Sei Note di Pentagramma
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Sei Note di Pentagramma

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Sei Note di Pentagramma

About this book

Diciotto racconti indipendenti accomunati da sensazioni, concezioni e analisi, riguardanti la società odierna. Il contemporaneo che contamina la realtà, infiltrazione di ritmi viziati nella serenità di personaggi che faticano a trovare linee guida per anelare ad una vita migliore, più umana.
Una lettura profonda dei flussi esistenziali, nuove interpretazioni di quello che è il solito tran tran quotidiano, opportunità che tramontano e lasciano smarriti.
Chance risorgono la mattina seguente in una sorta di confronto con se stessi e con ciò che ognuno di noi vive intimamente. La musica e l'amore per essa, lega ogni vicenda. In alcuni racconti le note di pentagramma sono elemento trainante e risolutivo della narrazione, in altre le si percepisce in modo più soffuso, in altre ancora fungono da colonna sonora, distaccata, ma presente. Un arcobaleno dalle sfumature, ora tenui ora forti, caratterizzazioni e contesti che esistono come tessuto connettivo del presente in cui ci concentriamo tutti, ognuno con i propri progetti, sogni, delusioni, vittorie, amarezze, speranze. Personaggi che giungono a realizzarsi grazie a percorsi alternativi, individui feriti a morte che sbarcano il lunario senza fiatare, caratteri che stentano in esistenze borderline rispetto alla centrifuga di conformismo che permea e costituisce l'incandescente altoforno in cui si dibatte la società dei nostri tempi.
Rabbia, rassegnazione, battaglie, voglia di indipendenza, crescita, crepuscolo… sono solo alcune delle percezioni contenute in questi racconti di vita.

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Information

Sub Rosa

Mood caldamente gelido. Nel locale in penombra trionfano note sofisticate, spaziali, di Oxygene, capolavoro brividoso di Jean Michel Jarre. Soffice ed elettrizzante lo spostamento d’aria. Elementi che vivono delle loro attività sottombelicali mettono in mostra la mercanzia impomatata e tempestata di lustrini, i muri trasudano umidità che scaturisce da una pista da ballo gremita. Colate di liquidi si nebulizzano sulle pareti scure e fanno sanguinare l’atmosfera. Non so che ci faccio lì, seduto a quel tavolino, vorrei essere a casa, a piangere. Invece no, Teo mi ha praticamente trascinato fuori stasera, sta cercando di scuotermi dal torpore disperato. Fisso la gente, vedo bianco, ho un cuore avariato che mi fa sentire ancora più avulso da quel contesto di festa. E io che cos’ho da esser felice… niente di niente! Fisicamente sto seduto al Long One, con la coscienza in una cantina, ottanta piani sottoterra, che olezza di ragnatele. Il mio amico alza il bicchiere di pochi centimetri dalla superficie del tavolo e con pudore lo avvicina al mio. I vetri s’incrociano con uno “strricckk” mimato e nascosto dal volume in sala. Teo si sporge e mi sussurra qualcosa all’orecchio, presumibilmente una battuta di spirito. Non riesco proprio a schiodarmi da quell’espressione serigrafata di dolore che mi sta scarabocchiata sulla faccia. Lui lo capisce e ci rimane un po’così, gira lo sguardo imbarazzato di mezzo metro tenendo il ritmo sul bordo del tavolo con gli indici delle sue mani nervose. Dentro me una tela vuota con alcuni schizzi di colore che mi tormentano, punte color fango che pian piano si allargano. Sono dieci giorni che non mangio, non dormo, non penso. O meglio, pensare penso, ma a senso unico, penso troppo e in modo errato, solo a lei … e nella mia testa trova posto, esclusivamente, quel terribile martedì. Dieci giorni d’inferno che mi hanno strappato il cuore e lo hanno gettato al di là della ferrovia. Sono un involucro vuotato completamente di ogni energia positiva, senza più un briciolo di dignità e voglia di fare. Questa volta credevo di aver trovato la donna della mia vita… gli indizi c’erano tutti… e invece eccomi qui a spolverare la sedia di una discoteca per non impazzire. Tutto andava benissimo, tutto girava a meraviglia. Avevamo fatto già piani per convivere nel suo appartamento, già spostato un po’ di roba in attesa di trasferire il resto. Tutto perfetto, tutto azzurro, tanto amore, una passione barbarica, invadente.
