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1. Un viaggio della speranza
Trieste, Italia - Per Daniele la diagnosi era arrivata un anno prima. «Potete anche girare il mondo, non c’è una cura per questa malattia», avevano detto alla famiglia gli esperti guidati da Generoso Andria all’Università Federico II di Napoli, prospettando una sopravvivenza di pochi mesi. «Anche una sperimentazione che è stata tentata a Londra si è rivelata fallimentare».
Daniele è affetto dalla sindrome di Niemann Pick, una malattia dovuta a un’anomalia genetica che causa la carenza di un enzima. Il difetto provoca l’accumulo nei tessuti di una sostanza chiamata sfingomielina, che li danneggia irrimediabilmente. Il piccolo, che nel 2008 ha poco più di un anno, soffre della forma A, la più grave, che compromette il sistema nervoso fin dalla nascita.
Nonostante il responso dei medici, la famiglia non si arrende e vuole sentire altri pareri. Primo fra tutti quello di Bruno Bembi, coordinatore del comitato scientifico dell’Associazione Niemann Pick, considerato uno dei massimi esperti italiani di questa malattia. Dall’Istituto Burlo Garofolo di Trieste, dove dirigeva l’Unità operativa di malattie metaboliche, Bembi stava per diventare responsabile del Coordinamento regionale del Friuli Venezia Giulia per le malattie rare, con sede a Udine.
Sarà lui a chiedere per Daniele, dopo averlo ricoverato nel suo reparto, anche il consulto di Marino Andolina, un pediatra che da anni faceva vari tentativi di curare questa e altre malattie genetiche. Tentativi fatti in totale autonomia, senza un gruppo di ricerca alle spalle, al di fuori di qualunque protocollo, a suo parere con il silenzio-assenso delle autorità dell’ospedale e condividendo con la comunità scientifica poco o niente di quel che faceva nel suo centro, in parallelo all’attività ufficiale di trapianti di midollo e cellule staminali emopoietiche per la cura delle leucemie e altre malattie del sangue. Nel corso di queste sue attività Andolina confessa di aver «violato abbastanza leggi da meritare l’ergastolo», sostenendo però di aver anche salvato in questo modo centinaia di vite.
Il primo caso di sindrome di Niemann Pick che Andolina aveva curato era affetto dalla forma B, molto meno grave di quella di Daniele, una forma che di solito non colpisce il sistema nervoso centrale e consente ai pazienti di raggiungere l’età adulta. «L’idea di trattare un paziente con le staminali non era stata mia, ma di Matteo Adinolfi, genetista della London Medical School, che lavorava in Gran Bretagna. La sua ipotesi passò all’ex rettore dell’università di Trieste, il professor Domenico Romeo, che la propose a me. Quindi devo ammettere che non ebbi un gran merito», racconta lo stesso Andolina, che allora – riconosce lui stesso – nemmeno sapeva di iniettare cellule staminali.
«La metodica messa a punto da Adinolfi prevedeva di spellare l’interno della placenta, sminuzzarla e iniettarla sottocute. Siccome i pezzetti erano troppo grossi per passare attraverso un ago, feci intervenire un chirurgo per iniettare le cellule attraverso un grosso catetere in anestesia generale. Il paziente era un adolescente molto poco collaborativo, che non si lasciava neanche visitare. Riuscii a visitarlo solo durante la seconda anestesia, a un mese dalla prima. Mentre il chirurgo si vestiva, ne approfittai per palpare fegato e milza al ragazzo dormiente. Cominciai a palpare l’addome dal basso, dove mi aspettavo di trovare gli organi; arrivai alla fine sotto le costole, dove fegato e milza si erano ritirati. Davanti al chirurgo, il dottor Sustersic, sbigottito, mi misi a fare una danza indiana attorno al letto operatorio, emettendo ululati guerreschi».
Andolina è fatto così, ed è così che era conosciuto dai colleghi del Burlo: un cane sciolto con alcune intuizioni che potevano a volte essere promettenti, ma che venivano messe alla prova con metodi a dir poco discutibili. Anche la sua idea di follow up lascia un po’ a desiderare: di questo paziente, la cui presunta cura secondo il pediatra è uno dei suoi più grandi successi professionali, Andolina dice: «Non ho più sue notizie da molti anni, ma credo stia ancora bene».
I colleghi del Burlo lo lasciavano fare. Forse un po’ intimoriti dall’amore che il grande vecchio, padre della pediatria italiana, Franco Panizon, aveva mostrato difendendolo a spada tratta in qualche occasione; forse incuriositi dai risultati che sosteneva di aver avuto, o forse solo per evitare grane.
