Educazione terapeutica: una sfida per la pedagogia
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Educazione terapeutica: una sfida per la pedagogia

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Il volume prende le mosse da alcuni cambiamenti epocali che hanno investito la salute dei cittadini, soprattutto nelle aree economicamente avvantaggiate del pianeta e che hanno modificato l'aspettativa di vita, i sistemi sanitari, l'efficacia diagnostica e terapeutica[1]. Accanto ai dati di innegabile valore per la salute delle persone, gli osservatori rilevano un preoccupante aumento di malattie croniche che allarmano i governi nazionali, tanto che nel 2011 i leader mondiali hanno sottoscritto una risoluzione per la prevenzione delle malattie croniche[2]. Nonostante ciò, i dati registrano che le persone affette da tali patologie continuano ad aumentare ovunque nel mondo[3].
L'ONU non esita a definire il problema della cronicità con toni allarmanti e a proporre strategie radicalmente innovative. Mutate le condizioni delle cure, dei curanti e dei curati, tutti gli attori del sistema sono chiamati a modificare approcci e metodi tradizionali. Uno fra questi invita a guardare al paziente prima che alla sua malattia, alla persona prima che ad una diagnosi troppo spesso monodimensionale, alle sue abilità oltre che ai suoi limiti per avvalorare le sue capacità di gestione del processo terapeutico con la maggiore autonomia possibile. Istituzioni sanitarie, linee guida, piani nazionali, società scientifiche, ricercatori, ospedali, servizi territoriali, associazioni di volontariato e società civile sono coinvolti in un processo profondamente trasformativo per curare i soggetti che convivono con una malattia per lunghi periodi della vita.
Nel 1998 l'OMS ha avvertito l'esigenza di riconoscere questo approccio e ha sancito l'educazione terapeutica[4]. Intraprendendo la strada pedagogica, la massima istituzione mondiale ha suggerito che, per raggiungere risultati visibili, sia largamente insufficiente informare il paziente, consegnargli un dépliant, illustrargli una linea terapeutica e rimproverarlo se non si attiene scrupolosamente. Il processo educativo concorre alla salute e – come ogni educazione che si rispetti – deve mettere l'educando al centro, stimolarne la consapevolezza e supportare le capacità residue.
Sanità, da lato, ed educazione, dall'altro, sono invitate ad integrarsi per realizzare un'alleanza terapeutica. Le società scientifiche chiamano l'educazione a cooperare; i curanti interpellano i pedagogisti; i professionisti trovano strategie per promuovere l'empowerment delle persone malate; le istituzioni coinvolgono le associazioni di pazienti in alcuni processi decisionali.
Il personale sanitario, che si è formato per curare, deve ora educare i pazienti ad auto-curarsi.
L'educazione terapeutica impone una revisione profonda di saperi, ruoli, sistemi di cura, approcci, protocolli, relazioni, sistemi formativi. Ribalta poteri consolidati, avvicina ruoli un tempo asimmetrici, coinvolge attori nuovi, personalizza il piano di cura. Tale processo assume un immenso valore e, al contempo, schiude ad una nuova relazione tra campi disciplinari e mondi che si erano sviluppati all'insegna della massima estraneità.
La complessità delle questioni impone la collaborazione di tutti e la disponibilità nel condividere le competenze migliori per fronteggiare una sfida che riguarda la salute della popolazione mondiale e le risorse dei sistemi sanitari.
I processi di cronicizzazione delle patologie coinvolgono le scienze dell'educazione che trovano in questo settore forse l'ambito più prezioso da coltivare per la vita umana: la salute, il benessere e la qualità della vita nella convivenza con le malattie croniche. Tratto dalla Introduzione dell'Autore

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Sezione 1
Dalla cura all’educazione:
le radici dell’educazione terapeutica

