Il teorema della colpa necessaria
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Il teorema della colpa necessaria

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La Magistratura ha il compito di punire i trasgressori della legge ed infliggere loro, quando la colpa viene provata, le giuste condanne: la Politica invece quella di legiferare per modificare leggi obsolete o per produrne delle nuove per difendere la comunità dalla disonestà e dal malaffare. Quando l'una delle due Istituzioni pretende di surrogarsi all'altra le inevitabili perniciose contrapposizioni sono inevitabili e nocive per la comunità.
Ed è proprio quello che accade da ventitre anni in Italia. Adesso occorrerebbe ristabilire le giuste regole di convivenza in maniera che ogni Istituzione assuma le responsabilità che le sono proprie. Il Parlamento svolga la sua funzione legislativa e la Magistratura garantisca la corretta osservanza delle leggi. Quando la Politica sbaglia devono essere gli elettori a fermarla e quando è invece la Magistratura dovrebbero sanzionarla i suoi organi di controllo, che da essa dovrebbero essere, e adesso non lo sono, assolutamente indipendenti. Fuori da questo semplice schema c'è solo arbitrio e disordine.
La speranza di tanti cittadini risiede nella annunciata riforma dell'Ordinamento giudiziario che dovrebbe porre in uno stato di parità i diritti della difesa e quelli dell'accusa, affidare ad un organismo imparziale composto da giuristi di chiara fama il governo dell'ordinamento giudiziario, lasciare alla decisione dei magistrati la decisione di iniziare o meno un procedimento penale, apparendo la sua obbligatorietà almeno un segno di dubbio sulla preparazione professionale dei magistrati e anche sulla loro probità, lasciando agli interessati il diritto di rivolgersi all'organo di controllo per giudicane le decisioni.
Tratto dalla Premessa dell'Autore

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Information

Publisher
EDUCatt
Year
2016
eBook ISBN
9788893351119
Topic
Law
Index
Law
I politici ed i governanti che promossero la nascita dell’azienda ENIMONT, (fusione fra l’azienda privata Montedison fondata da Serafino Ferruzzi ed Ente Nazionale Idrocarburi), per fornire al paese lo strumento indispensabile per rendere competitiva sul piano internazionale la chimica italiana, operarono correttamente e nell’interesse pubblico. L’impresa fallì per l’ambizioso e scorretto tentativo di Raul Gardini di assumere il controllo personale dell’azienda comune violando così i patti che sottostavano alla fusione. Il governo e il mondo politico fecero il possibile per scongiurare lo scontro e la crisi conseguente, ma, alla fine, dovettero arrendersi ed escogitare un compromesso, di cui si dirà dopo, per salvaguardare lo scopo della fusione I casi di corruzione e di malaffare sorsero alla fine del 1990 quando Gardini, sicuro oramai di aver perduto la partita, decise di vendere all’ENI le azioni Montedison di cui disponeva per ricavarne il massimo utile per sé. Ad assecondare l’operazione truffaldina posta in essere da Gardini non fu il Governo per le decisioni che adottò, ma singoli Ministri, alcuni dirigenti dell’ENI ed alcuni esponenti del mondo finanziario che per questo ricevettero illeciti compensi. Come giustamente ha affermato l’avv. Spazzali, difensore di Sergio Cusani, furono pagate le persone non i partiti. Raul Gardini pagò alcune di esse, esponenti di partiti maggiori, compreso il PCI, con parte dei 140 miliardi da lui procurati per ottenerne dall’ENI 2805 miliardi, oltre agli interessi miliardari derivati dal pagamento anticipato delle azioni vendute, ancora a prezzo gonfiato dell’Offerta Pubblica di Scambio (OPS) per favorire i suoi amici, e corruppe funzionari statali, alcuni rappresentanti delle “correnti” e del Governo solamente con le briciole per poter esibire, come alibi, la copertura della politica al maleodorante e colossale imbroglio. Il caso ENIMONT, in altre parole, nella sua fase conclusiva non è una sporca operazione politica ma un misto di infedeltà, cupidigia, meschine rivalità e cinismo di alcuni che, per favorire un disegno truffaldino, si prestarono a vendere il loro onore a basso prezzo. Tutto questo è stato chiaro sin dal primo momento e specialmente a chi, come gli inquirenti, era in possesso dei documenti per analizzare correttamente gli avvenimenti. Diventa più grave la responsabilità di chi ha montato questo caso di squallida corruzione, usandolo, con la grancassa dei mass-media, di fatto contro i partiti che allora sostenevano il governo e i loro maggiori esponenti.
