1. Se tutto si gioca fra l’oggettività dei corpi e la varietà ed eterogeneità dei linguaggi, e se i primi si riducono o a un corrivo deposito di scorie sentimentali o ad una mera naturalità biologica e i secondi a dispositivi che vi aderiscono senza scarto, allora come risultato non c’è che l’osceno e il pornografico; deriva dei corpi e dei segni, del loro legame osmotico e del loro valore mercantile.
Il destino dell’amore nella contemporaneità è parallelo a quello del cinema, e il progressivo ed inesorabile dissolversi dell’esperienza amorosa si è accompagnato ad un prosciugamento delle capacità del cinema di raccontarla, per cui il “filmare l’amore” sembra essersi ridotto all’oscillazione fra oscenità e pornografia, fra l’osceno che domina nei media, modello “Uomini e donne” o “Problemi di cuore”, benedetto e santificato dai “consulenti dell’anima” a costo zero, e il pornografico che circola nelle reti e sugli schermi, modello hot line notturne. Il destino dell’amore, l’orizzonte contemporaneo delle immagini dell’amore, non è sintomo di un qualche degrado morale del mondo, ma è l’approdo e l’immagine più radicale del circuito dei corpi e dei linguaggi, e del mercato come loro unica dimensione ontologica. Le eclissi dell’amore e del cinema sono parallele, perché accompagnano l’erosione di ogni spazio esperienziale, nel momento in cui corpi e segni giocano in una adiacenza senza scarto, ridotti ad una totale esponibilità, ad una trasparenza senza opacità (sia quella del cliché o della genitalità esposta).
E quando bisogna raccontare una passione d’amore, ed è il caso dell’ultimo libro di Antonio Scurati, la si ambienta in altre epoche storiche e in situazioni di rivolta e di cambiamento.
Pensare quindi l’incontro d’amore, il modo e le forme in cui il cinema lo ha immaginato nel corso del Novecento (in questo sostituendosi al romanzo ottocentesco), significa in primo luogo resistere alla deriva contemporanea dei corpi e dei segni, resistere alla rinuncia rassegnata ad ogni evento che non sia una emergenza mediatica nella situazione. Direi di più: se i meccanismi di funzionamento sociale alimentano e sostengono una «addestrata incapacità di amare» (Bauman), perché l’amore, l’evento amoroso, contrasta radicalmente con la necessità di “equivalenza monetaria” che regge mercato e consumo (a tal fine la pornografia è molto più funzionale), allora pensare le forme in cui il cinema ha immaginato l’amore, e la sua scomparsa, significa pensare il modo in cui il cinema è stato ed è (anche se sempre più raramente) capace di costituirsi esso stesso come evento che, sospendendo le situazioni, ne immagini apertura e modificabilità.
Se le uniche immagini dell’amore che la contemporaneità ci riconsegna vanno dalla oscenità di certe trasmissioni televisive, a film come Parlami d’amore, alla pornografia imperante, allora ciò che si dicono i due amici in J’entends plus la guitare (1993) di Garrel, cioè che «siamo l’ultima generazione a parlare d’amore», rischia di essere vero: l’amore come pratica del “due” (dei corpi, dei linguaggi e del loro scarto) non esiste più, non può esistere e per molti versi non deve esistere, perché è ciò che, imprevedibile e incalcolabile, si sottrae al conto, soggettivizzando sottrae l’individuo, definito da una identità, un confine, una riconoscibilità, uno stato, alla sua possibilità di essere contato e calcolato. La pratica e il pensiero dell’evento amoroso sono quanto di più pericoloso per un Stato, e quanto di meno redditizio per un mercato: «Se l’amore vive totalmente del suo proprio spazio d’esperienza, a cui gli amanti si consegnano – e proprio questo è amore –, sarà allora difficilmente possibile connettervi una teoria dello Stato o una teoria dell’economia» (Luhmann).
E, allora, il massimo che si riesce ad immaginare è la “statizzazione” di tutto (cioè la chiusura con ogni pratica e pensiero d’amore), che passa anche attraverso la rivendicazione di diritti come esclusivo obiettivo politico: riconoscimento delle coppie di fatto ecc.
Allora, resistere per riconsegnare all’amore e al cinema la forza della loro “eventualità”, sottraendo il primo alla deriva osceno-pornografica, e il secondo al suo appiattimento su questa deriva. Questa resistenza significa in primo luogo affermazione di una capacità e di una forza: quella dell’amore di costituirsi come procedura capace di pensare il “tra” o il “non-rapporto” come la forma più intensa e radicale del rapporto stesso (in quanto rimodulazione perenne di una intensità), quella che, superando l’autonomia dell’io, non lo riconsegna alla dialettica del rapporto con l’altro e alle inevitabili dinamiche introiettivo-espulsive (riduzione ad unità, o espulsione dell’alterità), ma all’istituire e all’abitare la “distanza nella prossimità”, quello spazio aleatorio che solo il “tra-due” di un amore è in grado di istituire e che rimanda – nei casi felici – al “tra-molti” della politica.
