La donna color melanzana
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Il filo della storia è la casualità degli incontri, l'inconciliabilità di culture, di improbabilità di successo nel ricomciare da capo.
Il giornalista italoamericano Timothy Kogan, vittima di un misterioso ferimento, decide di trascorrere un anno sabbatico in Italia. "Da New York, l'avamposto più avanzato del globo, alle calli e ai canali umidi di una Venezia immobile, agli 'odori dolciastri della cipolla in cottura' di Eboli, alle impervie strade tra le montagne del Cilento, alle taverne profumate di ouzo di un remoto villaggio dell'isola greca Karpathos, le vite di Timothy e Xenia, una pasionaria anarcoide di origine greca, si incrociano in un rapporto breve divampato nel 'luogo fuori dal mondo' che è Venezia. I destini dei due protagonisti si trovano al bivio di strade divergenti: una verso la circolare iterazione del presente, l'altra in direzione di una rinascita. Timothy torna così a confondersi 'nella promiscuità di New York', Xenia non riesce a 'dipanare la matassa che era diventato il suo cervello' e si disperde in dissolvenza nel mare della sua irrisolutezza." Il filo della storia è la casualità degli incontri, l'inconciliabilità di culture, di improbabilità di successo nel ricomciare da capo.
Il giornalista italoamericano Timothy Kogan, vittima di un misterioso ferimento, decide di trascorrere un anno sabbatico in Italia. "Da New York, l'avamposto più avanzato del globo, alle calli e ai canali umidi di una Venezia immobile, agli 'odori dolciastri della cipolla in cottura' di Eboli, alle impervie strade tra le montagne del Cilento, alle taverne profumate di ouzo di un remoto villaggio dell'isola greca Karpathos, le vite di Timothy e Xenia, una pasionaria anarcoide di origine greca, si incrociano in un rapporto breve divampato nel 'luogo fuori dal mondo' che è Venezia. I destini dei due protagonisti si trovano al bivio di strade divergenti: una verso la circolare iterazione del presente, l'altra in direzione di una rinascita. Timothy torna così a confondersi 'nella promiscuità di New York', Xenia non riesce a 'dipanare la matassa che era diventato il suo cervello' e si disperde in dissolvenza nel mare della sua irrisolutezza." L'autore, Rosario Bonavoglia, economista dello sviluppo e dei paesi asiatici, è vissutto oltre un ventennio in Asia e negli Stati Uniti. Executive Director per l'Italia nei Board della Banca Asiatica di Sviluppo a Manila e della Banca Mondiale a Washington, ha insegnato nelle Università Ca' Foscari di Venezia e Tor Vergata di Roma. è autore di libri di economia con Franco Angeli, il Mulino, Marsilio e Nihon Keizai Hyorinsha, in lingua giapponese.
Scrittore, fotografo e musicista ha pubblicato libri di fotografia con Mockingirb&Maiden Lane Press, Rizzoli, Rizzoli Universal, Silvana Editoriale

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L’autore
RosarioBonavoglia.tif

Rosario Bonavoglia, economista dello sviluppo e dei paesi asiatici, è vissutto oltre un ventennio in Asia e negli Stati Uniti. Executive Director per l’Italia nei Board della Banca Asiatica di Sviluppo a Manila e della Banca Mondiale a Washington, ha insegnato nelle Università Ca’ Foscari di Venezia e Tor Vergata di Roma. è autore di libri di economia con Franco Angeli, il Mulino, Marsilio e Nihon Keizai Hyorinsha, in lingua giapponese.
Scrittore, fotografo e musicista ha pubblicato libri di fotografia con Mockingirb&Maiden Lane Press, Rizzoli, Rizzoli Universal, Silvana Editoriale e una raccolta di poesie, Le foglie di coca, con Silvana Editoriale.
Fuggire… raccogliere lembi
di vita e annodarli cercando
ragione che indusse il guado
a sfidare… e capire, ogni varco
sbarrato, ch’è in cerchio il percorso
I
1
Capita che una mattina ci si svegli con dei cattivi pensieri. Per Timothy Kogan era proprio una di quelle. Dal vetro smerigliato della finestra del bagno filtrava una tenue luce grigia, il canale meteo aveva annunciato freddo e nevischio. Cupi presagi e cattivo tempo vanno spesso a braccetto.
