Etica, comunicazione
e responsabilitĂ
di Stefano Rolando
Il mondo dellâinformazione e della comunicazione, in ogni latitudine, si interroga sulla crescita dei poteri dei media e sulla crisi di responsabilitĂ dei soggetti professionali che vi operano. Crisi di qualitĂ . Crisi di libertĂ . Crisi di complessitĂ . Alla ricerca di nuovi equilibri e di soluzioni alle crisi. Un dibattito politico, culturale, giuridico e professionale. Su questa materia ci si sente per lo piĂš dalla parte di chi tenta solo qualche riflessione inquieta e incerta. Nessuna delle analisi che fanno seguito può essere identificata come un modello. Una semplice testimonianza, piuttosto. Schegge di un dibattito in cui siamo piĂš coinvolti che giudici.
Chi comunica oggi
Innanzi tutto câè da porsi il problema di chi sia il comunicatore oggi, nella societĂ italiana, sia che svolga attivitĂ giornalistica o pubblicitaria o di divulgazione educativa. Ovvero quale sia il profilo della sua identitĂ e delle sue motivazioni, che nascono in un complesso intreccio con molti e diversi fattori: la creativitĂ ; la riconoscibilitĂ (della firma, del profilo creativo, della capacitĂ di esercitare influenza); il potere; il successo; la pubblica utilitĂ ; il personale arricchimento; il proprio apprendimento; lâesercizio di un certo profilo pedagogico; la politicitĂ ; il rapporto con lo sviluppo del sistema economico; la gestione di uno strumento di giustizia e di libertĂ ; il concorso ad uno schema di conflittualitĂ e di concorrenza; il concorso ad unâopera di solidarietĂ .
Una gamma di identificazioni che esprimono valori individuali (anche estremamente individuali) e valori sociali (anche estremamente sociali).
Per essere chiari, anche dal punto di vista di un operatore pubblico, non è per nulla detto che lâetica sia riposta tutta nella sfera sociale di questi fattori che formano in concreto lâidentitĂ del comunicatore. Ognuno di questi fattori, quelli sociali e quelli individuali, contiene un suo quoziente etico.
Ognuno di questi fattori contiene un suo quoziente cinico.
Quello che è certo è che contano meno gli equilibri tra appartenenze e valori, come hanno scritto, tra gli altri, Francesco Alberoni e Salvatore Veca in un recente saggio. Ovvero quelle condizioni per cui scelte di campo e di schieramento (destra-sinistra, laici-cattolici, rivoluzionari-conservatori, apocalittici-integrati), in rapporto a culture talvolta della magnificazione o dellâinvettiva, attribuivano o requisivano il carattere âeticoâ. Usiamo qui la parola âeticaâ che ci obbliga a sostare su una categoria filosofica. Quella parte della filosofia, cioè, che si occupa del problema morale, ossia del comportamento dellâuomo in relazione ai fini, ai mezzi, ai moventi. O, ancora, in una semplificazione originaria, aristotelica, lo studio della condotta umana e i criteri in base a cui si giudicano comportamenti e scelte.
E quindi unâetica che può appartenere a diverse visuali: edonistica, utilitaristica, cristiana, protestante, eccetera. Tema gigantesco, che dai classici greci a SantâAgostino e a San Tommaso, da Dante a Bacone a Kant, da Vico a Marx, da Nietzsche a quasi tutto il Novecento â fino a John Rawls e alla sua Teoria della giustizia o ai contributi di Habermas â è una dominante del pensiero e della dottrina sul dialogo sociale.
La relazione tra etica e deontologia
Ma nel nostro dibattito forse si può anche accogliere come pertinente lo spazio di relazione tra etica e deontologia, ovvero il problema del modello dei comportamenti che un individuo o un gruppo di individui segue nelle proprie azioni. Se non bastano piÚ le appartenenze e se si deve ragionare sui casi e sulle esperienze, si scopre che il bene e il male non sono dunque facilmente etichettabili pregiudizialmente, cosÏ da comporre categorie di comportamenti sempre accettabili o sempre inaccettabili.
Riguardo allâinformazione, questo manicheismo si è piĂš volte riproposto negli ultimi decenni, complici mode politiche e il bisogno per molti di vivere piuttosto attraverso lâesistenza di nemici. CosĂŹ, in questi anni novanta, si possono cominciare a vedere pragmaticamente alcuni dati oggettivi. E soprattutto il fatto di una maggiore centralitĂ delle condizioni individuali (che non vuol dire âsolitarieâ). Lo stesso DâAlembert, scrivendo del rapporto tra intellettuali e potenti a metĂ del Settecento, osservava che non deve sorprendere lâattrazione, ma si corre il rischio della âmiseria dellâamor proprioâ (un valore quanto mai personale).
Innanzi tutto â e ciò vale per giornalisti e per pubblicitari, per professionisti privati e per operatori pubblici â va approfondito il rapporto reale con le ragioni della committenza.