L’ENI e la MONTEDISON avevano partecipato alla formazione del capitale della nuova società ENIMONT nella pari misura del 40 per cento cadauno e d’accordo avevano deciso di immettere nel libero mercato, il restante venti per cento. Questa decisione si rivelò un grave errore.
Raul Gardini, roso dalla smania di voler essere lui “la chimica italiana”, spinse alcuni suoi amici ad acquistare sul mercato un numero di azioni sufficienti a costituire insieme a lui una maggioranza azionaria, e dichiarò pubblicamente, anche in occasione di un’audizione parlamentare presso la Commissione Industria della Camera dei Deputati, (marzo 1990), che spettava a Montedison, cioè a lui, di guidare in posizione di comando l’attività industriale di tutto il comparto chimico italiano. L’ENI consapevole del rischio di diventare una impotente appendice di Gardini, si difese rallentando ogni decisione. Nell’estate del 1990 il braccio di ferro fra Gardini ed ENI produsse una situazione di pericoloso stallo dell’azienda con il reale rischio di una catastrofe economica. Il 5 settembre il Presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti, riunì il Consiglio di Gabinetto composto dai ministri economici, fra cui Franco Piga e Paolo Cirino Pomicino, l’uno Ministro per le Partecipazioni Statali e l’altro al Tesoro, appositamente per l’esame della situazione di ENIMONT. Quel consesso fu unanime nel ritenere assolutamente necessario mantenere unificata la gestione del comparto della chimica italiana e indicò come via d’uscita, (il patto del cowboy) la vendita del pacchetto azionario di ENI a Montedison o viceversa previa valutazione del valore dell’azienda. Raul Gardini non accettò questa decisione governativa e, pensando di poter disporre della maggioranza delle azioni, il 26 ottobre provocò le dimissioni dei consiglieri MONTEDISON dal Consiglio di amministrazione della ENIMONT e convocò per il 14 novembre successivo l’Assemblea ordinaria per procedere al rinnovo del Consiglio di Amministrazione con la dichiarata intenzione di mettere, con l’aiuto dei suoi amici che avevano acquistato azioni Enimont sul pubblico mercato, il socio ENI in minoranza. La contromossa ENI non si fece attendere. Il 9 novembre 1990 il Tribunale civile di Milano, presieduto da Diego Curtò, dispose il “fermo provvisorio” delle azioni di Gardini impedendogliene, così, la utilizzazione. Gardini accusò il colpo e, comprendendo che non gli sarebbe stato più possibile impadronirsi dell’ENIMONT attraverso il peso delle azioni nella sua disponibilità, decise di trattare la resa con un avversario pronto a fargli ponti d’oro pur di liberarsi di lui. Nei nove giorni fra il 10 e il 18 novembre 1990, data in cui il Consiglio di amministrazione dell’ENI deliberò di acquistare le azioni MONTEDISON, si svolsero serrate e segrete trattative fra le parti non si sa bene se con la mediazione del Ministro per le Partecipazioni Statali, che comunque fu destinatario di una tangente, e si conclusero nella seguente maniera:
1. L’ENI avrebbe acquistato le azioni MONTEDISON cui era stato attribuito dai periti ENI un valore altamente maggiorato rispetto a quello di mercato, fatto proprio dagli organi dirigenti aziendali.
2. L’ENI avrebbe proposto una Offerta pubblica di scambio (OPS) a prezzi al disopra del loro valore di mercato per far lucrare anche gli amici di Gardini che avevano acquistato sul libero mercato la parte delle azioni ENIMONT necessaria a consentirgli di tentare la scalata al vertice dell’azienda. L’allora dirigente ENI, Franco Bernabè, ha dichiarato al Tribunale di Milano in una udienza del processo Cusani, che solamente da questa operazione l’ENI aveva subìto un danno di circa trecento miliardi.
3. L’ENI avrebbe anticipato il pagamento delle azioni Montedison ad essa vendute prima della scadenza prevista nel contratto. Il vantaggio per i venditori ammontava a parecchi miliardi. La relazione della Corte dei Conti su l’intera questione mette in chiarissima evidenza questi fatti.