Appuntamento “Space Ace” all’insegna della musica che evoca altri pianeti e vite di nuove galassie, questa sera. “Tubular bells” di Mike Oldfield, Rockets, Orbital, Vangelis, Royksopp, partiture dei Kraftwerk scoppiano tutto intorno mentre a malapena le percepisco. Quanto vorrei che i temi musicali mi rapissero per recapitarmi direttamente nello spazio. Che mi frega di quello che potrebbe accadere. Ormai… non ho più interesse in nulla. Guardo nervosamente l’orologio e so che, anche stasera, lei non chiamerà. Controllo per le settantesima volta il display del cellulare, desolatamente in stand by. Pignoleggio sulla casella delle chiamate, nessuna non risposta, l’ultima è un numero privato che reca la data del 22 ottobre, probabilmente una di quegli assillanti venditori che spaccano le palle con il telemarketing per rifilarti pomodori in conserva, sondaggi, mobili o altre inutilità. Incomincio a sentirmi friggere dal di dentro, non ce la faccio più a fronteggiare quella parata di effimere sensazioni. Mi alzo mentre Teo mi guarda perplesso. Piazzo lì il gesto delle due dita che si avvicinano alla bocca, segno che ho bisogno di nicotina, lui, visto il volume in sala mi accompagna idealmente mostrandomi il pugnetto in segno di : “ok vai e su con la vita”, poi abbozza un indice che ruota, “ci vediamo dopo”. Faccio per sortire dalla porta principale ma una coda impressionante preme per entrare, a quel punto opto per lo stanzino dei fumatori che si intravede oltre la cassa. Entro circospetto in un ambiente buio pozzo, vagamente solleticato da una luce blu che non rischiara. A malapena trovo le sigarette in tasca e me ne accendo una, cerco d’ispezionare quella botola ma intuisco solo alcune persone alla mia destra che fumano e chiacchierano dei fatti loro. Mi muovo lento, mettendo le mani in avanti, ma la prudenza non basta per non farmi incocciare uno sgabello che cade rumorosamente sul mio piede facendomi un male pazzesco. Inveisco contro quella cosa che mi ha creato dolore, poi mi calmo subito. Nessuno di quelli lì dentro ha interrotto parola, come se non ci fossi. Meglio così. Mentre la botta si raffredda, intuisco che il tormento sta già passando e mi arrendo all’evidenza dei fatti: in questo periodo se qualcosa può andare male, di sicuro lo farà. Un diktat estrapolato pari pari dalla Legge di Murphy. Teoria aspra confermata dai fatti. Scalcio a piccoli tocchi il seggiolino fino a quando non lambisce qualcosa di fermo. Boccata fumosa, non riesco manco a vedere cosa mi sta di fronte. E in fondo che me ne fotte. Butto la cicca per terra ed esco impregnato di fumo come un salmone imbustato. Testa bassa di pensieri che lottano intensamente. Faccio per scendere le scale ma una fiumana umana mi appiccica contro il muro. Mi sporgo e intravedo qualcosa di interessante. Dopo un minuto sono già li, in tensione agonistica. Un flipper, un attimo di tregua tentatrice per i miei neuroni che stanno esplodendo. Inserisco un po’ di monete e parte la sarabanda; bello ‘sto gioco, quanto mi piace. E’ uno di quei passatempi che non mi annoia mai, mi ricorda quando andavo al bar del paese da bambino o con la famiglia mi recavo a trovare la nonna paterna la domenica. Pomeriggi interi attaccato a quelle manopole che mi divertivano come nemmeno i soldatini nel forte. Il gingillo non è di ultimissima generazione, per fortuna, ma uno di quelli che andavano negli anni novanta: display elettronico, tanti special accesi, rumori, lucine, e un doppio piano di gioco. Finalmente qualcosa che mi annulla. Una, due, quattro, cinque, sei partite, vado avanti e non me ne accorgo, fuso in un tutt’uno con quel dispensatore di sfoghi. Sto per lanciare l’ennesima pallina quando intravedo una mano a coprirmi la visuale. Mi giro, Teo sta lì in piedi, accanto a me.