Gli inizi di novembre erano sempre così. Passata l’estate indiana, il rosso e l’oro del foliage a Central Park avevano lasciato posto a scheletri che si specchiavano contorti nelle acque degli stagni. Lugubri silhouette, come quelle dei ciclisti e dei pattinatori che sfrecciavano veloci sull’asfalto bagnato stretti nelle loro calzamaglie nere.
Si vestì con più indolenza del solito. La scelta della cravatta fu un’operazione penosa, nessuna che gli sembrasse adatta all’umore della giornata. Già con l’impermeabile, rimase per qualche minuto fermo nell’ingresso, in bilico tra la necessità di affrontare il peso degli impegni e il desiderio di restare in casa e riprendere il sonno sprofondato nel divano del salotto. Aspettare lì il rumore rassicurante della Yale di Judy nella serratura e sentire i suoi movimenti mentre si affaccendava con detersivi e aspirapolvere.
Decise finalmente di uscire. Prima, però, controllò la segreteria telefonica che non ascoltava da un paio di giorni. Venne fuori la voce di Annie, la segretaria, per ricordare gli impegni della mattina. Gli altri glieli avrebbe riferiti al suo arrivo in redazione.
Seguì poi un lungo monologo di Beatriz, non diverso da quelli registrati a intervalli quindicinali dal mese di agosto, quando lo aveva lasciato per “volare con le mie proprie ali” alla ricerca delle certezze “che tu non vuoi darmi”. Perché invidiava le amiche sposate alle routine di uova e bacon la mattina e spaghetti la sera, col codicillo delle veloci scopate del venerdì e le escursioni domenicali nei centri commerciali in periferia con sosta d’obbligo a Pizza Hut.
Il rischio del “libero volo” era - lui temeva - che finisse con un atterraggio su una piattaforma di materassi, l’habitat nel quale Bea, come lui la chiamava, poteva vantare una sicura dimestichezza, il suo atout, la sua carta vincente. La perizia e la passionalità che lo avevano ammaliato insieme alla sua grazia naturale, un mix nel quale si era trovato subito a suo agio come in una bolla d’aria priva di turbative-doveri-impegni-contratti, di “questo in cambio di quello”. Chiuso con lei in una sfera di vetro con la neve artificiale che cade solo quando la smuovi.
In portineria trovò di turno Caspar, un portoricano assunto da poco, che corse a fermare un taxi tenendogli la portiera aperta. Lo ringraziò con un sorriso e un gesto della mano, mentre cercava a fatica di mettersi comodo sul sedile mezzo sfondato dell’auto.
«500 Park, per favore. È all’angolo con la 59a
«Ok, sir», rispose l’autista dondolando la testa.
Pakistano o indiano, pensò, premendo una mano sul naso per non farsi sopraffare dall’odore intenso di curry che già a quell’ora rendeva l’aria dell’abitacolo pressoché irrespirabile.
Dieci minuti ed erano già sotto l’edificio della redazione.
Il taxi accostò sopra una profonda pozzanghera nerastra. Timothy non protestò, non sarebbe servito a nulla se non a suscitare reazioni in dialetto del Punjab. Pagò e affondò le scarpe nella melma di fango e neve, ancora stordito dai miasmi di curry che lo avevano avvolto durante tutto il breve tragitto. Contrariato, si avviò veloce verso l’entrata. Non badò alla figura che gli si affiancava né sentì la lama entrare nel suo fianco. Vide solo quell’omone di Jerry, il portiere gallonato, alzare le braccia, la bocca aperta in un urlo senza suono da sembrare una carpa in un acquario.
Rispose con fatica, più per zittire gli squilli del telefono che per voglia di parlare. L’infermiera aveva appena cambiato la medicazione e lui era stanco per la notte passata senza dormire, nonostante i sedativi che gli avevano somministrato.
