L’incontro col sovrumano
(Alfredo e Angelo Castiglioni-Giovanna Salvioni)
Di fronte al mistero del sacro, pur lasciando ogni idea di abbellimento e di esibizione della persona, nella ricerca di un contatto qualificante, l’uomo elabora con tutti i mezzi forme di trucco, di abbigliamento, di comportamento tra le più fantasiose e suggestive; tali forme (a volte quasi cristallizzate come nelle maschere per il volto, oggetti-tramite per eccellenza che secondo Bedouin espongono assai più di quanto non nascondano) operano una trasformazione sostanziale nell’ambito dei grandi rituali: gli officianti e i danzatori, dipinti, mascherati, muniti di simbolici accessori, non sono più semplici creature umane e spesso sono addirittura quegli esseri sovrumani delle cui sembianze sono portatori.
L’abbondanza e importanza dei riti deriva dal fatto che per la civiltà africana tradizionale tutto ciò che è profano è un vuoto di significato da riempire adeguatamente; il rito ha come modello accadimenti primordiali, gesti archetipi; la ripetizione rituale è una ri-attualizzazione del tempo mitico che sacralizza il profano e lo inserisce correttamente nel flusso vitale.
Tutto quanto è nuovo è profano e pericoloso, può rompere l’armonia sociale della comunità e disturbare il suo buon funzionamento; il collegamento del nuovo al sacro, inteso come antico, originario, lo purifica da ogni elemento negativo e lo introduce senza attriti nel contesto culturale.
Il complesso mondo religioso delle popolazioni agrarie dell’Africa occidentale rivela ampiamente questi intenti, ma soprattutto colpisce per la ricchezza di sentimenti che sottintende; nel dramma sacro diviene movimento e colore la devozione al Creatore-padre, agli Antenati, agli Spiriti della natura e agli animali che ne sono le manifestazioni o i messaggeri; ed esso segna le tappe della vita dell’uomo, della sua comunità e l’alternarsi delle stagioni.
Il sacro è vita e vitalità
L’uomo africano vive nel sacro e impegna nel rito le sue migliori facoltà. Il modello tradizionale di religiosità, proprio delle popolazioni del DahomeyBenin, ne è un esempio generalizzato e chiarificatore. Vi campeggia la figura dell’Essere Supremo, Mahou, tanto alta ma anche tanto vicina.
L’Essere Supremo è la bontà stessa, e non fa che del bene alle sue creature, ignorando il male; l’espressione: Mawuwele!, alla lettera: Dio l’ha colpito!, va interpretata come: Dio l’ha castigato!, perché, appunto, Mahou non accascia sotto sciagure senza motivo, ma è onnipotente e giusto giudice della sua creazione.
Mahou, quanto alla sede, come tutti gli Esseri Supremi è un essere celeste ed abita nel cielo, senza confondersi con esso. I miti testimoniano che:... L’Essere Supremo, ‘dall’alto’, decise di venirgli in aiuto...; Odumare, ‘dal cielo’, inviò Obatala sulla terra...; L’Essere Supremo, ‘mandò giù’ i progenitori, facendoli scivolare lungo una catena da lui stesso forgiata, che congiungeva cielo e terra...
Anche i nomi dati all’Essere Supremo dai Gunnus e dagli Ayizos, rispettivamente: Djihue Yèuhe e Diiyé-hue, e dagli Yoruba (Nago): Olourun, che, tradotti alla lettera, danno nell’ordine: Spirito di là in alto e Maestro del cielo, significano che l’Essere Supremo ha eletto il suo domicilio nel luogo che gli uomini non possono raggiungere finché sono in vita.
Quanto all’immagine, essa si può definire antropomorfa. I miti parlano di un Essere Supremo che plasma con le proprie mani; che forgia una catena nella sua fucina; che ha molti figli; inoltre ricordano sovente che egli è in coppia con Lissa e che dalla loro unione è nata la terra. Il creatore possiede in sommo grado ogni qualità e possibilità delle creature, sia umane che animali; per alcune popolazioni infatti, tra cui i Pédahs o Houédas, una antica tribù costiera, Dio assume talvolta sembianze animali; sulla costa Dagbé (il pitone) è ritenuto un’incarnazione dell’Essere Supremo; Dagbé, dice una vecchia canzone houeda, ha aperto gli occhi all’universo, ossia gli ha donato la luce:
Dagbe we hu nukCi. na gbe
Bo gbeto Le dowa gbe...:
È Dagbé che ha aperto gli occhi all’universo e permesso all’umanità di venire al mondo...
