Un Tunnel chiamato giustizia
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Un Tunnel chiamato giustizia

Achille Melchionda

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Un Tunnel chiamato giustizia

Achille Melchionda

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1978: un giovane, Dante Forni, viene accusato di essere uno dei basisti bolognesi di Prima Linea, ma si proclama innocente e sostiene di non aver mai avuto a che fare con la lotta armata. Gli indizi sembrano smentirlo e a credergli sono solo la sua famiglia e l'avvocato difensore, l'autore di questo libro. Il legale trascorrerà gli anni successivi a dimostrare l'estraneità del suo assistito alle accuse, a demolire impianti accusatori, a dimostrare la falsità di alcuni rapporti delle forze dell'ordine e a smentire pentiti che mentono. Con la passione che lo contraddistingue Achille Melchionda ricostruisce passo dopo passo i momenti salienti di quegli avvenimenti della cronaca nazionale, affidandosi a quotidiani dell'epoca e ad estratti degli atti processuali, in questa nuova edizione aggiornata di un libro ancora oggi di straordinaria attualità.

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Information

Year
2014
ISBN
9788873816959
Parte I
Spiragli di luce nel tunnel
1
Cap
Dicembre 1978
In 5 minuti, 5 anni di reclusione
20 dicembre
La notizia mi colpisce solo per le dimensioni dei grossi titoli di giornali, specialmente sul bolognese «Il Resto del Carlino»: i Carabinieri del generale Dalla Chiesa hanno scoperto un «covo» di Prima Linea a Bologna, in via Tovaglie, a poche centinaia di metri dal Tribunale e dalla dirimpettaia Caserma «Marsili» dei Carabinieri.
Sbircio i nomi dei numerosi arrestati per pura curiosità. I miei unici contatti con gli extra li ho avuti l’anno scorso, durante il famoso marzo ’77 bolognese. Fra gli studenti del corso di procedura penale, che nel ’77 conducevo per incarico, alcuni erano stati indicati come elementi di punta di quel «movimento studentesco» che si definiva «autonomo». Era stato un anno difficile: più occupazioni di aule, scioperi, assemblee, scontri e polemiche, che lezioni ed esami. Le giornate calde della prima decade di marzo erano sfociate in scontri a fuoco con polizia e carabinieri; arresti in massa; l’uccisione del giovane Lorusso da parte di un carabiniere. Poi la città aveva rapidamente ricuperato la sua fisionomia normale, almeno all’apparenza. Sembrava volesse soprattutto dimenticare.
Quasi tutto il corpo docente della Facoltà di giurisprudenza aveva espresso una certa solidarietà verso gli studenti arrestati, ed i professori iscritti all’albo degli avvocati si erano dichiarati disponibili alla difesa gratuita dei loro studenti. Anche io. Non era polemica politica. Si aveva l’impressione che gli arresti in massa, necessitati o no dall’emergenza di quei giorni, non contribuissero a riportare la calma, ma al contrario potessero rinfocolare il contrasto fra le istituzioni e la popolazione studentesca. In fondo, quando quei ragazzi, nelle loro esagitate e violente assemblee, accusavano tutti (dallo Stato al Comune, dall’Università alla città) di avere creato, attraverso lo specchietto della «liberalizzazione» degli studi universitari (libero accesso a tutte le facoltà, scelta individuale dei «piani di studio», possibilità degli «esami di gruppo», ecc. ecc.) nulla più che un «parcheggio di disoccupati» dall’ambiente del lavoro a quello dello studio, senza serie future prospettive di lavoro professionale o qualificato, dicevano cose vere e giuste. Accidenti alla demagogia.
Be’, era andata a finire che uno di quegli studenti arrestati, a torto od a ragione indicato come uno dei «capi», che aveva frequentato le mie lezioni, dimostrando in verità scarsa passione per il diritto, ma tanta vivace intelligenza, tanta potenzialità di apprendimento, e buona cultura politica, scorsa la lista dei docenti dichiaratisi disponibili alla difesa «di solidarietà», aveva scelto me.
Era stata la mia unica esperienza di difesa in processi definibili come «politici»; con tutte le riserve che ebbi e conservo per queste aggettivazioni (per me la difesa è soltanto un fatto di applicazione corretta delle leggi vigenti). Ricordo ancora il mio disagio durante le riunioni del «collegio di difesa» al sentire alcuni colleghi, bolognesi e non, introdurre o pretendere di introdurre argomenti assurdi, permeati di polemiche storico-politiche come linea di difesa di quegli imputati. Ne presi subito le distanze, deciso, come poi feci, a considerare sempre il banco della difesa semplicemente come strumento di affermazione della giustizia.