«Ecco dov’eri finito, cominciavo a dubitare che fossi fuggito via! Come al solito eh, quando incontri un flipper ti estrani da tutto? Dai finisci la partita… poi, se ti va, … usciamo a fare due passi?».
Annuisco con la testa e riparto alla caccia dei fantasmi che popolano la casa infestata su quel pannello luminoso, e arrivano anche i Ghostbusters con tanto di sirena e musichetta. Raf di pelle marrone sulle spalle e siamo fuori all’aria gelida. Troppo freddo, si va in macchina. Il pellicciotto del mio giubbotto pare un surgelato, scosto la guancia per continuare ad esistere. Fumo una sigaretta che pare anticipare una bronchite imminente, polmoni che si ribellano facendomi tossire. Sto davvero fumando troppo ma almeno è una mia decisione rispetto a ciò che sto patendo e che non ho scelto deliberatamente. Il mio amico tira fuori la chiave dell’auto, poi con un gesto lascivo, messosi di profilo, quasi come un presentatore navigato da anni in tivù, cinguetta.
«Allora che mi dici di questa macchina spettacolare? Non hai fiatato all’andata… almeno ti sei accorto che ho cambiato automobile e non ho più quella Punto del cazzo che mi ha dato solo problemi ultimamente?».
Mi scuoto impercettibilmente e acuisco lo sguardo. Vedo una carabattola indecente.
«Beh, ma che è sta roba? Mica sarà nuova? Ha degli spigoli vivi che potrebbero uccidere pure da ferma…».
Lui ciondola la testa a destra e a sinistra poi innesta il turbo.
«Carlos, tu non hai mai capito un granché di macchine, questo è un autentico gioiello, lo inseguivo da anni e finalmente ci sono riuscito ad accaparrarmelo… posso dire di possedere una vera opera d’arte. Questa è una Trabant!!!!»
«Ahhh… e allora?»
«Sali che ti faccio vedere che cos’è ‘sto modello!!».
Apriamo le portiere quasi all’unisono e Teo salpa verso un’incognita.
«Ma lo sai Carlos che in Germania questo esemplare, insieme alla Porsche, è tra i più ricercati dai ladri? E’ una macchina storica, quasi introvabile…».
Non lo interrompo, oramai sarebbe impossibile stoppare quella cascata di parole, nessuna diga reggerebbe. E allora vengo informato che la Trabant è l’auto simbolo della vecchia Germania Est, che è nata nel 1957, che le sue caratteristiche non sono proprio modernissime ma eccellenti e possiede una carrozzeria plasticosa che contiene fibre di cotone che venivano usate per evitare di dover ricorrere all’acciaio. Prodotta solo in tre colori è ormai un monumento ad un mondo che non esiste più.
«… e pensa che oggi i fans di questa macchina organizzano raduni popolarissimi e assai frequentati, e i turisti che vanno in Germania possono solo noleggiarla con l’autista per fare un giro per le città!!».
Ascolto attento mentre liscio i guanti di pelle scamosciata, mi esce una mezza risatina: « Cazzo, un bel pezzo da museo ti sei accattato!!».
«Si, ma che bel pezzo», poi precipita in un silenzio sfocato di pochi attimi e si stacca dalla storia, «si ma dimmi di te… sono qui per ascoltarti, sfogati Carlos, sfogati, non tenere tutto dentro…».
Un ancora mi penetra tra le ossa e rimango ingessato. Un flash sordo mi fa chiudere istantaneamente l’epiglottide, poi mi volto a fatica e vedo sul suo viso una luce buona. E’ lì per me, vuole starmi vicino. Davvero sincero, non desidera sgusciare tra i fattacci miei. Qualcosa glielo devo. E allora, a malincuore, capisco in quel preciso istante che ho la necessità di schiudere il coperchio che mi opprime. Sorseggio cemento liquido per un minuto, sguardo fisso su un fontanella che getta acqua ad intermittenza, attorno al rubinetto stalattiti di ghiaccio scintillante.