La sua venuta nelle case deve portare pace, prosperità, felicità, tutti i beni che gli uomini possono desiderare.
Il suo morso è inoffensivo, anzi chi è morsicato da lui, è immunizzato da ogni morso velenoso per tutta la vita.
Dagbé, come abbiamo visto, è ritenuto l’incarnazione dell’Essere Supremo soprattutto tra le genti Ewe (Minas, Adjas, Houédas, Ayizos, Gunnus, Wémenus). Tra gli Yoruba, invece, non è oggetto di nessun culto; per gli Yoruba, Ifa (Fa per i Fon), la divinità che rivela agli uomini il volere degli altri dei e degli antenati, sarebbe l’incarnazione di Mahou; insomma l’Essere Supremo è sia bontà e dolcezza (Dagbé), che saggezza (Fa).
Nei nomi che gli sono dati di volta in volta, traspare tutto il rispetto fiducioso e riverente di cui è oggetto da parte degli uomini: Mahou, Ata, Tohonon, Adjalonlon, Dada-Segbo, Segbo-Medo nei dialetti ewe del Basso e Medio Dahomey, equivalgono a: Dio del quale non c’è il più potente; Oluwa, presso gli Yoruba, equivale a Signore.
Immediatamente dopo l’Essere Supremo, gli Antenati sono i più venerati; sono il tramite privilegiato tra l’uomo ed il sovrumano.
Alla base stanno le varie concezioni dell’anima umana, almeno laddove modernizzazione e missione non l’abbiano sostituita con altre concezioni.
L’anima umana ha due immagini, costituita dalle due ombre, una visibile ed una invisibile, del corpo vivente. L’immagine visibile dell’anima resta con i vivi in ricordo del trapassato; l’immagine invisibile segue invece l’anima nel paese dei morti, dove vagherà esposta alle intemperie fino al compimento delle esequie da parte dei parenti.
Un particolare curioso: gli usi del paese dei morti sono esattamente il contrario di quelli del mondo dei vivi: le anime parlano col naso, camminano al l’indietro e si reggono su seggi rovesciati.
La parte visibile dell’anima, che resta tra i vivi ed appare loro in varie occasioni, specie nel sonno, si identifica in parte con l’anima immagine che – dice Howitt – ... può comunicare coi vivi, specialmente quando essi dormono. Questa anima del morto può, e talora deve, tornare nei luoghi dove ha vissuto, visitare le sue antiche dimore e farvi un più o meno breve soggiorno.
La diffusa credenza che nella notte i morti tornino tra i vivi, determina usanze particolari, come quella di non scopare la casa o di non gettare acqua nel cortile dopo il tramonto senza prima aver gridato: Ago! (attento!) per avvisare gli spiriti eventualmente presenti e farli spostare senza danno.
Per timore che essi vengano a cercare cibo nella notte e non ne trovino, nessuno lava piatti la sera o vuota del tutto una marmitta; per di più nessun capo famiglia mangia mai senza avere prima lasciato cadere a terra un boccone di cibo o qualche goccia di bevanda. In queste ultime usanze quello che prevale non è tanto il carattere di vera e propria offerta ai morti, ma quello di ricordo fedele, di rispetto considerevole e pietoso verso di essi.
L’anima è ritenuta somigliante al corpo nelle sue linee essenziali: la gente non rivede spesso in sogno qualcuno dei suoi cari defunti con le medesime sembianze che aveva in vita? Eppure della stessa persona nel sepolcro non ci sono più ormai che poche ossa corrose. La convinzione che i defunti si occupino degli affari dei vivi è radicata in tutto il paese, tanto che molti affermano di avere vista della gente tornata dal Koutòme per un certo periodo.