Per fare scivolare senza scosse questo melmoso “affaire”, Gardini procurò vendendo a tal Bonifaci immobili ed aziende Montedison, 140 miliardi (provvista Bonifaci) che furono così distribuiti: 78 miliardi, agli uomini che avevano ideato, realizzato o non ostacolato il progetto, mentre 62 miliardi rimasero nelle mani di Gardini (dichiarazione di Sergio Cusani).
Episodio curioso: i soldi che ricevette il giudice Diego Curtò per la sua infedeltà giudiziaria, quella che impedì a Gardini di impadronirsi della ENIMONT, provenivano anch’essi dalla provvista Bonifaci. La vittima che paga il suo carnefice! E questo si può spiegare solamente arguendo che dell’intera operazione di distribuzione della “provvista Bonifaci”, condotta personalmente da Gardini con la collaborazione del solo Sergio Cusani, era stata ideata d’intesa con chi aveva indotto Diego Curtò a bloccare l’utilizzazione delle azioni ENIMONT nella disponibilità MONTEDISON, cioè dall’ENI, secondo la regola del “cui prodest”. Di conseguenza si può pacificamente affermare che né Gardini né altri furono ricattati o costretti a fare ciò che non volevano ma che tutti i più autorevoli dirigenti ENI e MONTEDISON sapevano e volevano quello che Gardini stava facendo. In altri termini il braccio di ferro si concluse dopo il 12 novembre del 1990 quando Gardini decise definitivamente di vendere all’ENI le sue azioni a prezzi di grande convenienza per lui e di procurare il denaro necessario per tappare le bocche e le coscienze di tutti i protagonisti della vicenda. Gli eredi di Serafino Ferruzzi incassarono oltre 3000 miliardi che agevolarono la soluzione della grave crisi familiare originata dai dissensi circa la ripartizione dell’enorme patrimonio del patriarca frattanto in gran parte dilapidato. Raul Gardini uscì formalmente di scena a metà luglio dello stesso anno 1991 carico di miliardi lasciando in azienda il figlio e consentendo al cognato Arturo Ferruzzi, di diventare Presidente e all’altro cognato Carlo Sama, marito di Alessandra una delle figlie di Serafino, Vice-Presidente ed amministratore delegato della Montedison.
I fatti che si sono svolti nella maniera descritta, sicuramente deplorevoli e immorali, escludono interventi politici, del resto non necessari non dovendo il Governo ratificare l’accordo Montediso-Eni, che potevano essere anzi ostacolativi, dopo le decisioni del Consiglio dei Ministri del 5 settembre di cui si è prima parlato. E comunque non è mai emerso neanche un indizio che i partiti o loro rappresentanti abbiano discusso, consentito o suggerito quello che fu deciso in quel 5 settembre 1990 dal Comitato dei ministri tecnici. Fatto indirettamente confermato da Giorgio La Malfa, allora segretario politico del Partito Repubblicano il quale, chiamato a giustificare il contributo elettorale ricevuto da Sama nel 1992, nell’udienza del 2 dicembre 1993 al Tribunale di Milano, riferì di aver ascoltato commenti sull’argomento a margine di una riunione dei vertici di maggioranza, da Craxi, Andreotti e Forlani i quali giudicavano scorrette le pretese egemoniche di Raul Gardini. Non vi furono, quindi, riunioni o decisioni dei partiti di maggioranza sull’argomento poiché se vi fossero state non avrebbe potuto certamente non essere informato il segretario politico del Partito repubblicano che della coalizione faceva parte.
La cortina di fumo stesa da Raul Gardini si diradò con il suo suicidio avvenuto nelle prime ore del 23 luglio del 1993, giorno in cui doveva presentarsi in Procura per essere interrogato dal pm Antonio Di Pietro. Era stato arrestato intanto, Sergio Cusani, suo consigliere di fiducia e braccio destro nella fase conclusiva del divorzio ENIMONT, ed era stato richiesto l’arresto di Carlo Sama, cognato di Gardini, e di Giuseppe Garofano dirigente della Montedison che si erano resi latitanti. I due, rientrati e accolti ai confini del paese dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro, furono interrogati rispettivamente il 26 e il 27 luglio ed ambedue indicarono con precisione i destinatari delle tangenti di cui in realtà non sapevano niente direttamente perché Gardini, tra la fine del 1990 e gli inizi del 1991, per consegnarle si era avvalso dell’opera esclusiva di Sergio Cusani, essendo “gelidi” i suoi rapporti con il cognato Carlo Sama che a nome della moglie Alessandra Ferruzzi chiedeva energicamente conto dell’ammini­strazione dei beni comuni, come lo stesso dichiarò nell’interroga­torio reso al tribunale che giudicava Cusani.
