Francesco Crispi
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L'esistenza di Francesco Crispi (Ribera, 4 ottobre 1818 – Napoli, 12 agosto 1901) percorre tutto l'Ottocento, e oggi, oltre un secolo dopo la sua morte, in un'epoca assai distante dagli eventi che lo videro protagonista, dove lo stesso mondo che egli ha contribuito a cambiare è del tutto dissolto dai fenomeni recenti della globalizzazione che hanno trasformato sia la vita degli individui che la natura degli Stati; proprio oggi, si diceva, gli storici sono inclini a riconoscere che la parabola oggettivamente straordinaria di questo personaggio, un siciliano di stirpe albanese che divenne uno degli statisti più autorevoli e discussi del suo tempo, possa essere ripensata come la chiave interpretativa della politica di un'epoca, il passaggio istituzionale da cui è venuto fuori il mondo che noi oggi abitiamo.

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Information

Capitolo Quarto
Post fata resurgo
1. L’autunno della rivoluzione
Un altro motivo per cui il deputato di Ribera è costretto a sospendere le pubblicazioni del suo giornale è l’immensità degli impegni che lo sovrastano. Questione fondamentale che l’indipendenza siciliana pone, dopo che gli eventi tumultuosi hanno creato un certo disordine su tutto il territorio dell’isola, è la riorganizzazione dell’amministrazione locale. È uno di quei temi verso cui Crispi ha una spiccata sensibilità giuridica e politica, e scrive un opuscolo dal titolo Manuale per consigli e magistrati municipali in cui espone le sue idee, come quella di estendere il diritto di voto ad ogni adulto maschio alfabeta. Le parole con cui una simile proposta è avanzata merita la citazione:
Io vorrei conoscere quale diritto abbia il nobile e non il plebeo, onde l’uno possa veder meglio dell’altro gl’interessi del comune. In questa terra, ove l’elemento sano della società è in questa plebe divina, che fu vera sostenitrice della rivoluzione, volete negare alla stessa l’esercizio di questo diritto!
L’accento ridondante alla «plebe divina» non deve distogliere dall’importanza storica di questo documento. C’è per un verso l’eco degli eventi recenti nell’evocazione del ruolo popolare per i successi della rivoluzione. Per altro verso, è la certificazione della lotta politica in atto tra democratici e moderati nell’ispirazione politica che pervade il testo. L’allargamento della base elettorale nei comuni è l’arma attraverso cui i radicali sperano di assumere il controllo del nuovo stato.
Quando Crispi riprende le pubblicazioni dell’«Apostolato» nel febbraio del ’49 tutto questo è ormai lontano. Cambia il motto del giornale, e la militante epigrafe giacobina della prima serie lascia il posto alle parole dell’araba fenice: «Post fata resurgo», dopo la morte risorgo. Il giornale risorgeva dopo un lungo silenzio con un’immagine tipicamente massonica. E la massoneria sarà in effetti una presenza costante e significativa nella carriera politica di Crispi. Ma intanto la resurrezione siciliana assumeva il sapore di una speranza sfiorita, perché nella realtà la marcia della rivoluzione non era più trionfale e anzi arrancava vistosamente. Proprio il 29 febbraio Ferdinando II riprendeva l’azione politica e militare per chiudere la partita in Sicilia, proponendo un nuovo statuto per l’isola e ordinando al generale Carlo Filangieri, figlio dell’illustre filosofo liberale Gaetano, di riconquistare i domini al di là del Faro. Il rifiuto del parlamento di arrendersi alle condizioni imposte da Napoli apre l’ultimo tentativo disperato della Sicilia di rispondere sul campo di battaglia in difesa della propria libertà. Si forma anche una legione universitaria affidata alla guida di La Farina, che si aggiunge all’esiguo esercito dei volontari guidati da un valoroso ma inadeguato generale polacco (che Crispi accuserà di essere stato corrotto dal nemico per una tattica militare oggettivamente incomprensibile), ingaggiato dal governo siciliano per fronteggiare le truppe borboniche di gran lunga superiori per numero e professionalità. Mentre Catania è piegata, all’orizzonte del porto di Palermo si affacciano le navi napoletane. Il 14 aprile l’ammiraglio francese Baudin tenta un’ulteriore mediazione tra le parti in lotta, e questa volta tra i deputati siciliani prevale la parte più propensa a trovare una soluzione diplomatica piuttosto che continuare la guerra. Alla Camera dei Pari invece «fu unanimità di suffragi, come unanimità era stata pei decreti del 13 aprile e dell’11 luglio, che sanzionarono la decadenza dei Borboni e la nomina del nuovo Re», scriverà Crispi con un sarcasmo strepitoso. È l’emblema della classe dirigente siciliana che si consegna nuovamente alla medesima dinastia dichiarata un anno prima decaduta per sempre. Ciò che invece si chiude per sempre con quest’atto è l’epopea del parlamento rivoluzionario.