Scorro, dunque, il nome degli arrestati per il «covo» di via Tovaglie: Rossetti, Veronesi, Turicchia, Forni, Malossi, Ubaldini… non mi dicono niente. Per la verità, poco mi dice anche l’espressione Prima Linea. Terroristi, di sicuro. Quanta alle differenze rispetto alle altre etichette o sigle, Brigate Rosse, Nuclei Combattenti, e chi più ne ha più ne metta, ammetto la mia ignoranza.
Basta, la notizia non mi interessa più di tanto. Sento, dentro, un po’ di compiacimento per il buon colpo messo a segno dai carabinieri, guidati dal capitano Nevio Monaco, che conosco e stimo molto: ero in commissione di laurea quando discusse la sua tesi sulla nuova legge in materia di stupefacenti. Quanto ai terroristi… se la sono voluta, fatti loro…
Parto per Modena. Sono difensore di alcuni funzionari di banca, imputati di concorso in reati valutari. È questo il «penale» che mi piace ed al quale mi dedico con interesse. Niente rapine, niente violenze sessuali, niente droga, meno che mai terrorismi e roba simile. Mi dedico al penale commerciale, al penale amministrativo, o fallimentare, o tributario… insomma a quella che è di moda definire «la criminalità dei colletti bianchi». Lo confesso: preferisco avere a che fare, cioè ricevere in studio, parlare, discutere, studiare, difendere, persone col colletto bianco e la cravatta piuttosto che giovinastri con i jeans, la maglia unta e le unghie nere. Borghese? E borghese sia. La mia autodifesa è che … conosco colpe peggiori dell’essere borghese.
22 dicembre
Mi telefona l’avv. Luigi Rinaldi: mi chiede di assumere la difesa di un certo Dante Forni, uno di quelli del «covo» di via Tovaglie. Lui non può, per motivi che non mi precisa, ma anche perché non è un «penalista» abitudinario. Gli dico che no, la cosa non mi interessa; non ho predisposizione, né simpatia, per questi processi. Eppoi, per quel poco che ho letto sui giornali in questi giorni, non vedo cosa ci sia da difendere. Dice che Dante Forni, per quanto lui lo conosce, non dovrebbe essere «uno di loro». Io insisto, la proposta non mi interessa. Comunque, lui mi ribadisce, se dovessi cambiare idea, nessun imbarazzo verso di lui perché la sua rinuncia al mandato è definitiva.
Nel pomeriggio viene a trovarmi l’avv. Umberto Guerini, un giovane collega con il quale ho avuto poche occasioni di incontro, ma che considero un professionista capace, sicuramente uno dei destinati «a sfondare». Lo ricordo quand’era ancora studente, personalità prorompente e marcata, senza essere un «agitato». So infatti che è un socialista, attivo nella federazione bolognese.
Guerini mi propone la stessa cosa di Rinaldi: la difesa di questo Dante Forni. Gli dico della telefonata di Rinaldi. Ne è al corrente, fra di loro si sono già parlati, proprio da Rinaldi ha avuto quel po’ di carte processuali già a disposizione delle difese (i verbali di perquisizione e di sequestro, gli interrogatori degli imputati).
Mi aggiorna sommariamente: agli arrestati del 19 dicembre si contestano due gruppi di reati; per uno (detenzione di armi, esplosivi, ed altro) pare che la Procura della Repubblica sia intenzionata a disporre al più presto, come la legge impone, un processo per direttissima, subito dopo Natale; per l’altro (associazione sovversiva, banda armata, eccetera) sarà aperta una istruttoria che richiederà prevedibilmente tempi assai più lunghi. Mi chiede di affiancarlo fin da ora, per la «direttissima» sul possesso delle armi. Dice che è autorizzato a parlarmene anche dalla famiglia di Dante, il cui padre è suo compagno socialista (come del resto lo stesso Dante), persona degna e dabbene. Proprio per questi rapporti personali, che appesantiscono la responsabilità della difesa, desidera il conforto di un co-difensore più anziano.
