Sentieri strategici
Smart has the plans, stupid has the stories. Be stupid.
Diesel
“Chi è sveglio ha programmi da inseguire, chi è stupido ha storie da raccontare. Meglio essere stupidi”. L’ultimo approdo di Diesel, affermato marchio italiano, felicemente presente in svariati mercati internazionali, sostiene posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle che lo standard corrente dell’advertising circolante in Italia offre al pubblico, qualunque sia la clusterizzazione presa in esame. L’agire razionale che weberianamente prevede congruità dell’azione orientata a un fine, viene smantellato; la funzionalità è scavalcata, la performance ridotta a cosa di poco conto e scarso interesse. Gli abitatori della blogsfera hanno colto immediatamente le implicazioni di un paradosso che mostra tanta inusitata potenza. È da notare che la costruzione di una finta semplicità, pur essendo assolutamente originale non cozza mai con l’identità di fondo che caratterizza questo brand.
Sentiamo una delle tante voci estrapolate dalle pluralità di voci dialoganti in rete:
Stupido è l’alternativa liberatoria all’essere noioso da morire (i cosiddetti “intelligenti”). Stupido è la stessa parola che usa la gente per respingere tutto quello che è originale e genuino. Stupido è avere il coraggio di rischiare e credere nel nuovo e nell’innovativo, anche se pericoloso. Stupido è passione, è l’amore controverso, è indossare la cosa sbagliata nel posto giusto, scambiandosi i ruoli per provare qualcosa di nuovo, vuole dire fallire, provare di nuovo… e fallire ancora di più! Diesel è stupido e si identifica completamente con questo concetto, vivendolo come l’espressione più chiara dei valori per cui il brand è nato, e noto.
Ma rimettiamo il discorso sulla strategia ricollocandolo su binari più ortodossi che rincorrono vecchie località rimaste ancora poco note, forse superate prima ancora di essere state comprese. D’altra parte la conquista della normalità è ciò che fa difetto alla comunicazione della marca nella pratica più diffusa.
La strategia di comunicazione è per la costruzione della marca, per la sua vita, per la sua immagine, un punto nodale. Fissa un itinerario ideale che collega la situazione di partenza con degli obiettivi posti più a lunga scadenza (spesso quantificabile anche in mesi o anni). “L’uso del termine strategia è giustificato dal fatto che le pratiche forniscono una risposta adeguata alle congiunture.”
E alla linea strategica elaborata affida la rilettura della propria identità, del proprio posizionamento, della promessa attraverso la quale intende qualificarsi. A una campagna pubblicitaria (possibilmente in sinergia con altre iniziative) capace di “inventare” all’interno dei binari strategici tracciati, si affidano le chance del discorso di marca. La capacità di mantenersi intimamente coerente con i punti che la qualificano è il primo compito di una buona strategia. La definizione che de Certeau fornisce inquadra la strategia in termini di rapporti di forza che maturano e si sviluppano all’interno di un ambiente e che con quell’ambiente interagiscono:
Per strategia intendo il calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un ambiente. Essa presuppone un luogo che può essere circoscritto come proprio e fungere dunque da base a una gestione dei suoi rapporti con un’esteriorità distinta.
In metafora, la strategia di comunicazione, che in concreto fa da presupposto all’immagine di marca, si conveniva in un seminario Publicis, è un sistema organizzato di azioni che viene predisposto al fine di raggiungere un obiettivo. E dove c’è qualcosa da conquistare si scatena la competizione. In un contesto competitivo ogni attore mette in atto il proprio sistema di mosse e contromosse confidando nella loro efficacia. Possiamo utilizzare l’indiano che caccia i bisonti come metafora del progetto idealizzato di marketing e comunicazione. L’indiano individua le risorse su cui può contare: conosce il territorio. Seleziona gli attrezzi a disposizione per scegliere le armi più adatte. Si crea un piano (una gerarchia di obiettivi intermedi). Ha una vision del possibile svolgimento dei fatti. Si crea delle regole di comportamento per restare lucido e saper decidere con rapidità. Il planner segue i segnali che deve interpretare e soppesare. Per fare buone strategie bisogna essere in grado sia di cacciare le idee, sia di interpretare i segnali del mercato, i suoi punti di forza e le sue debolezze. Con una serie di varianti poco apprezzabili, l’iter metodologico per la messa a punto di una strategia, per come si concepisce all’interno delle agenzie di pubblicità, è quello appena descritto. E con buona pace del cacciatore, non credo che tutto ciò sia sufficiente per centrare il bisonte.
Nell’imminenza di una nuova comunicazione, il quadrilatero che sorregge la marca si riattiva e dunque i generatori della marca (l’azienda committente) e gli interpreti della marca (l’agenzia pubblicitaria coinvolta) cominciano a lavorare di concerto; il contesto che accoglierà la comunicazione è oggetto d’analisi, mentre i destinatari della comunicazione della marca sono per il momento inattivi (dato che la nuova campagna non è ancora on air).
Tutte le critiche, le difformità e gli elementi di debolezza culturale della comunicazione made in Italy trovano puntuale conferma nella gestione delle questioni direttamente legate alla creatività, agli sbocchi esecutivi e al loro confronto con l’impostazione strategica concordata. Il “mi piace/non mi piace”, diritto soggettivo inalienabile, detto a commento della presentazione da parte dell’agenzia di pubblicità, di una sceneggiatura, di uno story-board (sequenza di schizzi che illustrano lo svolgimento di un commercial) o di un lay-out (bozzetto esecutivo per stampa o affissione) diventa prioritario e vincolante ai fini della scelta tra le diverse ipotesi di campagna presentate. L’arbitrio personale, spesso conseguenza della posizione occupata nell’organigramma aziendale, diventa il criterio di scelta, l’unico. Una marca dirà a un pubblico, composto sovente da qualche milione di persone, certe cose e non altre perché a qualcuno che conta, a suo tempo quelle parole, quei disegni o quelle foto, magari, en passant, erano piaciuti. Ecco perché ho tanto insistito, nella prima parte di questo lavoro, sulla casualità di tanti accadimenti che riguardano la marca. Una serie di ragionamenti fondati, logiche di mercato, analisi dei competitor, elaborazione di guide line conseguenti al posizionamento, vengono spazzati via dal gioco istintivo e certamente ingiusto del “mi piace/non mi piace”. Anche alcuni degli strumenti che negli anni gli studiosi di marketing e comunicazione hanno messo a punto e aggiornato efficacemente alla luce dei dibattiti suscitati e dei confronti fra esperti che ne sono scaturiti, vengono sacrificati sull’altare dell’arbitrio. L’analisi SWOT, l’FCB Grid, l’esagono di Kapferer, tanto per citare alcuni tra i modelli più conosciuti e frequentati, vengono ignorati.
La debacle culturale in materia di comunicazione non è mai imputabile a uno solo degli attori coinvolti nel gioco complesso della comunicazione della marca, pro quota nessuno tra quelli che rientrano all’interno del quadrilatero della marca, è esente da responsabilità. Le stesse agenzie di pubblicità, quando insistono (a volte ai limiti della testardaggine) per applicare in chiave strategica prima e creativa successivamente le l...