I giorni esuberanti iniziati il 12 gennaio del ’48 sembrano appartenere a un’epoca remota, già persino mitica, soffocata adesso da un clima mesto e rancoroso, carico di sospetti e accuse reciproche, che determina l’incapacità di prendere una decisione. In una situazione incandescente si susseguono riunioni del governo, e «dopo un inutile lusso di discorsi, la seduta scioglievasi, e nulla veniva conchiuso, eccetto la dimissione del Gabinetto del 15 aprile», annota sardonico Crispi. Ruggiero Settimo parte per Malta, e altri seguono il suo esempio. Lui non si dà ancora per vinto e scende per le strade incitando il popolo a una lotta ad oltranza. È l’ultimo suo contributo al Quarantotto siciliano, prima di lasciare la patria alla restaurazione borbonica. Gli ultimi giorni di resistenza all’esercito napoletano saranno affidati alla rabbia popolare. Quando tutto è ormai precipitato, il 15 maggio, un accordo tra il pretore di Palermo Riso e il generale Filangieri permette all’esercito borbonico di entrare in città: la rivoluzione è formalmente finita.
L’appendice più avvilente l’offrirà una folta rappresentanza di quel parlamento glorioso, il fiore dell’aristocrazia siciliana, che correrà a firmare una richiesta di perdono indirizzata a Sua Maestà per implorare la grazia in vista della possibile ritorsione regale. Sollecita una qualche curiosità scorrere il lungo elenco di quei nobili, e soprattutto impressiona apprendere con quali parole abbiano protestato la loro lealtà all’antico sovrano, denunciando la costrizione subita durante gli infausti giorni dell’anarchia da parte dei sovvertitori dello stato, che gli avrebbero imposto sotto terribili minacce di aderire alla causa scellerata della rivolta. Naturalmente Ferdinando non poteva credere a una sola parola di quella petizione, ma sapeva che in fondo su simili sudditi non avrebbe neppure potuto contare quel fronte democratico che aveva proclamato l’indipendenza della Sicilia. Non gli rimaneva che chiudere la vicenda con un’amnistia generale. Ma anche il re aveva un suo elenco di 43 nomi, che considerava pericolosi per la futura quiete del regno. Questi venivano esclusi dal «general perdono che Sua Maestà il re Nostro Signore concede a’ sudditi siciliani», come si leggeva nel proclama di Filangieri. Crispi non faceva parte di quella lista nera, e questa appare oggettivamente un’esclusione curiosa. Lo stesso Filangieri in un rapporto lo ricorderà qualche anno dopo come colui che attaccava «cartelli di carattere incendiario» che contengono «terribili suggerimenti di rapine e di sangue». Qualunque ne fosse la ragione – il governo forse non gli riconosceva un ruolo decisivo, né lo riteneva tra i maggiori responsabili tra quanti votarono la decadenza della dinastia borbonica – essere “perdonato” da Ferdinando II avrebbe in seguito costituito un problema per la sua reputazione di patriota. Mentre, tra i radicali, La Masa, La Farina, Calvi venivano infatti colpiti dalla vendetta borbonica, a lui non veniva concesso questo onore e ciò avrebbe dato in futuro ai suoi nemici un argomento formidabile per mettere in dubbio la sua antica fede rivoluzionaria.