«Tim, mio caro…», riconobbe la voce di Beatriz e si sentì sollevato. «Sono in ufficio, non preoccuparti Posso parlare, è in corso una riunione ma sono riuscita a evitarla. Ho detto che non mi sentivo bene, così da poterti chiamare con calma. Fatti forza… perché stai meglio, vero? Un po’ di pazienza e tornerai perfetto, i medici hanno fatto sicuramente un buon lavoro… con quello che dovrà pagare la tua assicurazione! Sai, mi andrebbe tanto di infilarmi sotto quelle lenzuola e godermi un po’ di riposo al tuo fianco, lontana da telefono, voli da organizzare, petulanza dei clienti, il boss con le mani sempre pronte a sfiorarmi il sedere!»
Beatriz cinguettava in falsetto con l’intenzione di distrarlo. In realtà era preoccupata non meno di lui, l’incidente l’aveva lasciata con più di un dubbio che si fosse veramente trattato dell’impresa di un folle, uno dei soliti che scorrazzano in quel “covo di matti” che è Manhattan.
Timothy era un giornalista noto e l’aggressione poteva essere stata un segnale. Da parte di chi? E per cosa? Non erano domande alle quali potesse dare delle risposte. La sua attenzione era presa dal quotidiano problema di tirare avanti. In una parola, farcela. Con i prezzi sempre in aumento, le tasse da pagare, le rate dell’auto, il mutuo della casa, lo scoperto della carta di credito e i piccoli debiti fatti qua e là, ogni fine mese era un firmare assegni come una minibanca centrale.
Tra le varie illazioni, avanzate da qualche cronista, c’era stato un accenno del tutto fantasioso all’appartenenza del collega giornalista a due comunità, italoamericana da parte materna e irlandese da quella paterna, entrambe con parecchi peccati sulla coscienza e qualche conto in sospeso. Faide e chissà quant’altro, trascinate dietro dai paesi d’origine e intrecciate con fatti e misfatti compiuti nella loro nuova terra. Se non quello, cosa? Era una delle supposizioni lette da Beatriz nei reportage che avevano riempito i giornali per un paio di giorni. In realtà, sapeva poco della vita di Tim.
«Ho parlato a Steven di quello che ti è capitato. Ne è dispiaciuto, lui sa quanto io ti voglia ancora bene.»
«Steven? Mi ricordi chi è?»
«Steven, Steve Boyler, te ne ho parlato, non fingere di non ricordare!»
«Ah, Steve… meno me ne parli e meglio è! Da quando mi hai lasciato, sembra che tutta la mia vita vada a rotoli! E non dirmi che ti ho costretto ad andare via. Volevi che prendessi un impegno formale della serie “vuoi sposarmi?” quando sapevi bene che non ero e non sono pronto a un passo del genere. Non solo perché sono sempre in giro. Cosa avrei dovuto fare per trattenerti? Dimmi! Impormi una religione estranea ai miei convincimenti? Credere che famiglia sia sinonimo di felicità? Non ti bastavano le mie attenzioni, le mie premure, il nostro modo di prendere la vita? Cosa credi che significasse tutto questo per me, se non amore?»
«Non arrabbiarti, Tim. Non sforzarti, potrebbe farti male. Perché fingi di non capire? Ho bisogno di certezze e, perché no, di sostegno anche economico, che lì a New York, purtroppo, non sono riuscita a trovare. E comunque, sai bene che da te non ho mai preteso niente!»
Era la prima volta che Beatriz sputava il rospo. Fino ad allora se n’era vergognata, ma non poteva consentire che lui continuasse a pensare che ad averla allontanata fosse stata la mancanza di amore. S’era trattato di una questione di sicurezza, puramente e semplicemente. Denaro, se si vuole. Aveva avuto timore di offenderlo mettendo a nudo il problema e aveva preferito dileguarsi. Senza però tenere conto dell’effetto che la sua decisione avrebbe provocato in un momento in cui lui stava mettendo in discussione tutto: la professione, le relazioni sociali, le amicizie, il suo stesso modo di essere. Effetto di un passaggio generazionale? Lei, non ancora trentenne e alle prese con concreti problemi di sussistenza, non poteva saperlo. Era lontana dall’immaginare quali potessero essere le angosce di Tim. Che erano il trovarsi ad avere superato le asperità della sua personale scalata sociale per poi rendersi conto che quella scala aveva un numero infinito di pioli.
Il sospetto che nella fuga di Beatriz a Washington c’entrasse un altro uomo ancora lo torturava. E lei ...

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