UMBERTO VALENTINI
Negli ultimi decenni la medicina ha conosciuto considerevoli progressi di ordine tecnologico e farmacologico che permettono attualmente di porre una diagnosi ed intervenire rapidamente e con successo. Questa medicina biotecnologica, ricca di prestazioni, si indirizza tuttavia solamente a circa il 10% dei malati, cioè a coloro che sono affetti da un’af­fezione acuta.
La maggior parte delle malattie che colpiscono le popolazioni dei paesi occidentali, infatti, sebbene curabili dal punto di vista medico, non sono ancora guaribili. Se consideriamo inoltre il fatto che tali patologie assorbono più del 70% dei costi sanitari diretti, provocano altrettanti costi indiretti e sono in costante aumento a causa dell’invecchiamento generale della popolazione, possiamo affermare che le patologie croniche rappresentano l’emergenza del 3° millennio.
Che affrontare tali patologie allo stesso modo delle affezioni acute fosse fallimentare è divenuto man mano sempre più chiaro, soprattutto in relazione al fattoin apparenza inspiegabileche più del 50% dei pazienti affetti da malattie croniche non mettono in atto le terapie prescritte.
È a fronte di tale scenario che a partire dagli anni ’70 Jean Philippe Assal, allora giovane endocrinologo svizzero, iniziò ad interrogarsi su come affrontare tale problematica.
Grazie ad una innata curiosità, sensibilità e spirito di osservazione, si rese ben presto conto che le malattie croniche avevano caratteristiche peculiari che andavano tenute in debita considerazione, pena il fallimento della relazione terapeutica e quindi della cura[5].
Le malattie acute presentano infatti segni e sintomi bruschi ed evidenti, vi è l’urgenza di fare una diagnosi ed intervenire tempestivamente occupandosi dell’essenziale con un trattamento che è spesso standardizzato e di breve durata. La compliance è generalmente buona ed è legata al fatto che i risultati sono apprezzabili da parte del paziente stesso, il quale si impegna per recuperare nel più breve tempo possibile lo stato di salute antecedente.
Tutto ciò non vale per le patologie croniche che spesso danno pochi segnali di allarme, si sviluppano silenziosamente anche nell’arco di anni, potendo causare anche seri danni visibili solo a distanza di tempo dall’esordio della malattia.
La diagnosi di malattia cronica non provoca solamente una rottura temporanea nella trama di vita dell’individuo ma determina uno shock emotivo legato all’incertezza del futuro e dei cambiamenti che si renderanno necessari sul piano personale, familiare, professionale, economico.
A differenza della persona affetta da una patologia acuta, il paziente cronico prova un sentimento di perdita della salute e dell’integrità, una sensazione di ineluttabilità ed una difficoltà a proiettarsi nel futuro. Si trova inoltre in una situazione estremamente difficile e conflittuale: accettare di essere malato, farsi carico in prima persona della propria cura, doversi curare per tutta la vita.
Il paziente cronico è chiamato ad essere un soggetto attivo, un partner nelle cure poiché giorno dopo giorno dovrà essere in grado di curarsi adeguando la terapia alle mutevoli esigenze della propria vita.
Per il curante si tratta allora non solo di fare una diagnosi e prescrivere una terapia ma far sì che il paziente diventi capace di farsi carico della propria patologia, fornendogli sia le conoscenze e le abilità necessarie per poter realizzare una buona cura, che un sostegno emotivo e motivazionale, senza il quale la cura non potrebbe essere seguita in maniera regolare e continuativa[6].
Queste ed altre considerazioni sviluppate nel corso degli anni da Jean Philippe Assal hanno portato a fine anni ’70 alla nascita dell’approccio denominato “Educazione Terapeutica”, oggi diffuso in tutto il mondo e riconosciuto dall’OMS come efficace strategia di cura delle patologie croniche.
In un documento del 1998 l’OMS ne definisce le finalità e le modalità di realizzazione: l’educazione terapeutica deve permettere al paziente di acquisire e mantenere le capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia. Si tratta pertanto un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. L’educazione implica attività organizzate di sensibilizzazione, informazione, apprendimento dell’autogestione e sostegno psicologico concernenti la malattia, il trattamento prescritto, le terapie, il contesto ospedaliero e di cura, le informazioni relative all’organizzazione ed i comportamenti di salute e di malattia.
È finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie a comprendere la malattia ed il trattamento, cooperare con i curanti, vivere in maniera più sana e mantenere o migliorare la loro qualità di vita. L’educazione terapeutica forma il malato affinché possa acquisire un “sapere, saper fare e un saper essere” adeguato per raggiungere un equilibrio tra la sua vita e il controllo ottimale della malattia; è un processo continuo che fa parte integrante della cura[7].