Tuttavia, quando quella lista fu conosciuta, lui si trovava già a Marsiglia, dove avevano riparato La Farina e molti altri esuli. Aveva lasciato la Sicilia in fiamme il 27 aprile, e non l’11 maggio, come si sono premurati a scrivere Mayor e altri per timore che quella fuga apparisse una diserzione. Ma tutti i capi della rivoluzione siciliana, da Settimo a Michele Amari, da Pilo a La Farina, avevano abbandonato l’isola dopo che l’ultima seduta parlamentare aveva sancito l’impotenza siciliana.
La differenza tra lui e gli altri ce la fornisce solo il racconto dell’espatrio, che nel caso crispino non poteva che essere epico e melodrammatico. C’è il ricatto del comandante della nave francese che conoscendo la situazione disperata dell’ex deputato gli impone un prezzo esorbitante, minacciando di lasciarlo a Gaeta. Il raggiungimento della stessa nave è poi rocambolesco, con Crispi che da una spiaggia si lancia a nuoto verso una barca che lo attende al largo per portarlo a bordo del vapore. C’è infine il viaggio tormentato di 14 giorni in cui, confesserà in una lettera al padre, «in certi momenti per noia della vita mi sarei gettato in mare».
2. Gli anni dell’esilio: da Marsiglia a Torino
E invece, giunto a Marsiglia, meditava di riprendere la via del mare per tornare in Sicilia. A trent’anni era un uomo frustrato e deluso dalla vita. In amore come in politica tutto era stato bruciato e perduto. Il dolore per il fallimento della rivoluzione si saldava con i disastri affettivi. Nella sua lontana isola aveva lasciato la famiglia natale, e la nuova che si era creato aveva dovuto seppellirla. E il nuovo legame sentimentale che lo aveva unito con Felicita era fonte di inquietudini, e se ancora resisteva si sarebbe sfarinato presto e non senza turbolenze. Inoltre non poteva esercitare la sua professione in quel paese straniero, e lo sconforto dovette prevalere in lui come nei suoi familiari. Alcune suppliche furono indirizzate a Filangieri, non sappiamo se prodotte a sua insaputa da questi ultimi, ma testimoniano comunque un desiderio dell’uno o degli altri a che Ciccio tornasse a casa. Se così poco trapela di quei quattro mesi che Crispi trascorse a Marsiglia è quasi certamente dovuto proprio a queste “disonorevoli” richieste. Non tanto per l’umana debolezza che rivelano, scusabile in chiunque ma non con l’immagine che Crispi voleva comunicare agli altri; ma per l’infamante sospetto che lui potesse avere avuto degli approcci con l’antico “nemico” borbonico. Così nelle sue memorie ne accenna appena, dettando la linea ai suoi primi biografi che arrivano ad alterare le date per confermare l’assunto che Marsiglia fu un passaggio del tutto veloce e trascurabile.