Sia agendo nellâarea della comunicazione di mercato, quella che presuppone un prodotto comprato o venduto, dunque soggetto alla legge della domanda e dellâofferta, sia agendo nellâarea della comunicazione di pubblico interesse, dove prevale la logica di servizio, è evidente che è comune il problema della ricerca di un punto di equilibrio tra prestazione e deontologia. Anche qui è bene dire a chiare lettere che non pare vero che, di per sĂŠ, la collocazione della prestazione nellâarea pubblica o comunque di servizio renda acquisito il rispetto deontologico o, in ogni caso, consenta di pensare che in tale prestazione sia radicato un maggior quoziente deontologico rispetto ad unâattivitĂ esercitata nelle condizioni proprie del mercato. Il contesto professionale certamente agevola, ma non produce automatismi etici.
Nel mercato vi può essere unâetica degli affari che rispetta diritti e libertĂ . Nel settore pubblico vi può essere unâetica del servizio che equilibra distorsioni e soddisfa bisogni. Ma in entrambi i campi può anche avvenire esattamente il contrario. Abbiamo visto, in casi concreti riguardanti entrambi i fronti, che ciascun profilo professionale presenta soluzioni deontologicamente articolate, spesso contraddittorie, qualche volta drammaticamente antinomiche. Ă quasi scontato osservare che il pubblicitario, nel comporre un punto di equilibrio creativo e propositivo, tra condizioni di veritĂ , oppure di lusinga, oppure di proposta onirica, oppure di contraffazione oppure ancora di ingannevolezza, può fare parecchie cose: può scegliere, può favorire o consentire scelte, può subire, può far finta di scegliere. Può anche, come è scritto nella Communio et progressio, âimporsi norme limitative atte ad impedire alla prassi commerciale di ledere la dignitĂ umana e di invilire la societĂ â. E non sempre il pubblicitario riesce a far fronte, eticamente, al rapporto con il prodotto, al rapporto con lâutenza e al rapporto con i valori veicolati. Vale a dire a tutti e tre questi livelli, insieme, con uguale serena coscienza di non essere co-autore di una frode intellettuale.
Il fattore D nel giornalismo
Specularmente, il giornalismo dovrĂ ricercare la qualitĂ del suo âfattore Dâ, appunto quello deontologico, nel rapporto, di tutti i giorni, tra informazione e spettacolarizzazione; trattando la singola notizia o il singolo evento e, piĂš in generale nella sua posizione culturale e professionale, si troverĂ in condizioni di piena libertĂ , oppure di occasionale o di costante disponibilitĂ alla manipolazione, persino di esposizione alla corruzione. La natura selettiva e competitiva del mercato dei media, naturalmente, incalza questa contraddizione e tiene oggi aperto lâinterrogativo etico al di lĂ degli stessi schieramenti politici. Al centro il problema dellâinformazione e della risonanza che il cardinale Carlo Maria Martini ha ricordato nella sua lettera pastorale sulla comunicazione. âLa comunicazione di massa â scrive lâArcivescovo di Milano â sembra avere da tempo abdicato alla funzione di collante sociale di primâordine per divenire cassa di risonanza, anzi di ampliamento di tutti i conflitti, anche di quelli interpersonali. Tende sempre di piĂš a suscitare sensazioni forti ed eccitanti per vendere meglio e piĂš dâaltri le informazioni. E la cosa diventa piĂš preoccupante quando la âcassa di risonanzaâ appare legata ad interessi forti e occultiâ. Non è estraneo lâoperatore lobbistico a questo processo. Il âfattore Dâ gioca non poco nella recente costruzione di immagine di questa professione, di per sĂŠ legittima ma, appunto, subordinata a scelte che possono essere orientate al corretto ampliamento della base informativa di giustificate ragioni di parte oppure ad una vera e propria organizzazione della manipolazione dellâopinione pubblica che, in Italia e non solo in Italia, è resa piĂš facile dalla carenza di regole importanti sulla trasparenza, sui sondaggi, sullâattivitĂ professionale, eccetera.
Il tema nel sistema pubblico
Fin qui le figure prevalenti nellâarea della comunicazione di mercato. Non cambia lâapproccio antinomico nellâarea di comunicazione pubblica. Il comunicatore pubblico può agire, sui contenuti, con una dimensione di servizio allâopinione pubblica o al servizio piuttosto del solo bisogno di esternazione del suo ente di appartenenza. Rispetto a tali opzioni può promuovere un profilo di iniziativa politicamente neutrale oppure sostanzialmente schierato. In questo tipo di rapporti vale poco (o molto relativamente) il primato, spesso magnificato dai professionisti, del fattore qualitativo, come se una buona realizzazione tecnica potesse cancellare la complessitĂ delle ragioni profonde di un messaggio. Pur riconoscendo al dibattito sulla qualitĂ â anzi, come va di moda dire in quasi tutto lâoccidente negli ultimi tempi, sulla âqualitĂ totaleâ â anche caratteri di sintonia con le ragioni dellâutenza e con il carattere etico delle prestazioni. Vero è, caso mai, che se le ragioni di immagine o di schieramento prevalgono sostanzialmente su quelle di servizio e di contributo allâinformazione, non câè niente di male a considerare quellâoperatore allâinterno della deontologia della sua istituzione di appartenenza, piĂš che allâinterno di un profilo deontologico proprio del sistema dellâinformazione. Se, per esempio, il comunicatore delle Forze Armate non riesce a trovare un accettabile equilibrio tra esigenze dellâistituzione e attese reali della gen...