Risulta ben evidente il cambio di prospettiva e di paradigma di riferimento: si passa dal modello biomedico della medicina acuta – incentrato sulla malattia e sul suo trattamento – al modello bio-psico-sociale[8] dove la dimensione biologica (la malattia) non è più il solo aspetto da considerare ma ampio spazio viene dato alla persona portatrice della malattia, ovvero ai suoi pensieri, preoccupazioni, aspettative, motivazioni, al suo stile di vita, alla sua vita familiare, sociale, lavorativa ecc.
I ruoli giocati dal curante e dal paziente cambiano, così come la loro relazione: il paziente diventa il centro dell’attenzione, il curante assume un ruolo di accompagnamento della persona lungo tutto il suo percorso di apprendimento e adattamento alla malattia, in una relazione paritaria dove ognuno è riconosciuto nelle proprie specifiche competenze e riconosce le competenze altrui come necessarie per una cura realmente efficace e sostenibile nel tempo[9].
L’educazione terapeutica è un processo continuo che fa parte integrante della cura[10], non è appannaggio di una singola professionalità ma di tutti coloro che a diverso titolo si prendono cura del paziente, per aiutarlo nel processo di accettazione e gestione dei vari aspetti della propria patologia.
L’utilità di tale approccio è stata dimostrata in diversi studi, i quali hanno rilevato che:
l’educazione è componente essenziale di ogni strategia terapeutica efficace poiché rende il paziente in grado di gestire trattamenti complessi ed intensivi che vanno mantenuti nel tempo[11].
nei pazienti asmatici educati vi è un dimezzamento dei costi sanitari, con una prevenzione del 75% delle crisi di asma ed una diminuzione dell’80% delle visite d’urgenza e dei ricoveri[12].
l’educazione mirata alla modifica dello stile di vita riduce l’incidenza del diabete mellito di tipo 2 nei soggetti a rischio (livello 1A)[13].
nei soggetti affetti da diabete di tipo 2 l’educazione migliora i comportamenti relativi alla cura del piede (livello 1A)[14], determinando una riduzione del 75% delle amputazioni degli arti inferiori[15].
l’educazione determina una riduzione delle ospedalizzazioni[16] ed un miglioramento della qualità di vita[17].
la realizzazione di interventi educativi all’interno di sistemi di cura organizzati ed integrati che comportino la periodica e strutturata valutazione dei pazienti migliora gli outcomes dei pazienti e dei processi di cura[18].
Per il curante diventa allora importante poter acquisire informazioni inerenti la sfera psicosociale della persona, cioè sul suo vissuto di malattia, su come questa sta incidendo sulla sua vita, sul grado di accettazione da parte del paziente e del suo entourage familiare e sociale.
Per far ciò si rendono necessarie nuove competenze comunicative, relazionali, pedagogiche, psicologiche.
L’educazione terapeutica ha fatto propri diversi metodi e strumenti provenienti dal campo della pedagogia, psicologia, sociologia e delle scienze umane più in generale, che possono essere utilizzati in maniera semplice dal curante, senza interferire con la relazione terapeutica.
Sul piano pedagogico la formazione del paziente rappresenta una vera e propria sfida: di tutte le forme di insegnamento esistenti è una delle più difficili poiché i pazienti sono allievi particolari, molto eterogenei per quanto riguarda età, origine socioculturale e bisogni. La loro motivazione ad apprendere dipende inoltre in gran parte dal grado di accettazione della malattia e dal modo in cui si rappresentano la patologia e la relativa terapia[19].
Per la persona affetta da una malattia cronica si tratta di acquisire molto più che semplici conoscenze e competenze, in quanto l’ingresso nella cronicità porta a rivedere il proprio futuro, per trovare il giusto spazio da dedicare alla malattia. Si è visto infatti che interventi educativi tradizionali (spiegazioni standardizzate sulla malattia e sul trattamento) migliorano le conoscenze del paziente ma non sono in grado di determinare modifiche comportamentali (livello 1A)[20], mentre più efficaci sono gli interventi mirati sulla specificità biopsicosociale della persona e che lo coinvolgano attivamente nel management della malattia (livello 2)[21].
L’insegnamento non è una semplice trasmissione di informazioni da una persona all’altra. Un insegnante non trasmette il suo sapere solo per avere trattato l’argomento con serietà, poiché la mente di chi ascolta non si comporta come un sistema di registrazione passivo. Le informazioni date devono essere decodificate e vengono deformate da concezioni prees...

Table of contents

  1. Sommario
  2. Introduzione
  3. Sezione 1 Dalla cura all’educazione:le radici dell’educazione terapeutica
  4. Sezione 2 Educazione terapeutica e pedagogia
  5. Sezione 3 Esperienze in educazione terapeutica