Del soggiorno francese una cosa oggi siamo in grado di certificarla, nonostante tutto. Siamo infatti a conoscenza di un evento esistenziale fondamentale che solo la recente analisi di Christopher Duggan ha portato alla luce. Analizzando una lettera lo storico inglese ha smentito di colpo tutti i precedenti biografi (almeno quelli che ne hanno parlato), poiché è riuscito a dimostrare che fu a Marsiglia che Crispi conobbe Rosalie Montmasson, la donna che avrebbe avuto una straordinaria importanza nella sua vita. Originaria della Savoia, orfana, di umili origini e con un umile lavoro di lavandaia, di quella bellezza popolana che sembra incontrasse i suoi gusti, si è sempre affermato, per ragioni che sfuggono, che questo incontro fatale fosse avvenuto addirittura tre anni dopo, durante la detenzione di Crispi nel carcere torinese. Posticipare l’incontro con Rosalie avrebbe probabilmente discolpato Crispi da quella che somigliava a un’infedeltà. E poi collocare il colpo di fulmine nell’atmosfera sofferente della detenzione avrebbe reso più suggestivo l’avvenimento. Delle antecedenti versioni quello che di vero resiste è il fatto che i due si legarono immediatamente. Era nella natura di Crispi a quanto pare. Per di più, in una terra straniera e in una condizione avvilente, il conforto di una donna che lo guardava con quell’ammirazione con cui le fanciulle contemplano gli eroi fuggiti dalle rivoluzioni dovette spingere l’esule a cercare sostegno in Rosalie. Duggan poi non manca di spirito critico quando conferisce al termine “sostegno” un significato più esteso, ritenendo che fosse un’attrattiva per il povero Crispi anche il fatto che la ragazza avesse un lavoro retribuito. Questa unione, che sarebbe stata successivamente idealizzata dagli storici e a ragione, per quella devozione che la donna dimostrò per tutto il periodo dell’esilio, condividendo coraggiosamente il destino del suo uomo fino a sobbarcarsi compiti rischiosi, avrebbe avuto un epilogo amaro, un distacco tanto doloroso per lei quanto liberatorio per lui. Nonostante fosse stata l’unica donna presente alla spedizione dei Mille (è solo un esempio della rilevanza che ha assunto il suo ruolo), sarebbe venuto il giorno in cui Rosalie avrebbe dovuto fare i conti con le infedeltà del compagno e la sua insofferenza verso di lei.
La Francia comunque non doveva essere una destinazione definitiva per l’esule riberese. Oltre ai tentativi presso Filangieri ottenne anche dei visti per Malta, un altro di quei posti prescelti dai fuoriusciti che vi riparavano per continuare a cospirare contro i Borboni, naturalmente con la tolleranza interessata dell’impero britannico. Ma il suo era un impulso, non ancora una strategia. Poi invece decise di stabilirsi nella più vicina Torino, anch’essa meta di patrioti italiani espulsi dai loro stati e che il governo sabaudo, come quello inglese, accoglieva per mettere pressione al Regno delle due Sicilie o infastidire l’impero austriaco.
Giunto l’8 novembre nella capitale del Regno di Sardegna, Crispi iniziò a misurarsi con le prove più dure dell’esistenza, il che per lui non era un’esperienza sconosciuta, ma adesso veniva associata alla condizione disagevole dell’esilio. Per potere vivere reputò da principio essere degno della propria persona un ruolo accademico, confidando di non essere inferiore ai vari Francesco Ferrara o Pasquale Stanislao Mancini (erano rispettivamente tra i più grandi economisti e giuristi italiani del secolo) che fuggendo come lui dal Regno delle due Sicilie avevano ottenuto a Torino una cattedra universitaria. Scrisse così al ministro della Pubblica istruzione una lettera in cui chiedeva una docenza nell’ateneo piemontese affermando di «non essere sfornito di titoli per meritarsela». Ripiegò dunque per il posto di segretario comunale in un comune della provincia, Verolengo (per sconforto e ad insaputa degli amici, ci assicura Leone Fortis); e se possibile, la richiesta risultò ancora più altezzosa della precedente:
credo che difficilmente possano trovarsi fra i miei competitori i titoli che io presento. È singolare, e deve imputarsi alla posizione eccezionale in cui fummo gettati dagli avvenimenti del 1848, che un uomo, il quale ha sostenuto alti uffici e fu avvocato presso la Corte d’Appello della più popolosa città d’Italia, si presenti candidato ad una Segreteria Comunale.
Se a Crispi evidentemente sfuggiva che vi era una presunzione eccessiva nelle proprie parole che male si conciliava con la condizione di chi tutto sommato chiedeva qualcosa, possiamo immaginare come accolse il rifiuto alle sue domande. Il Consiglio Comunale di quel paesino gli negò il posto, preferendogli tale Federico Ossasco. «E hanno fatto bene, a lui e all’Italia – avrebbe incalzato il Fortis – Chi può dire se il segretario comunale di Verolengo sarebbe diventato, facendo carriera, presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia? Chi può dire se da Verolengo avrebbe potuto organizzare la spedizione dei Mille?». In queste domande retoriche, che cadono un po’ insolenti dall’alto della successiva montagna di successi e di fama, non possiamo non leggervi un’eco di quell’orgoglio ferito e un’incontenibile rivalsa storica che il biografo si incarica di esprimere.