Sama nel corso del suo interrogatorio nel processo contro Cusani, dichiarò di aver saputo da Cusani che la provvista di denaro raccolta da Gardini era stata destinata per una settantina di miliardi a Bettino Craxi, Segretario del Psi e per una diecina ad Arnaldo Forlani, Segretario della DC. E mentiva sapendo di mentire perché quei soldi li aveva nella sua disponibilità lui stesso, Sama, avendoli depositati nella banca vaticana, lo IOR, un anno prima, nel maggio del 1992. Garofano l’indomani rese la identica dichiarazione. Sergio Cusani smentì entrambi subito, nettamente e senza esitazione. La Procura di Milano in data 9 ottobre 1993 richiese alla Camera dei Deputati autorizzazione a procedere contro i segretari politici Renato Altissimo del PLI, Bettino Craxi del PSI, Arnaldo Forlani della DC, Giorgio La Malfa del PRI e Carlo Vizzini del PSDI, per il reato di illeciti finanziamenti da parte della Montedison per la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1992, ed inoltre, solamente per Arnaldo Forlani e Bettino Craxi, di aver percepito illecitamente, in esito alla questione ENIMONT il primo qualche decina di miliardi il secondo settantacinque. La Procura chiese l’autorizzazione a procedere contro Forlani e Craxi pur sapendo che Sama e Garofano avevano mentito. E questa circostanza è dimostrata dal fatto che il 5 ottobre 1993, cinque giorni prima, cioè, dell’invio della richiesta di autorizzazione a procedere contro Craxi e Forlani, la Procura aveva chiesto un incontro con i dirigenti dello IOR del Vaticano per chiedere chiarimenti su depositi miliardari operati da Carlo Sama divenuto dopo il divorzio Eni-Montedison amministratore delegato di Montedison (a questo proposito inequivocabili le pagine del libro di Gianluigi Nuzzi, “Vaticano S.p.A” (ediz. “parole chiare” p. 88 ss.) Accertata quindi la circostanza che Carlo Sama aveva mentito la Procura milanese non solo non ritirò la richiesta di autorizzazione a procedere ma neanche comunicò alla Commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere che era caduta la ragione della richiesta. Un minimo di doveroso scrupolo nella indagine (art. 358 Cod. proc. pen.) obbligava la Procura a non lanciare e comunque a ritirare le pubbliche accuse sapendo quale era, specialmente in quel momento l’effetto devastante e irrimediabile per la reputazione e per il futuro politico dei destinatari. Non c’è bisogno di elencare gli effetti disastrosi per i due uomini politici indicati come percettori di miliardi Montedison e per i loro partiti. Né Forlani né Craxi si ripresentarono alla Camera dei Deputati nelle elezioni del 1994 o al Parlamento Europeo, sostanzialmente si auto-emarginarono dalla attività politica l’uno imboccando la via dell’esilio volontario che lo condusse prematuramente alla morte, l’altro quella di una lunga e penosa odissea giudiziaria.
Ma la conseguenza giudiziaria della scoperta che Sama e Garofano avevano mentito fu che i procuratori milanesi rimasero privi di un qualsiasi elemento minimamente idoneo per continuare le indagini. Avevano bisogno di nuovi elementi.
Ecco la prima applicazione del teorema della “colpevolezza assiomatica”.
Se per dimostrare l’anomalo comportamento della magistratura milanese, si è scelto di narrare le vicende giudiziarie di Arnaldo Forlani è perché si ritiene che il caso del parlamentare marchigiano ne sia uno degli esempi più significativi essendo stato fino al luglio 1992 il Segretario nazionale della DC, il partito su cui ruotava l’intera vita politica italiana, essendo stato Presidente del Consiglio dei Ministri, ed ancora uno degli uomini più influenti del mondo politico italiano. Siamo d’altronde convinti che se si ripercorressero le vicende giudiziarie di Giulio Andreotti o di Bettino Craxi, o di altri imputati politici del processo ENIMONT, – e quanto ve ne sarebbe bisogno – si troverebbero le medesime anomalie, assurdità e contraddizioni.