Lo capisco. Solo gli stupidi, gli incoscienti, gli irresponsabili (e fra i professionisti, avvocati compresi, ve ne sono a josa), mancano dell’umiltà indispensabile per rapportare le proprie forze alla gravità di un caso. Accade assai di peggio: tanto più un caso è difficile, tanto maggiore è il numero degli arrivisti che si agitano per farselo affidare. Non è che a loro non importi come andrà a finire; è che non si rendono conto che andrà come andrà, in ogni modo non grazie alla loro incapacità. Ciò che interessa è legare il loro nome all’importante affaire, per una automatica pubblicità. Non colgono neppure l’esatta dimensione della difficoltà da affrontare; riescono a guastare definitivamente una situazione, a farla precipitare, per incoscienza, in baratri dai quali poi non si risolleverà mai più.
Ch’io comprenda ed apprezzi lo scrupolo di Guerini. per l’assunzione di responsabilità nel difendere questo Dante Forni, non è però ragione sufficiente per trovarmici coinvolto. Gli dico che non sono fatto per i «processi politici»; mi obietta che proprio per questo mi vorrebbe insieme a lui. Allora, dico, non politico per non politico, a Bologna ci sono tanti altri colleghi più bravi e capaci ai quali può rivolgersi; ma mentre comincio a nominarli mi interrompe e mi confida che ci ha già pensato e provato: uno gli ha detto di no per principio, l’altro perché sta per partire per le ferie di Natale e rientrerà dopo l’Epifania, il terzo gli ha fatto dire che era già partito…
Mi schermisco come posso, gli faccio capire che non ne ho nessuna voglia, me la cavo dicendogli che ci ripenserò, ne riparleremo dopo Natale; ma non ci faccia troppo affidamento. Dopo che è uscito, ci ripenso e mi trovo ad avvertire come un senso di vergogna. Mi metto nei suoi panni. Mi immagino di essere come ero vent’anni fa, e cerco di vedermi mentre busso da una porta all’altra alla ricerca di un collega piú anziano con il quale condividere la responsabilità di un caso difficile. Mi vedo rifiutato… con tutta cortesia e umana comprensione. Cerco di immaginare che cosa sta pensando di me Umberto Guerini; e mi dò una risposta che non mi piace, e mi colpevolizza. Poi reagisco, e mi scrollo di dosso queste romanticherie. Perché proprio io? Che debba essere sempre il solito debole, preoccupato per gli altri? Si arrangino, gli altri. Faccio questa libera professione proprio per essere libero di dire di sì o di no, come piú mi piace, senza doverne rispondere ad altri che non a me stesso. E se anche il «me stesso» mi dà qualche fastidio… be’, vada anche «lui» a quel paese…
23 dicembre
Nel giro di poche ore, durante la mattinata, mi telefonano i big del PSI di Bologna. No, non sono iscritto al partito, sono «dell’area»; mi sento, insomma, un po’ socialista, ho votato spesso per il PSI, ho talvolta manifestato idee non dissimili; anni fa ho anche ricoperto, come «indipendente», ma proposto dai socialisti, una piccola carica amministrativa. C’è dunque una specie di dialogo aperto tra questo partito e me.
Mi pregano di assumere Ia difesa di Forni. È un loro iscritto (l’hanno dovuto «sospendere» all’indomani dell’arresto per esigenze di tutela del partito); ma proprio non credono che possa essere un terrorista. Si rivolgono a me soprattutto a nome del padre, un compagno socialista di vecchia e provata fede, persona veramente corretta e seria che merita, anche sul piano umano, la massima solidarietà.
Sono telefonate lunghe e difficili. Una schermaglia tra me, sempre intenzionato a rifiutare, ma con la dovuta delicatezza, e loro, rispettosi della mia indipendenza, ma desiderosi di farmi accettare.
Chi ottiene di piú, alla fine, è l’On. Babbini: mi strappa un consenso almeno a ricevere il padre di Forni: lo ascolterò, per poi decidere, in piena libertà. Accetto, sicuro di riuscire ad esprimere anche a lui un «no» definitivo.
Sto giocando, me ne rendo conto, anche sul tempo. La «direttissima» per la questione delle armi sembra fissata tra pochi giorni. Se riesco a tener duro ancora per un po’ (è prossimo l’intervallo di Natale e Santo Stefano) arriviamo a ridosso del processo, quando oramai avrò l’alibi della mancanza di tempo per preparare la difesa. Ci penserà Guerini; poi si vedrà.
24 dicembre