Con un’ammirazione più contenuta, un altro biografo di qualche generazione dopo come Massimo Grillandi avrebbe scritto che nel soggiorno torinese Crispi sviluppò quella virtù della temperanza che avrebbe tenuto per tutta la vita. In quel momento si trattava semplicemente di povertà. Carlo Dossi, che di Crispi fu collaboratore e non mancò di lodarne in pubblico le virtù, in quel diario dell’Italia di fine Ottocento che è Note Azzurre, un piccolo capolavoro della nostra letteratura, ricorda come «a Torino, Crispi, Scelsi e Revere si trovavano spesso insieme – dice Revere – a condividere le strettezze della vita. E Crispi, nei loro desinari, metteva i maccheroni, Scelsi l’arrosto, Revere il formaggio».
In condizioni così precarie e sconfortanti fu forse proprio la superbia che salvò Crispi da un avvilimento senza ritorno. Non perse mai il senso della propria dignità o del proprio valore che, è pur vero, gli sembrava enorme, ma questo gli permise di non rinunciare alle sue ambizioni anche quando frequentava la mensa dei poveri che in quel periodo gli garantì un pasto certo. Quest’ultimo fu il frutto dell’incontro casuale con don Bosco per le strade di Torino. È naturale che i resoconti di un tale aneddoto abbiano esaltato gli agiografi di entrambe le parti, ma questo dovrebbe piuttosto raccontarci, molto più concretamente, lo stato di estremo disagio a cui pervenne l’esule siciliano in quel periodo se arrivò a sostenersi con la carità di un sacerdote cattolico.
Inoltre sul versante affettivo il rapporto con Felicita stava diventando esplosivo. Lei aveva meditato di raggiungerlo in Francia con il loro figlio Tommaso, e Crispi era riuscito a stento a farla desistere da un tale progetto. Oltre i soffocanti problemi economici, la sua nuova relazione con Rosalie ne sconsigliava la presenza nell’esilio. Senonché anche Felicita era pressata da problemi finanziari, e non persuasa dalle insistenze con cui il suo compagno la invitava a rimanere a Palermo piombò a Torino, costatando direttamente quello che probabilmente sospettava. Le due donne si detestarono immediatamente, e ciascuna per sbarazzarsi della rivale giocò le proprie carte, ma quella del dovere paterno non sembrarono esercitare un peso significativo in Crispi rispetto al richiamo della passione amorosa. Il modus vivendi che riuscì a stabilirsi era precario. Inizialmente il ragazzo andò a vivere da Ciccio e Rosalie, ma quando Felicita lo rivolle perché accusava la nuova compagna di maltrattare il figlio, Crispi sembrò più sollevato che dispiaciuto. Le imbarazzanti scenate di gelosia che si materializzavano a casa sua in presenza degli amici e che avevano un pubblico più vasto nel vicinato, al punto che la polizia fu costretta più volte ad intervenire, resero l’atmosfera invivibile. L’entourage di Crispi, coinvolto nella vicenda domestica, si divideva. C’era chi definiva la povera Felicita una «sguaiatissima curtigliara», mentre altri consigliava Crispi di porre fine a questo menage faticoso liberandosi della «due puttane». Il meno che si può dire è che era un entourage maschilista, avallato dal comportamento di Ciccio, il quale, mentre rassicurava il padre (che da lontano evidentemente cercava di capire), scrivendogli «io sono senza alcun legame», tentava di fare espellere Felicita dal Piemonte attraverso i buoni uffici dell’amico Cesare Correnti. L’ultima notizia che abbiamo della donna è che sarebbe morta a Torino nel ’55, quando ormai Crispi (con Rosalie) si trovava a Malta. Il loro figlio Tommaso invece morì nel ’58.
Per sbarcare il lunario scriveva. Intanto dei libri in cui riversa la sua particolare sensibilità per le istituzioni locali, componendo due saggi per l’Annuario Economico-Politico di Pietro Maestri, Studi sulle istituzioni comunali nel 1850 e Il comune in Piemonte nel 1852, che non sono soltanto un’analisi giuridica della questione, ma rivelano l’ispirazione politica e democratica: «Senza il comune la Nazione non esiste».
