opportunità di allontanare i figli dal padre, si potrebbe sentire responsabile di distruggere in loro la figura paterna, potrebbe aver paura che essi si alleino con l’aggressore che molto spesso in queste situazioni veste i panni della vittima ricusando fortemente l’accusa di essere l’aggressore, potrebbe incontrare una serie di difficoltà nel gestire l’economia domestica per garantire loro un futuro. È chiaro che tutti questi enormi punti interrogativi bloccano l’agire della vittima, che cerca di continuare a sperare in un cambiamento. Spesso si rimandano nel futuro le decisioni drastiche, a quando i figli saranno cresciuti nel caso il passare del tempo non plachi la rabbia dell’aggressore. Se già si hanno mille difficoltà a prendere la decisione di ribellarsi quando in gioco c’è solo il proprio futuro sicuramente la presenza dei figli non fa altro che aumentare l’indecisione ed il cercare alternative che però non mettano in discussione l’impianto familiare. Queste donne si aggrappano alla speranza di un domani migliore decretando così la supremazia del proprio aggressore che, sentendo la loro paura e la loro dipendenza, non ha nessun motivo per trattenere la sua arroganza ed aggressività. Ormai la vittima è totalmente succube e lui, che ne è il padrone indiscusso, può fare tutto ciò che vuole perché nessuno lo contrasterà.
6. Molto spesso le vittime di violenza possono trovare delle difficoltà nel ricevere aiuto dalla rete sociale in cui sono immerse. La mancanza di un supporto sociale, parentale e istituzionale è sicuramente uno degli elementi che maggiormente concorrono a frenare la ribellione. Solo oggi, coniando il termine “femminicidio”, abbiamo dato un riconoscimento istituzionale a questo tipo di aggressioni. Tutte le iniziative per modificare i procedimenti velocizzandoli, là dove ci troviamo di fronte alle denunce, sono atti doverosi di fronte a delitti consumati all’interno di quella che dovrebbe essere il nostro luogo sicuro, la nostra casa, il nostro nucleo familiare. Le vittime si trovano così sole, impaurite dalle continue minacce del partner, e spesso senza una via di fuga concreta. Spesso sono proprio gli amici e parenti stretti a giudicarle, colpevolizzandole di essere responsabili di voler distruggere la famiglia. Nel pensare sociale è ancora fortemente radicata, sia che si parli di violenza sessuale che di quella familiare, l’idea che la vittima “non è vittima”. Si dà per scontata una sua responsabilità nello scatenare la reazione dell’aggressore. Questo è il vero problema sociale con il quale ci dobbiamo ancora oggi confrontare. Le leggi sicuramente aprono un varco nella possibilità di questo cambiamento, ma se non accompagniamo tutto ciò da un’educazione psicologica che modifichi i modelli interiorizzati continueremo a sentire le madri che condannano le figlie perché vogliono lasciare un marito manesco e continueremo anche a sentir dire che se sei stata violentata in fondo andando in giro di notte da sola te la sei cercata. È questa la mentalità da sradicare, altrimenti continueremo a leggere, ormai quasi tutti i giorni, che un fidanzato o marito lasciato ha ucciso la sua ex-compagna. Nei diritti non dovrebbero esserci sessi, così declama la nostra Costituzione, e nessuno ha diritto su nessun altro, che sia uomo, donna o bambino. Sono passati più di trent’anni da quando il diritto di famiglia ha modificato la sua visione anticostituzionale, ma così non hanno fatto le persone. I diritti degli uomini continuano ad essere diversi da quelli delle donne; per diritto non s’intende una eguaglianza di sessi ma un’eguaglianza di genere. Gli uomini e le donne appartengono alla stessa categoria di esseri umani, le loro diversità fisiche possono impegnarli in campi diversi, ma quello che deve essere cancellato è il concetto di superiore ed inferiore. Sarà una lotta sociale molto impegnativa ma che deve essere assolutamente fatta. Non è più possibile permettere che nelle menti degli esseri umani possa albergare una differenza di sesso che si accompagni a differenze di diritto: questa è la vera rivoluzione culturale necessaria per poterci considerare degni di appartenere alla razza degli esseri umani.
Abbiamo pensato che potesse essere utile a tutti leggere una testimonianza di una donna maltrattata. Per motivi di sicurezza tutti i nomi presenti in questa lettera sono puramente di fantasia.
“Il sole sta per sorgere, dalla finestra s’iniziano ad intravedere i primi raggi ed io, dopo aver passato una notte a pensare, ho deciso d’iniziare a reagire. Voglio scrivere questa lettera per raccontare ciò che mi è successo e ciò che succede a tante, probabilmente troppe, donne come me.
Ora sono in una casa protetta, sembra proprio un film, ma non lo è! C’è sorveglianza e telecamere ovunque e mi trovo qui non perché sono colpevole di qualcosa, ma solo perché sono vittima di un uomo che ero convinta mi amasse e che, invece, ora non deve assolutamente sapere dove mi trovo. Non posso uscire, né avere contatti con nessuno, neanche con i miei familiari, tutto per proteggere la mia incolumità.
È iniziato tutto quando eravamo all’università. Seguivamo qualche corso insieme, lui era un bel ragazzo, di buona famiglia, di un paio d’anni più grande e... chiese di uscire pro...