Ma quando la famiglia di Daniele Tortorelli si rivolge a Bruno Bembi, è proprio lui, su pressione della famiglia che non vuole lasciare nulla di intentato, a coinvolgere l’ex collega dell’Istituto Burlo Garofolo, l’indisciplinato Andolina, chiedendogli di valutare insieme a lui il bambino.
Il linguaggio colorito di Andolina rende però solo più esplicito il verdetto dei colleghi napoletani: «Non pensate di portarmi a Trieste questo bambino per farmelo trapiantare perché fareste solo una cazzata, la malattia è già troppo avanzata», ricorda il nonno. Ma l’insistenza della famiglia era stata tale che il pediatra aveva accettato lo stesso di sottoporre il piccolo al trapianto, sebbene il suo danno cerebrale fosse ormai irrimediabile.
Dopo sei mesi dall’intervento, la situazione non accenna a migliorare. La famiglia, attraverso Luigi Bonavita, allora presidente dell’Associazione Niemann Pick, sente parlare di cure a base di cellule staminali somministrate a San Marino per molte malattie, tra cui quella di Daniele. I parenti del piccolo vogliono provare e convincono Andolina ad accompagnarli in quest’ultimo tentativo.
Telefonano, prendono appuntamento e il padre ancora una volta si sottopone al prelievo. Questa volta, però, non per donare cellule staminali emopoietiche, quelle cioè che danno origine alle cellule del sangue e del sistema immunitario, ma un pezzetto di tessuto osseo, una “carota”, come si dice in gergo, da cui si estrae un diverso tipo di cellule staminali: quelle mesenchimali (qualcuno per evitare equivoci le chiama “stromali”), che in natura danno origine a osso, cartilagine e tessuto adiposo.
Le cellule usate a San Marino, però, grazie al particolare trattamento a cui vengono sottoposte, riuscirebbero, una volta infuse nel sangue e nel fluido cerebrospinale del bambino attraverso una puntura lombare, a evolversi producendo nuovi neuroni, oltre forse a riparare il danno ai tessuti liberando varie sostanze sul posto della lesione. Questa, almeno, è la tesi di chi ha proposto questo tipo di intervento per il piccolo Daniele.
Dopo più di quattro ore di viaggio verso sud, l’auto con a bordo Andolina, la mamma e il bambino arriva a Rovereta, appena al di là del confine che separa l’Italia dalla Repubblica di San Marino. Sono appena pochi metri ma bastano alla Stem Cell Foundation, una realtà ideata a Torino, per dire di operare all’estero, al di fuori dell’Unione europea, dove, come abbiamo visto, dal 2007 le terapie avanzate a base di cellule erano state assimilate ai farmaci e quindi sottoposte alla severa regolamentazione che ne controlla lo sviluppo o l’utilizzo.
La società opera presso l’Istituto di medicina del benessere (Imb) di Rovereta. La struttura è autorizzata anche come poliambulatorio medico, ma non ha nemmeno un letto per la degenza, tanto che i pazienti dopo il trattamento non possono restare in osservazione per la notte. Quanto alle cellule staminali impiegate all’Imb, le autorità di San Marino non avevano concesso l’autorizzazione a produrle sul territorio della Repubblica.
Di tutto questo Andolina, quando arriva a San Marino con il piccolo Daniele, non sa nulla. Non conosce nemmeno i medici che praticano le infusioni a Daniele e che, a suo dire, intervengono «a opera d’arte». Eppure stanno operando in contrasto con le direttive del Codice deontologico che regola la loro professione e che, all’articolo 13, recita: «Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità. Il medico è tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate. Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinica e scientifica, nonché di terapie segrete».
Il metodo impiegato a San Marino va contro questi principi: non esistono prove scientifiche della sua efficacia, né se ne conoscono i reali effetti. È addirittura segreto.
Non erano però certo questi gli scrupoli di Andolina: nella sua esperienza passata più volte aveva aggirato le regole e realizzato sui pazienti tentativi di cura non sostenuti da basi scientifiche solide, per cercare di accelerare i tempi.