Come molti dei suoi compagni che avevano combattuto contro i Borboni compone anche lui le sue memorie su quelle vicende, dal titolo Gli ultimi casi della rivoluzione siciliana esposti con documenti da un testimone oculare, da cui sperava di ricavare dei buoni profitti. Non fu un successo, e gli rimasero diverse copie invendute. La sua testimonianza era ripiena di invettive contro la borghesia isolana, incolpata di essere stata o incapace o sleale. Questa classe dirigente era ai suoi occhi personificata splendidamente, lo abbiamo già visto, dalla figura del barone Riso: «primo banchiere di Sicilia, il quale, nelle cose che non sentivano di commercio, non sappiamo se debba definirsi più imbecille che tristo». L’altra grande accusa che straripava da quelle pagine era la vecchia diplomazia europea, in questo caso incarnata dalla Francia, per la quale avrebbe poi nutrito sempre diffidenza e avversione. Con la sua immancabile domanda retorica Fortis si chiedeva: «Chi può dire se nell’animo siciliano del Crispi il ricordo di quello che egli in questa pubblicazione chiamò il tradimento della Francia, sia interamente cancellato?». L’aggiunta del biografo è la nota sull’animo siciliano, incline a serbare memoria rancorosa dei tradimenti anche per lunghissimo tempo (era passato quasi mezzo secolo dal ’48); e sapeva fin troppo bene, come tutti del resto, che il Presidente del Consiglio non solo detestava da sempre i Francesi, ma che in quel preciso momento in Africa sarebbe stata proprio la Francia a contribuire alla disfatta italiana – e crispina – di Adua.
Tutto nasceva proprio nel Quarantotto siciliano, dove la repubblica francese, secondo Crispi, si era adoperata per una mediazione tra le parti ma che in realtà perseguiva una strategia filo borbonica per bilanciare il peso britannico nel Mediterraneo. In questo contesto meschino unica si ergeva la virtù del popolo, tradito dai capi, su cui dovrà fondarsi la futura rigenerazione:
Ma le perfidie della vecchia diplomazia e dell’alta borghesia sono scuola ed esempio. Allorché il calice delle vendette sarà colmo del sangue che oggi vi scorre, e nuovi propugnatori sorgeranno per la libertà della patria, la Sicilia non guarderà che nel popolo, il quale saprà rilevare la sua bandiera e sostenere i suoi trionfi. Allora la questione, che la Francia oggi oblia e che l’Inghilterra per trentacinque anni ha fatto oggetto della sua ambizione, sarà decisa da lui, e la sua volontà sarà legge.
Così si chiude il libro, che effettivamente si occupa della fase finale della rivoluzione con una motivazione precisa e interessante: l’autore – il testimone oculare – intende comprendere e spiegare le cause della disfatta, mentre nell’inizio del fatto rivoluzionario c’è qualcosa di mistico e provvidenziale. Tuttavia suscita qualche perplessità il titolo: la sua testimonianza diretta degli «ultimi casi» non è tecnicamente veritiera, dato che anche lui aveva abbandonato l’isola e il popolo al proprio destino quando le istituzioni rivoluzionarie abdicarono al loro compito di guida. C’era il tentativo, poi seguito dai suoi biografi, di occultare la sua defezione nel momento finale e peggiore della guerra, e di accreditarsi come l’unico capo che rimase al suo posto fino all’ultimo. Non era la cattiva coscienza che agiva in lui, o almeno non solo quella. A Torino, insieme a personaggi come Gaspare Ciprì, Giacinto Carini, Rosalino Pilo, stava cercando ...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Copertina
  4. Collana
  5. Titolo
  6. Colophon
  7. Introduzione
  8. Capitolo I
  9. Capitolo II
  10. Capitolo III
  11. Capitolo IV
  12. Capitolo V
  13. Capitolo VI
  14. Capitolo VII
  15. Capitolo VIII
  16. Epilogo
  17. Note
  18. Cronologia