Con questo viene a cadere la distinzione privato-pubblico (che ha mostrato e mostra tutta la sua debolezza, teorica e fattuale), a vantaggio di una distinzione più sottile, quella tra la situazione e l’evento come ciò che ha la forza di sospenderla. Se la situazione, che può riguardare il privato, il pubblico e il loro intreccio (il matrimonio è la resa pubblica di una relazione privata), è definita da dati e da spazi-tempo definiti, e determina una riduzione ad unità dell’io, dell’altro e degli altri, attraverso l’individuazione comunque di una “misura comune” (individuo, coppia, società), l’evento, nella sua rarità, ha la capacità di istituire uno spazio-tempo incommensurabile, di aprire un “nuovo mondo” a partire da un incontro di contingenti, dove l’intervallo, la differenza, l’intermezzo, sono il modo in cui la (presunta) unità si dà. Il “mondo-del-due” dell’amore e il “mondo-dei-molti” della politica istituiscono il “tra” come modo d’essere, che rimanda all’emersione dei soggetti coinvolti, che nella prossimità del loro rapporto si percepiscono nella loro distanza. I tentativi di occupare, di dare consistenza al “tra” sono tentativi di annullarlo, consolidando la situazione attraverso una distribuzione di posizioni e ruoli (dove privato e pubblico si sostengono a vicenda). Consolidamento che definisce propriamente la traduzione “statuale” di tutto, dell’amore nel matrimonio e della politica nel potere.
Allora, il sentimento che accompagna la pratica d’amore, e che il cinema, ma anche per esempio la popular music non ha smesso di cantare, è quello istituito dal “tra”, dal circuito del qui e dell’illimitato, del presente e dell’infinito, che solo nell’intervallo può venire a determinarsi.
L’amore è la pratica più universale – per questo la più cantata, raccontata, immaginata –, in cui un soggetto sente nello spazio-del-due, originato da un incontro (e non da un progetto), la convergenza singolare di contingenti irriducibili ad unità (e a tutte le forme in cui si impone mascherandosi); e in tutta l’aleatorietà di questa convergenza sente la congiunzione della caducità del presente e dell’eternità del tempo, della concretezza del qui e dell’illimitatezza dell’altrove; sente in definitiva e (in)esperisce il darsi dell’essere nella sua disgiunzione. Ed è questa “unità disgiuntiva” quella che l’evento d’amore presenta e il soggetto amoroso istituisce. In questo l’amore è una pratica di verità, come il pensiero, l’arte, la politica; e questo è vero dal Simposio a Gertrud. E questa “via” alla verità fa emergere il carattere “numerario” della stessa (che annulla il cul-de-sac dell’io, dell’altro e dei loro rapporti), il passaggio per campi di forze, dove ciò che conta è quello che accade tra gli elementi, colti in tutta la loro contingenza e aleatorietà, e nella loro capacità di costituire un insieme: il “due” (l’amore), il “tre” (il desiderio), i “molti” (la politica).
2. L’evento amoroso non è né una storia, né una relazione, né una passione d’amore. La prima è troppo debitrice di una logica temporale, la seconda di una dinamica sociale, la terza di una dialettica dell’attivo e del passivo.
“Sei gelosa?”
“Sì”
“Mi sposeresti?”
“Mai”.
L’evento amoroso, come ogni evento, è raro; appartiene alle situazioni, agli individui, ai contesti spazio-temporali, ma se ne distacca come una eccedenza che sospende le situazioni per i luoghi, gli individui per le soggettività, gli spazi-tempo per l’eternità.
Nel carattere saturo e pieno delle situazioni, nelle pratiche e nei discorsi che le regolano, nei valori, negli obiettivi, nei progetti che le segnano, può accadere qualcosa di contingente, aleatorio, infondato, che le eccede e le oltrepassa: un incontro che apre una necessità che chiede fedeltà e implica coraggio: cioè un evento.
Gli eventi possono essere estetici, politici e amorosi. Ma se i primi sono stati in qualche modo pensati, perlomeno da coloro (come Heidegger) che hanno sottratto l’opera d’arte alla sua funzione di esemplarità (del senso) e di documentalità (del mondo) per riconsegnarla a tutta la sua eventualità, e se i secondi hanno trovato le loro occorrenze nelle rivoluzioni (dal cristianesimo a quelle comuniste), l’evento amoroso, affidato alle nominazioni operate in primo luogo dalla letteratura, è stato abbandonato e relegato nelle categorie dell’“esperienza vissuta”, o occultato e trasfigurato da tutte le forme in cui è socialmente opportuno che un evento sia depotenziato e controllato: iscrivendolo nell’ordine della mitologia letteraria (de Rougemont) e fusionale (romanticismo), della fantasmagoria (Stendhal), della fisiologia e pulsionalità (Freud), del rapporto assoluto (Lacan) o relativo (matrimonio), delle pratiche diversive borghesi (Simmel e Anders), delle forme di comunicazione sociale (Luhmann), fino a giungere alla sempre più radicale cancellazione contemporanea, non solo della eventualità amorosa, ma delle condizioni stesse che la possono determinare e delle forme che l’accompagnano senza coincidervi (il desiderio), dissolte nel senza-intervallo del rapporto al reale che definisce la pornografia.
Anche i Frammenti di un discorso...