Parto a marce basse, con un filo di voce che esce dalle budella, e sibilo il primo concetto con sforzo inenarrabile. Pelle d’oca sulla schiena, non per il freddo.
«Non ci ho capito molto di ciò che è accaduto, o meglio, non ci sto capendo proprio niente delle cose che mi stanno distruggendo. Il mio rapporto con Tiara sembrava ferreo ed inaffondabile invece… un martedì sera eravamo in pizzeria felici e sorridenti, poi puff!! Tutto è sparito, dalla notte alla mattina… pensa che dopo aver cenato, sdraiati sul divano di casa sua, mi abbracciava forte e mi diceva cose dolcissime: “Carlos, non posso più vivere senza di te, forse non ho mai conosciuto il vero amore prima di incontrarti… tu sei la mia rivincita contro la vita che mi ha regalato solo fiele e tristezze! Non mi lasciare mai!!” Beh… il mattino dopo mi sono ritrovato gettato in un baratro acuminato che mi flagellava dall’interno. Tutto quello che sembrava saldo, supportato da grande entusiasmo ed amore indissolubile, si è trasformato in poche misere parole. Prima si è negata per alcune volte interrompendo la comunicazione, poi mi ha risposto al telefono e con poche fredde espressioni, mi ha spinto verso una ghigliottina con la lama alzata:
“ Non so più se ti amo veramente, non so più chi sono, che cosa voglio… per favore ho bisogno di tempo per pensare… non mi cercare, mi farò viva io!!”.
Questo è il quadro con cui convivo da quasi due settimane… sono una larva… non credo di meritare una mazzata simile…».
Teo rimane statuario, ritrova la forza di agitare le corde vocali con un semiconsolatorio: « Beh, allora non è proprio tutto perduto… insomma, voglio dire, se ha bisogno di tempo, concedile tempo, sai come sono le donne no? Non forzare nulla… magari è solo una crisi passeggera. Si è fatta viva ultimamente?».
Stropicciandomi il cervello e forzando la poca voglia di rispondere: «Si mi ha chiamato dopo una settimana, come da sue condizioni precise… non sai quanto mi è mancata, non sai quante volte avrei voluto sentirla anche solo per un secondo o correre sotto casa sua … ma ho deciso di stare ai patti…».
«E che ti ha detto?»
«Sono rimasto scioccato… dapprima ho cercato di rimanere impassibile dialogando con serenità ma quando ha pronunciato certe assurdità ho perso le staffe. Sai che cosa ha avuto il coraggio di manifestarmi? Pazzesco … stento ancora a raccapezzarmi… Io, alla classica domanda “come stai?” ho lasciato da parte gli atteggiamenti da superuomo e ho ammesso di essere in condizioni disastrose: “ Tiara, non mangio da quando mi hai messo in aspettativa, non riesco a dormire, sono disperato… mi sono anche dato malato al lavoro, ho le mani che tremano… ”.
Insomma speravo almeno in un pò di comprensione, in un suo colpo di coda, in un gioioso invito a raggiungerla perché magari si era pentita, le mancavo come l’ossigeno… lei invece mi ha ucciso con due frasi quando le ho fatto la stessa domanda; steso, morto, dissolto».
Imbevuto di curiosità, «Cioè?».
Sospiro velato di quarzo, meno settanta dentro al cuore. «Mi ha detto placidamente che lei dormiva benissimo visto che negli ultimi tempi avevamo fatto orari nottambuli tanto ci piaceva fare l’amore senza mai staccarci …” sai, avevo proprio la necessità di riposarmi un pò dopo gli ultimi tour de force di sesso tra noi… poi ho pensato molto e non ti nascondo che mi tranquillizza mettermi a letto ed essere sola, senza torturarmi il cervello con congetture e domande sul futuro, sul presente … direi che sto meglio ma ho ancora bisogno di tempo per capire!!”. Mi ha stroncato ... credimi… stroncato di brutto».