Il re Glélé stesso, ha confermato ciò con due racconti fatti a viva voce dalla soglia del suo palazzo al popolo riunito. Vediamo la prima storia:
Ai tempi di Adazan, un capo chiamato Adajaholanhoun espresse tutto il suo malcontento per gli abominevoli delitti che compiva il re. ‘Se morirò prima del re, chiederò allo yé (anima) di suo padre cosa pensa di lui’ diceva.
Il capo morì prima del re, ma nessuno si ricordava più dell’accaduto allorché durante una riunione di capi uno straniero, facendosi largo tra la folla, senza prostrarsi al re, gli disse: ‘Vengo da parte di Adjaholanhoun, a dirti che lui è stato messo in prigione da tuo padre, perché in vita non ha impedito a te di commettere tanti delitti’.
Il re non si adirò e gli fece servire da bere e da mangiare; ma lo straniero batté le mani sui cibi e versò a terra le bevande dicendo: ‘Così mangiano e bevono i morti!’ Poi partì; lo inseguirono ma egli scomparve agli occhi di tutti senza lasciare traccia.
La seconda storia narra:
Un certo Léghédé Tonikézé di Adankpodji morì. I becchini, nel seppellirlo, gli rubarono i panni e il liquore che avrebbero dovuto accompagnarlo nell’altro mondo. I ladri portarono il tafià (liquore) da un uomo gravemente ammalato e glielo vendettero come un buon rimedio. Ma appena l’uomo, di nome Bognon Kédé, ne ebbe bevuto qualche sorso, gridò: Oué! Oué! e morì. Nello stesso momento morirono anche i becchini.
Mentre però, il giorno dopo, si stava per seppellire Bognon, questi risuscitò e disse: ‘Ho visto il re Kpengla nel paese dei morti. Egli ha messo in prigione i becchini perché la loro condotta verso Léghédé non è stata corretta né onesta’.
Il profano scompare perché il sacro permea tutta l’esistenza, nei suoi momenti più concreti e in quelli più elevati. I nomi stessi imposti ai neonati lo dimostrano: lo spirito trionfa. I nomi hanno un significato mollo chiaro: Ayiwu è per lo spirito,
Ayiwanu: è lo spirito che agisce
Ayidoté: lo spirito è permanente
Ayikpo: lo spirito è invisibile all’occhio
Ayikpévi: quando uno spirito riempie un bambino.
Un canto funebre ripropone questa idea insieme al concetto fondamentale dell’importanza dei morti:
Ku we huegbo
U do gbe we djo gbe Sahue ku we huegbo U do gbe we cUogbe.
L’aldilà è la grande dimora
Questo mondo un luogo di passaggio, di visita,
L’impero dei molli è la grande dimora
Questo mondo un luogo di passaggio, di visita.
Ai morti che lo accolgono, il nuovo arrivato nel Koutômê dovrà rendere conto della sua condotta; se essi lo avranno giudicato colpevole di qualche colpa, lo lasceranno in disparte, inginocchiato in segno di penitenza.
E simile sarà la sua sorte se i figli non avranno rispettato dopo la sua morte le usanze funebri tradizionali. Un canto funebre parla appunto del fatto che i figli hanno aperto, con le cerimonie celebrate scrupolosamente, la via all’aldilà al padre:
Adivi wa nu e ye nowa
Awa yi mo Buna bo do gbe na
o sava ni hu ho na we!
Awa nu e ye no wa
Ayi mo Buna bo do gbe na
osava ni bu ho na we!
Il figlio ha compiuto quello che si deve compiere Quando tu ritroverai Buna[1] tu gliene renderai conto.
Che Sava[2] ti apra la porta!
Tu hai compiuto quello che si deve compiere. Quando ritroverai Buna, gliene renderai conto. Che Sava ti apra la porta!
Ci sono degli antenati familiari, diversi per ogni famiglia, e degli antenati comuni a tutti, che man tengono nell’oltretomba la loro posizione di supremazia. Tali sono gli antenati reali, per cui ogni anno, al tempo in cui soffia l’Hannattan il re di Abomey dava feste lussuosissime e solenni. Una gran folla, tra danze e canti, riempiva la città e attendeva il giorno in cui sarebbero state sacrificate le vittime, tra cui le più gradite agli avi sarebbero state quelle umane.