Ma quello che più conta è denunciare la causa di quel comportamento che consiste nel tentativo, riuscito, di trasformare, ed in senso permanente, l’azione giudiziaria in azione politica.
Quei nuovi elementi per accusare Forlani arrivarono il 13 novembre 1993, pochi giorni dopo la caduta dell’accusa contro di lui, di aver “illecitamente percepito dieci miliardi da Montedison”.
Il senatore Severino Citaristi, segretario amministrativo della DC, si presentò negli uffici della Procura di Milano per rendere dichiarazioni “spontanee”.
Citaristi era stato raggiunto da oltre sessanta avvisi di garanzia per il reato di finanziamento illecito ai partiti e viveva nel terrore di essere arrestato non essendo più protetto dalla immunità parlamentare. La lettura di quelle dichiarazioni, fatte qualche giorno dopo aver affermato in aula nel processo Cusani, che non informava il Segretario Forlani dei contributi che riceveva, mette i brividi e fa immaginare quanto violenta sia stata su di lui la pressione. Citaristi prima di elencare una quindicina di casi in cui confessa di aver ricevuto finanziamenti da varie imprese, presenta la DC, il partito cui aveva dedicato la sua esistenza politica, alla stregua di una associazione a delinquere dedita solamente a spillare soldi per poi scialacquarli. Una specie di pidocchio gigante sotto la pelle degli italiani. A pensare quale umiliazione sia stata imposta ad un signore anziano, probo, malandato in salute e perseguitato da una serie infinita di atti giudiziari, sale spontanea l’indignazione per il modo con cui quel caso fu trattato. Certamente Severino Citaristi sottoscrisse quelle dichiarazioni e, bene o male, le sostenne successivamente: ma questo non toglie neppur un grammo al cinismo di chi lo indusse a rinunciare alla sua identità e alla sua dignità. E questa perdita neanche servì ad attenuare la gravità della pena che gli fu inflitta che fu di tre anni di reclusione pur sapendo i giudici, come ha dichiarato pubblicamente Antonio Di Pietro nel marzo 2015 in televisione (presentazione film televisivo “1992”), che non si era mai impadronito personalmente di una lira. Intervenne il suo avvocato per suggerire quella via? Fu chiesta a lui quella forma di collaborazione che vien chiesta all’imputato che confessando i propri delitti ottiene sconti di pena e comprensione? L’interrogatorio di Severino Citaristi condotto dal PM nella udienza del processo a carico di Sergio Cusani il 30 novembre 1993, dopo diciassette giorni dalle sue dichiarazioni “spontanee”, a questo farebbe pensare. Ma sono solamente ipotesi che non giustificano giudizi di ogni sorta. Comunque, a meno di pensare ad un “raptus” di pentimento e di incontenibile ansia di verità che Citaristi non aveva mai manifestato in nessuna sede prima di allora, le sue dichiarazioni restano senza altra ragionevole spiegazione se non quella di un mal consiglio accettato per timore.
Del complesso degli episodi di percezione di somme auto-denunciate da Severino Citaristi quelli che gli inquirenti espunsero subito furono i tre che giustificavano l’inizio immediato di indagini istruttorie a carico del Segretario politico Arnaldo Forlani per farne finalmente un imputato.
Citarisri dichiarò che nel gennaio del 1991, egli, su invito di Forlani, era andato a trovare Carlo Sama negli uffici romani della Montedison e che in quella occasione Sama gli aveva dato tre miliardi.
La Procura milanese ritenne di puntellare immediatamente le dichiarazioni di Citaristi sull’episodio con un confronto con Carlo Sama, divenuto Amministratore delegato e Vicepresidente di Montedison, che considerava di scontatissimo risultato e che non avrebbe lasciato scampo a Forlani. Il 18 novembre 1993, a distanza di cinque giorni dalle dichiarazioni di Citaristi, la Procura dispose un confronto fra lui e Carlo Sama, sicura di poter chiudere in fretta l’indagine con almeno due testimonianze concordanti contro Forlani.
Ma nel confronto avvenne un fatto incredibile.
