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La october surprise, questa volta, ha assunto la forma tragica e inattesa di un evento naturale distruttivo ed allarmante, cui meteorologi e giornalisti hanno voluto dare il nome “Sandy”. Sorpresa che, nella fattispecie, ha riguardato anche noi, pronti a sbarcare negli usa il 31 di ottobre e costretti invece ad arrivarci non prima del 2 di novembre, e dopo un lungo volare tra Francoforte, Amsterdam, Detroit come scalo e poi, finalmente, New York, che volevamo visitare per prima. Passeggiare per Francoforte e poi per Amsterdam, tuttavia, è stato un piacere, una nuova scoperta dopo le meno consapevoli scorribande adolescenziali.
Già prima di partire seguivamo da giorni l’inesorabile procedere di Sandy, passo dopo passo, nella speranza di non vedere ritardato troppo a lungo il nostro viaggio, e desiderosi innanzitutto di arrivare in tempo non tanto per le mie ricerche di archivio – motivo del viaggio – che potevano slittare di qualche giorno senza eccessivi problemi, quanto piuttosto per seguire gli ultimi momenti di campagna elettorale e poi infine il risultato del confronto tra repubblicani e democratici.
Il giorno precedente la nostra partenza avevamo quasi perso le speranze, anche perché tutti i voli da e per gli usa venivano progressivamente cancellati, tranne il nostro, che però abbiamo evitato di ricontrollare la mattina presto subito prima della partenza. Siamo così arrivati tutti spavaldi a Francoforte, dove abbiamo trovato, ahinoi, ad aspettarci le lunghe file d’attesa dei giorni precedenti, e il nostro volo, comunque, già cancellato. La lunga ed estenuante trattativa con la compagnia aerea, naturalmente condotta da Alessandra, ci ha infine garantito pranzo, cena, pernottamento e colazione pagati in un albergo decisamente confortevole, il trasferimento ad Amsterdam e poi da lì, il giorno dopo ancora, un viaggio in business class fino a Detroit con successivo volo interno per New York. Tutto sommato niente male.
La october surprise, dunque, ha messo in una situazione decisamente imprevedibile la città di New York. Siamo partiti con negli occhi le note immagini dei sub che, nella metropolitana, nuotavano all’altezza della scritta “Times Square” (ribattezzata, nei giorni successivi, “Times Scare”). A farci capire che non era tutto a posto, se mai avessimo avuto dei dubbi, ci ha del resto pensato l’uomo nero incappucciato che, prese le sembianze di un tassista, ci ha chiesto 120 dollari per portarci in hotel, a Brooklyn: «Gas is too expensive these days!». In termini strettamente monetari non lo era, abbiamo scoperto ben presto, almeno non agli occhi di noi due poveri italiani, ma certo lo era considerando invece le code infinite che, per fare benzina, anche il nostro si era certamente sobbarcato. E il tempo, si sa, è in effetti denaro. Di code ne abbiamo viste molte, anche con i nostri occhi, già lungo il tragitto in taxi. Code infinite per fare benzina dentro stazioni pattugliate dalla polizia – e a volte isolate col nastro giallo – per evitare le scene feroci cui comunque abbiamo assistito. «Gas is too expensive these days!», continuava a ripetere tra sé il tassista, quasi fosse un mantra. Tanto che, lungo il percorso, ho più volte pensato che avrebbe finito col chiederci una quantità di dollari ancora maggiore. Di tanto in tanto, però, il mantra si interrompeva, per lasciare spazio allo shut up! rivolto alla signora del navigatore: sì, perché lui ha sbagliato mille volte strada e il nostro viaggio è durato quanto il volo Detroit-nyc.
Questo lungo girovagare ci ha però consentito di ammirare Manhattan, in quelle ore post-tempesta, in tutto il suo splendore, sì, ma soprattutto in tutta la sua potente capacità di renderci inquieti, per via dei numerosi isolati ancora immersi nell’oscurità causata dal blackout. Un’oscurità resa ancora più sinistra dai lampeggianti delle pattuglie di presidio e dagli scarichi bianchi di vapore che partivano dal basso. Davvero uno scenario post-apocalittico.
Downtown, metropolitana chiusa, NYC, venerdì 2 novembre 2012
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Un’ora e mezza di taxi, e ancora non c’era traccia del nostro albergo. Il tassista continuava a sbagliare strada, Michele ormai dormiva e anche a noi si chiudevano gli occhi. Ci svegliava soltanto il gps con le sue inutili indicazioni. E poi, come in un assurdo sogno, abbiamo attraversato Williamsburg: «Jews, Jews, and more Jews!», come recita l’app (potete controllare) per iPhone. Ebrei hassidici, per la precisione, e dunque l’impatto visivo-simbolico sarebbe stato già potente di suo, anche senza il nostro quasi delirio da sfinimento fisico e mentale. Il tassista non sembrava adorarli e, infatti, la prima cosa che mi ha chiesto prima di caricarci è stata: «Sei ebreo?». Strano destino il mio: evidentemente devo avere sangue semita, se molti mi pensano ebreo e se a Milano per strada mi si rivolgono in arabo. Infine, per fortuna, l’albergo ci è apparso in tutta la sua normalità, e sganciati i 120 dollari (dopo un’ultima poco convinta trattativa al ribasso) ci siamo sistemati nella nostra camera.
Con nostra grande sorpresa, però, siamo stati svegliati dopo tre ore da Michele, e ci siamo scoperti privi di sonno, complice forse l’eccitazione e la voglia di aggredire New York in quei giorni così tanto importanti: ansiosi di vedere e vedere, e ancora vedere che cos’era successo, ma soprattutto che cosa ancora doveva accadere. Così, alle sette e poco più, eravamo, di nuovo, per strada. Era sabato mattina. Ci trovavamo all’estremo limite di Brooklyn, al capolinea della linea tre: New Lots Avenue. Un bel quartiere, in realtà, fatto proprio così come mi aspettavo dovesse essere un quartiere non ce...