Parte prima Origini
del giornalismo satirico
Satira
Un antico costume
Nell’Italia di questo inizio del Terzo Millennio non vi è quotidiano (ma anche periodico) che non offra ai suoi lettori, quasi sempre in prima pagina, accanto alle notizie più importanti, una vignetta che suggerisca una interpretazione comica di questo o quel fatto, di questo o quel personaggio.
Le matite dei disegnatori ormai non si fermano davanti a nulla, mettendo alla berlina persino gli argomenti più esclusivi, sconfinando talvolta nella irrisione delle più sentite convinzioni di vaste porzioni della società, comprese quelle religiose, con conseguenze che nella peggiore delle ipotesi si sono rivelate persino tragiche, come ha dimostrato l’attentato avvenuto a Parigi nel 2014 ai danni dei giornalisti del periodico Charlie Hebdo e posto in atto da terroristi francesi aderenti all’ISIS.
Proprio quel sanguinoso evento, parte di un più articolato attacco portato alla capitale francese, suscitò un’indignazione senza confini, animando pure moltissime prese di posizione in favore della libertà di stampa e in particolare di quella di far satira, pur se non sono mancate le voci che, pur condannando la ferocia del gesto terroristico, hanno invocato anche un maggior rispetto per le convinzioni religiose di tutti i credenti, indipendentemente dalla loro fede.
Il centro degli interessi dei lettori di Charlie Hebdo era ed è rappresentato da immagini satiriche particolarmente corrosive, che attualizzano una tendenza ben consolidata del giornalismo francese, che inevitabilmente spinge ad un confronto con gli stessi settori del nostro giornalismo8.
Ma se si vuole stabilire un parallelismo tra questa tradizione transalpina e quella italiana, non si può fare a meno di ricordare l’ampia offerta di periodici satirici illustrati che sono comparsi nelle edicole italiane negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, in un momento della nostra storia contemporanea in cui suggerire all’opinione pubblica di trovare la forza di sorridere di quello che giornalmente accadeva poteva apparire una fatica immane.
Intendiamoci: rallegrare i lettori poteva apparire anche un efficace strumento per dimenticare gli affanni quotidiani, ma la spiegazione è solo in parte accettabile, visto che è buona norma operare una distinzione tra il genere satirico e quello umoristico, sul quale ebbe modo di esercitarsi persino la riflessione di Luigi Pirandello, in un saggio del 1908 che aveva ottenuto e tuttora ottiene grande interesse da parte degli studiosi9.
Elemento costitutivo della poetica pirandelliana, il saggio sull’umorismo, che scaturiva anche da considerazioni innescate dallo scritto Il Riso di Henri Bergson del 1900 e da Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio del 1905 di Sigmund Freud, operava una distinzione tra comico e umoristico, definendo ontologicamente questo secondo elemento come sentimento del contrario, vale a dire elaborazione concettuale e razionale di ciò che è comico.
Fortemente criticato da Benedetto Croce il saggio verrà riproposto dall’autore nel 1920, dando così alla satira una dimensione tutta particolare che solo in parte coincide con l’umorismo.
Forse meno noto è il fatto che il saggio, la cui composizione venne avviata nel 1904, al momento della comparsa finì per ricollegarsi anche ad una diatriba giuridica che aveva avuto largo seguito sulle pagine dei giornali dell’epoca perché chiamava in causa un’opera teatrale del famoso drammaturgo partenopeo Eduardo Scarpetta intitolata Il figlio di Iorio e che ne metteva alla berlina un’altra, la celeberrima Figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio, che dunque querelò Scarpetta per plagio e contraffazione d’opera.
I giudici erano stati chiamati a stabilire se, in base alle leggi vigenti, il lavoro del drammaturgo partenopeo fosse censurabile o no, sia per il fatto che metteva alla berlina una tragedia molto apprezzata quale La figlia di Iorio, sia perché si riteneva che violasse le norme relative alla tutela della originalità delle opere dell’ingegno.
Dietro a quest’ultima rivendicazione dannunziana vi era anche un’altra celebre firma della lettura italiana di allora, Marco Praga, che era anche procuratore di D’Annunzio e fondatore della Società Italiana Autori ed Editori, la SIAE. Le parti ebbero consulenti di grande prestigio e abilità, tra cui Salvatore Di Giacomo a favore di D’Annunzio e Benedetto Croce per Scarpetta, che si spesero al massimo delle proprie capacità intellettuali per sostenere i rispettivi assistiti. Insomma il processo andò ben al di là del semplice fatto che lo aveva fatto scaturire. Da notare tra l’altro che il pubblico non gradì l’opera di Scarpetta e al calare della tela sommerse autore ed attori in un mare di fischi.