Sama, di fronte a Citaristi, dichiarò di non avergli mai dato nessuna somma di denaro nel gennaio del 1991, e Citaristi, fatto ancora più sconvolgente, riconobbe che era vero, che in effetti non era Carlo Sama la persona da cui ricevette i miliardi nel gennaio del 1991, ma altra persona, di cui, però, non conosce il nome, non sa descrivere la fisionomia (“era un poco più alto di me”), e che aveva incontrata, non più, come aveva scritto cinque giorni prima, nella sede romana MONTEDISON, ma in un appartamento in Roma di cui però non ricorda l’indirizzo.
Conduce il confronto il sostituto procuratore Antonio Di Pietro il quale contesta a Citaristi solamente che la mazzetta da lui ricevuta non è di tre miliardi ma di quattro miliardi e settecento cinquanta milioni, ma che non si preoccupi dell’amnesia perché è “plausibile” (sic) che la differenza sia pervenuta a lui, al frastornato Citaristi, da altra fonte per altra circostanza.
Qualunque persona di buon senso e senza pregiudizi vede bene che ciò che è emerso nel corso del confronto necessita di un esame critico e approfondito dei fatti. Occorre capire dove sta la verità: è vera la versione che Citaristi ha messo per iscritto cinque giorni prima o è vera quella diversa che sta riferendo per la prima volta nel confronto con Sama, o non è vera né la prima né la seconda e ve ne può essere una terza?
L’autorità inquirente per fare giustizia aveva il dovere di cercare, di fronte a questo cumulo di contraddizioni, la verità. Lo ha fatto? Assolutamente no!
Infatti, potrebbe essere anche vero che Citaristi non conoscesse Sama nel 1991 quando ricevette la mazzetta di 3 o di 4.750 mld, ma lo ha certamente conosciuto nel marzo del 1992 quando ricevette da lui un miliardo per la campagna elettorale. Quindi, nel 1993, quando rese le dichiarazioni “spontanee” sapeva bene come si presentava fisicamente Sama. Come mai nelle sue dichiarazioni di cinque giorni prima lo indica come il donante della tangente e poi, solamente al suo cospetto, ammette che non era lui il misterioso donatore del 1991? Né Di Pietro né gli altri procuratori danno spiegazioni e, comunque, ritengono di chiarire le cose. Ma ancora, se non fu Carlo Sama a consegnare la mazzetta ENIMONT a Citaristi chi altri fu? Dipendendo la sussistenza o la insussistenza del reato dalla identificazione del donante diventa essenziale scoprirne l’identità. Cosa ha fatto Di Pietro per accertarla?
Niente! Letteralmente niente!
Non ha interrogato l’autista di Citaristi che aveva il dovere di annotare i percorsi giornalieri, per sapere dove aveva condotto in quel giorno di gennaio 1991 il segretario amministrativo, non ha cercato di individuare l’anonimo membro dello staff di Forlani (composto solamente da quattro persone, telefonista compresa) che, secondo Citaristi, gli aveva comunicato il luogo ove ritirare la mazzetta, non ha ritenuto di interrogare Enrico Boreatti, il più stretto collaboratore di Citaristi, il quale, nell’interrogatorio del 7 ottobre 1993 aveva dichiarato al PM che lo interrogava, di aver ricevuto da Citaristi nel gennaio 1991 circa 4.500 milioni, cioè la mazzetta ENIMONT, e di averli depositati in un conto corrente personale presso la Banca provinciale di Bergamo, che non era l’Istituto di credito per le ordinarie operazioni della DC a Roma, e quei miliardi erano rimasti in quel conto corrente per quindici mesi. Cosa ha fatto la procura per chiarire questo incredibile groviglio di contraddizioni?
Niente! Letteralmente niente!
E perché non ha domandato a Boreatti la ragione del suo insolito comportamento e del perché quelle somme furono da lui trattenute e riversate nelle casse della DC solamente quindici mesi dopo il deposito, in occasione della campagna elettorale della primavera del 1992? E a Citaristi come utilizzò la somma e dandola a chi? Arnaldo Forlani, interrogato da Di Pietro sull’episo­d...

Table of contents

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. Capitolo I I presupposti della crisi democratica del 1994La parcellizzazione dei partiti
  4. Capitolo II ENIMONT: per una potente chimica italiana
  5. Appendice
  6. Indice dei nomi