Così si forma una lunga catena che lega la terra al cielo: i figli sono sempre in corrispondenza con i padri, ed ogni giorno chiedono loro protezione; se capita ad un figlio qualche disgrazia, egli fa offerte sulle tombe dei padri per renderseli propizi. Essi, per aiutarlo, se la questione è di grande importanza fanno opera di intercessione presso i grandi antenati comuni, che a loro volta imploreranno, come rappresentanti qualificati degli altri antenati, l’Essere Supremo. La maggioranza delle cerimonie si rivolge, oltre che alle divinità minori, agli Antenati, mentre l’Essere Supremo non è invocato che molto raramente e sempre privatamente.
Psicologicamente questo atteggiamento si spiega molto bene se si considera che gli uomini, per le loro richieste di tutti i giorni, preferiscono ricorrere a persone di cui hanno avuto la confidenza prima che morissero, lasciando ad essi il compito di mettere in moto l’ingranaggio dei rapporti che farà giungere la loro supplica alle orecchie dell’Essere Supremo attraverso la bocca degli Antenati più influenti.
I Vôdoun
Per guanto riguarda le cose del mondo, l’Essere Supremo le governa per mezzo dei suoi dèi, che fungono da ministri.
Egli ha posto ognuno di essi a capo di uno speciale settore; essi si chiamano Vôdoun; vengono venerati sotto forma di sculture di legno o di figurine di terra, ma prendono anche forma umana per discendente sulla terra.
Questo prodigio avviene di preferenza tra mezzogiorno e la una, oppure tra la mezzanotte ed il canto del gallo. Incontrarli vuol dire rischiare la morte.
Siccome essi sono antropomorfi, hanno le nostre stesse infermità: hanno fame e sete e soffrono. Esistono divinità celesti (Aga-Vôdoun), divinità terrestri (Ai-Vôdoun) e ninfe (To-Vôdoun).
I re pagavano per comperare gli dèi dei popoli vinti; tra essi, quelli che potevano assimilare ai propri li conservavano identificandoli con questo o quell’altro degli dèi tradizionali. A loro si immolavano molte vittime tutti gli anni.
I Vôdoun amano ognuno vari cibi; non possono soffrire in alcuni casi un certo frutto, una certa bevanda. Mentre riempiono di benefici i loro buoni fedeli, sugli altri scaricano malattie e disgrazie.
Le divinità ‘pubbliche’, pur essendo più venerate da una tribù o da un’altra, ricevono tuttavia un culto generale in tutta la regione; tra esse, appunto, quelle che furono ‘prese’ dal re ai popoli vinti e da lui imposte alla venerazione dei propri sudditi; nessuno di questi avrebbe potuto, anche volendo, disobbedire senza gravi conseguenze.
Le divinità ‘private’ sono quelle di una o dell’altra collettività familiare e si chiamano perciò Hennou-Vôdoun, Ako-Vôdoun (Vôdoun familiari); tali Vôdoun sono i fondatori e i benefattori della famiglia, che ne conosce a memoria la mitologia.
I grandi Vôdoun pubblici
Tra le divinità ‘pubbliche’ un posto privilegiato è tenuto da Hévioso (il fulmine); questo dio fu uno dei principali delle genti Houédas, e poi fu identificato dai re che li vinsero con Gbadé, che ad!fan era anch’esso dio del tuono. Dalla teogonia dahomeiana risulta che Gbade è il padre di Sogbo e di Zakata, bambini tanto temibili quanto il loro padre, che si accaniscono uno sugli esseri animati, l’altro sugli alberi molto alti. Queste tre persone firmano insieme la folgore.
Il dio Heviôsô condanna le cospirazioni, gli avvelenamenti, i sacrilegi e punisce con le folgori. Non abbatte gli alberi se non quando questi sono serviti ai maghi, ossia agli stregoni. Egli ha anche a sua disposizione il doso o fulmine di terra, che fulmina senza luce né rumore.
Le vittime della folgore sono private della sepoltura; esse sono esposte in piena luce ai bordi del tempio di Heviôsô e tutte le sere sono affu...