Per la cronaca la vertenza finì con l’assoluzione di Scarpetta e quindi con l’accoglimento della tesi dei suoi difensori che vollero tutelare anche il diritto per il drammaturgo napoletano di fare un poco di satira sul lavoro anche di un “mostro sacro” quale era allora D’Annunzio. La satira poi non costituiva violazione del diritto di autore nei confronti dell’opera che l’aveva ispirata.
Dunque dovendo fare chiarezza sulle diversità esistenti tra umorismo e satira conviene richiamarsi alle definizioni date dalla Treccani, secondo cui è umorismo «la facoltà, la capacità e il fatto stesso di percepire, esprimere e rappresentare gli aspetti più curiosi, incongruenti e comunque divertenti della realtà che possono suscitare il riso e il sorriso, con umana partecipazione, comprensione e simpatia (e non per solo divertimento e piacere intellettuale o per risentimento morale, che sono i caratteri specifici, rispettivamente, della comicità, dell’arguzia e della satira)». Conseguentemente sempre la Treccani definisce la satira una «Composizione poetica che rivela e colpisce con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore».
Le definizioni ci paiono assolutamente ineccepibile e quindi indispensabili per dare avvio a questa analisi.
Tuttavia la corretta e rigorosa distinzione che ne deriva sembra affievolirsi nel giornalismo, perché quando dalle pagine di un foglio quotidiano o periodico viene lanciato un messaggio destinato a far sorridere il lettore, si ha oggi la sensazione che il principale scopo soprattutto dei vignettisti sia quello di fare satira, ovvero di mettere alla berlina personaggi di rilievo del mondo politico, istituzionale o della cronaca, evidenziando, quasi a futura memoria, gli aspetti giudicati più anomali dell’attuale società. E spesso il sorriso si sostituisce all’invettiva, o diventa esso stesso invettiva, quasi arma di lotta politica: cosa che avvenne anche nei primi anni della ricostruzione e che forse spiega il successo di giornali che si definivano umoristici ma quasi sempre nascondevano dietro all’umorismo una forte volontà di satira di carattere politico o di costume. In definitiva un’arma di lotta da affiancare alle opinioni espresse dai giornali “seri” e che spesso risultavano indigeste ai lettori, ben più inclini a introitare i messaggi che scaturivano da una vignetta o da un breve “pezzo” che avevano lo scopo di suscitare una risata, non necessariamente di scherno.
Questo particolare approccio informativo non era certo inedito: la tradizione del giornalismo satirico, soprattutto quello rivolto alla politica, affonda le sue radici nei secoli andati ed ha dunque alla spalle una tradizione tutt’altro che trascurabile.
In genere gli storici del giornalismo considerano essere il primo periodico satirico illustrato dell’età contemporanea La Caricature, comparso a Parigi nel 1830 per iniziativa di Charles Philipon Disegnatore, giornalista e soprattutto caricaturista, Philipon aveva esordito specificatamente nel 1829 quale cofondatore del settimanale parigino La Silhouette, che ebbe nella nazione transalpina un significativo primato: quello di dedicare pari spazi alla parola scritta e ai disegni. Il giornale aveva una natura satirica che si esprimeva soprattutto tramite le litografie di alcuni dei migliori illustratori della capitale, ma che godevano di fama internazionale. La Silhouette proseguì le sue pubblicazioni sino al 1931, quando fu costretta a chiudere per le intimidazioni censorie delle autorità. Così La Caricature ne proseguì ampliandolo il concetto giornalistico e illustrativo di fondo, riuscendo a sopravvivere fino al 1843: quasi un record per una testata che era costantemente nel mirino delle autorità nel travagliato periodo di Luigi Filippo.
Caricatura di Luigi Filippo che si trasforma in pera eseguita da Philipon
Ma Philipon non si accontentò de La Caricature, impegnandosi anche in un altro periodico a forte contenuto satirico, il Charivari. Il titolo del giornale merita una spiegazione, che ci rimanda ancora alla Treccani: con il nome chiarivari, di origine greca, che in italiano veniva tradotto come capramarito, venivano indicate le manifestazioni di forte protesta, spesso plateali, di rabbia o di irrisione collettiva che venivano indirizzate contro individui ritenuti colpevoli di atti contrari alla morale comune, e assai diffusi tra XIX e XX secolo. Insomma una specie di gogna pubblica, che con il giornale di Philipon diventava modernamente mediatica, e quindi molto incisiva10. Il periodico divenne anche il testimone delle pagine più significative della vita parigina: ad esempio non mancò di far sentire la sua voce nell’aprile del 1876 quando venne realizzata la prima mostra di quella corrente pittorica detta degli Impressionisti, presentati in una mostra svoltasi presso la residenza in Rue des Capucines del famoso fotografo Nadar. La mostra dedicata alle opere di Edgar Degas, Paul Cézanne, Félix Bracquemond, Armand Guillaumin, Claude Monet, Berthe Morisot, Camille Pissarro, ...