Senza fare troppe domande, quindi, dopo il trattamento, sollevato dal fatto che fosse andato tutto bene, il medico ricarica il bambino in macchina e affronta il lungo viaggio di ritorno verso Trieste. «Il piccolo sopravvisse», racconta. «Ma io non pensavo che sarebbe vissuto più di qualche settimana, dato lo stato avanzato della malattia. Dopo tre settimane il miracolo: le piastrine cominciarono a salire, da 20.000 a più di 100.000. La palpazione di fegato e milza, come pure l’immagine ecografica, dimostravano che questi organi si erano ridimensionati salendo verso l’arcata costale. Dal punto di vista neurologico progressivamente apparivano nuove performance; la madre era testimone di un migliorato rapporto tra lei e il figlio, che la guardava e sorrideva».
A settembre, Daniele torna a casa. Nonostante successive infusioni, il miglioramento neurologico riferito dalla madre non ha seguito, né continuano evidenti cambiamenti nell’evoluzione della malattia nemmeno dagli altri punti di vista. Come gli altri bambini con questa malattia anche Daniele dovrà presto ricorrere alla ventilazione e alla nutrizione assistita, sebbene oggi, a quanto risulta, sia il bambino che nel mondo può vantare la più lunga sopravvivenza con la forma grave della sua malattia. A marzo del 2014, infatti, ha compiuto sette anni, contro i 18-24 mesi di prognosi che in media consente la sua condizione.
Un successo che la famiglia attribuisce alle infusioni con le cellule iniettate dalla Stem Cell Foundation a San Marino. Secondo Bruno Bembi, invece, è conseguenza del trapianto di midollo fatto a Trieste a un anno di età. L’apporto di macrofagi sani, le cosiddette “cellule spazzino”, provenienti dal padre, avrebbe infatti permesso in un certo senso di “ripulire” i tessuti periferici, come il fegato e la milza, migliorando le condizioni generali del bambino e dandogli un’importante chance di sopravvivenza in più. L’intervento però non poteva fare nulla per lo stato neurologico del piccolo. Ed è per questo che l’esperto non considera questa prolungata sopravvivenza una vera vittoria. Vittoria, puntualizza, «che in ogni caso non si può attribuire alle infusioni delle cellule staminali di Vannoni, ma al trapianto di midollo osseo eseguito mesi prima. È normale che il miglioramento si manifesti solo a distanza di tempo, quando le cellule cominciano a funzionare». Sarebbe quindi avvenuto comunque, indipendentemente dal fortunoso viaggio a San Marino.
Non è quel che pensano la famiglia e lo stesso Marino Andolina. Il trattamento viene ripetuto ancora negli anni successivi, sempre gratuitamente, sostiene il nonno di Daniele. «Forse ha contribuito l’Associazione Niemann Pick che ci ha indirizzato a questa cura», ipotizza.
Altri invece raccontano di aver ricevuto in questo stesso periodo ingenti richieste di contributi, nell’ordine di decine di migliaia di euro, sotto forma di donazioni alla fondazione, dal momento che l’attività, illegale, non poteva essere configurata come una prestazione sanitaria regolarmente retribuita. Le infusioni di cellule vengono fatte passare per prelievi di liquido cerebro-spinale a scopo diagnostico, i versamenti sono suddivisi in diverse tranche. Il costo delle cure è elevato, nell’ordine delle decine di migliaia di euro, ma sono in molti a richiederle. Si risparmia comunque, se i viaggi della speranza, che fino ad allora spingevano verso l’Ucraina, la Cina o la Tailandia, si possono fermare a San Marino.
Di lì a pochi mesi però due articoli del Corriere della Sera porteranno i riflettori su quel che sta accadendo nella piccola Repubblica. Il centro sarà temporaneamente chiuso e le infusioni di cellule sospese. Ma il trattamento che veniva eseguito tra le sue mura sopravvivrà. E da lì a poco sarà ribattezzato con un nome che farà il giro del mondo: “metodo Stamina”.
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2. Intanto, negli Stati Uniti
Broomfield, Colorado - Chris Centeno non si capacita. La lettera della Food and Drug Administration rischia di mandare in fumo anni di lavoro e una montagna di soldi. Non è passato ancora un anno da quando ha iniziato a proporre un mix di cellule staminali ai suoi pazienti, dopo due anni di studi e centinaia di migliaia di dollari spesi. E già l’attività rischia di fermarsi. Proprio ora che effettua 20 procedure ogni mese al costo di 7-9000 dollari l’una.
«Nel 2005, cominciai a interessarmi alle staminali», racconta. «Era stato appena pubblicato uno studio che dimostrava, sui conigli, che semplicemente iniettando una coltura di cellule staminali in un disco [vertebrale, Ndr] degenerato era possibile farlo rigenerare. Per chi, come me, aveva a...