Viene da me il padre di Dante Forni. Al partito gli hanno detto che ero disposto a riceverlo, ed eccolo di fronte a me. Gli snocciolo tutte le mie riserve; non mi sento portato a processi di questo genere (vero); conosco poco o nulla dei fatti (vero solo in parte: ho nel frattempo riletto attentamente le notizie di stampa dei giorni scorsi e ne sto seguendo con interesse l’evolversi); cerco di fargli capire che è importante, per un imputato, che il difensore abbia, prima di tutto, una carica interiore capace di spronarlo, una certa passionalità, insomma, una forza da convincimento profondo, senza di che… Ciò che taccio è che mi sento invece condizionato dalle notizie di stampa che ho letto e riletto. Titoli sempre impressionanti ed a caratteri cubitali, una sconcertante ridda di nomi e di aggettivi, una gara alle connessioni con lugubri fatti del passato recente. Si fa con insistenza il nome del brigatista Corrado Alunni, lo si dice legato al covo di via Tovaglie almeno per il tramite dell’architetto Massimo Turicchia, pure arrestato il 19 dicembre a Bologna, al cui nome Alunni aveva affittato a Milano l’appartamento nel quale si nascondeva.
Tutti i giornali, di qualsiasi «colore», mettono in evidenza l’avvenuta scoperta, nel «covo bolognese», di ben tremila schede al nome di personaggi appartenenti ai più disparati ceti ed ambienti, compresi magistrati, carabinieri, poliziotti, giornalisti, industriali: insomma, tutte potenziali vittime del terrorismo rosso. Schede che, si dice, contengono precisi dati sulle abitudini di vita, sugli orari di lavoro, sui percorsi più consueti, sulle vetture che usano… Tremila schede!
Si riparla (cioè, si riscrive) della fallita rapina di Argelato, conclusa con la barbara uccisione del brigadiere dei Carabinieri Lombardini; se ne indicano possibili collegamenti con la «banda di Prima Linea» arrestata a Bologna, anche per possibili tramiti che coinvolgono il Prof. Toni Negri di Padova.
So bene che sui giornali arrivano, da palazzo di giustizia, dalla questura o dai carabinieri, soltanto le notizie «ufficiali», ed è evidente che la stampa sta riflettendo il compiacimento dell’opinione pubblica per la scoperta di questo importante covo bolognese; il Sindaco Zangheri ha espresso, insieme, soddisfazione per il riuscito blitz e preoccupazione per questa inattesa realtà cittadina, ha encomiato magistratura e Forze dell’ordine, ha evocato il marzo ’77, ha preannunciato che si recherà dal Ministro Rognoni, di lì a pochi giorni, accompagnato dai presidenti della Giunta regionale e della Provincia, per chiedere assicurazioni su future più intense operazioni di controllo e vigilanza…
Queste mie sensazioni non vengono fuori davanti al sig. Forni. Sto sul generico: la mia indisponibilità è di principio.
Avevo immaginato un colloquio più difficile, ma stranamente sembra comprendermi e darmi ragione. Neppure lui, comunque, affronta il merito del processo; o ne sa poco, penso, o semplicemente non ritiene di discuterne in questo primo approccio (forse, maligno dentro di me, sa che il figlio è indifendibile); si limita a dire che si fida di me, per le buone referenze che ha avuto da quanti lo hanno a me indirizzato. Non sembra voler forzare la mia libertà di scelta; comprende benissimo che se non accetto di buon grado finirei con l’essere di scarso aiuto.
I giornali di oggi confermano che il processo direttissimo è stato fissato per il 29 dicembre. Tiro a cavarmela guadagnando tempo.
«Del resto – aggiungo – avete già l’avvocato Guerini: è bravo, serio, molto capace; siete in ottime mani».
«È vero – mi dice – Umberto mi dà ampio affidamento; ma vede, proprio lui mi ha fatto il suo nome…».
«Insomma, signor Forni, non me la sento di difendere una persona che, mi scusi la franchezza, è in odore di terrorismo». «Ma mio figlio…».
«Vede, se mai accettassi questo incarico, e poi mi accorgessi di difendere proprio un colpevole di terrorismo, so benissimo, perché mi conosco, che finirei col rinunciare al mandato; e questo potrebbe danneggiare suo figlio più che il difenderlo senza convinzione».
Credo di avere così chiuso il colloquio, anche perché il mio interlocutore sembra riflettere su quanto gli ho detto. Ma riprende:
«Avvocato, posso dirle solo questo: mio figlio non è un terrorista, lo sento con assoluta certezza. Proprio ieri pomeriggio mia moglie ed io siamo andati a trovarlo in carcere; prima di salutarci e abbracciarci ci ha detto “se credete che io sia un terrorista non disturbatevi a venire e ad aiutarmi”. È stato come se mi dicesse che avremmo finito di essere genitori e figlio se lui ci avesse tradito fino all’essere diventato un brigatista».
Si ferma un attimo e poi, con lo stesso tono neutro prosegue: «Ecco se Dante è un terrorista, prima ancora che lei rinunci a dife...

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