«Mmhh... brutta storia Carlos, credo che tu debba rispettare il suo volere al momento… che hai intenzione di fare ora?».
Drogato di sconforto accenno ad un pugno sul vetro, mi fermo a pochissimi centimetri dalla superficie.
«Che faccio? Bravo Teo, bella domanda… che cazzo devo fare? Non so più nemmeno come agire, qualsiasi cosa tocchi in questo periodo si trasforma in immondizia schifosamente nauseabonda. Non so… non so … tu hai consigli per caso? Sono pronto ad ascoltare qualsiasi suggerimento… magari mi si schiarisce questa maledetta nebulosa… Merda, questo tipo di situazioni le ho sempre sentite raccontare dagli altri, e adesso in mezzo ci sono io, chi l’avrebbe mai lontanamente vagheggiato… ci mancava pure questa… ».
Mettendomi una mano sulla spalla, in segno di solidarietà maschile, mi conforta con pochi concetti esili.
«Intanto cerca di tornare ad una vita quasi normale, devi mangiare e dormire altrimenti crolli… mica vorrai cadermi in depressione? Torna a lavorare subito, vedrai quanto diventa utile per distogliere quel cappio di dolore che ti soffoca… ti ricordi come ero messo io quando Hela mi ha lasciato dopo undici mesi di matrimonio? Su cazzo, non mollare, mica è tutto perduto. Ora reagisci, comincia a pensare un pò a te stesso! Non da domani, da adesso!!».
Lo incalzo subito: «E con lei come devo fare?».
Guardandomi fisso: «Per ora lascia tutto così … questa separazione mica dipende da te… è lei che ha dei problemi… lascia che li risolva da sé. Non ti ha chiesto aiuto, ha bisogno di stare sola, è evidente Carlos. Forzare ora vorrebbe dire perderla per sempre».
«Si lo capisco, ma tu cerca di metterti nei miei panni, è terrificante essere impotente davanti ad una storia che va sfasciandosi e per la quale daresti almeno un rene per rimetterla in carreggiata… sono un cadavere… ma lo sai che se morissi adesso non mi fregherebbe niente? Un cazzo me ne fregherebbe…».
Cipiglioso, ribatte. «Come credi mi sia sentito quando mia moglie mi ha abbandonato, dopo nemmeno un anno di matrimonio, lasciandomi un biglietto in cucina appoggiato sulla lavastoviglie, scocciato ai lati perché lo notassi subito? E sopra mezza riga stampigliata in odio. “ Torno da mia madre, sono stufa di te e delle tue paranoie”. Credimi, forse sono il solo che può capirti bene… chi non vive sulla propria pellaccia certi drammi non potrà mai intendere fino in fondo. Ti prego, ascoltami, chiama a raccolta il carattere e reagisci, e cerca di uscire anche se non ne hai voglia, hai necessità di svagarti un minimo, con certe ossessioni martellanti si corre davvero il rischio di dare di testa… di impazzire».
Mise in moto e partì. Dopo dieci minuti di silenzio assoluto nei quali mi sembrava di udire il rumore del mio cervello impantanato in mille elucubrazioni, ci salutammo con una stretta di mano vigorosa, «Mi raccomando, ascoltami…» grugnì lui, e mentre stavo chiudendo la porta mi giunse l’eco distinto di un «ti chiamo domani...». Feci due passi in avanti, poi tre indietro e bussai al vetro, mentre apriva la portiera. Mi sorse uno spontaneo «Grazie per la serata… sei un amico… e per favore, voglio che la cosa rimanga tra di noi…».
Un pollice in alto mi rassicurò mentre si mischiava alla strada con quella baracca ambulante.
Entrato in casa mi scaldai, stropicciandomi le mani su gambe e schiena, in maniera forsennata, poi presi la bottiglia di scotch che stava sul mobiletto bar, in bella vista, e me ne feci tre golate generose. Accesi la televisione ma mi venne la nausea. Tutti si accapigliavano per stronzate varie mentre io sprofondavo da solo senza sapere, nemmeno bene, cosa fare. Portai a termine l’azione stoppata in precedenza, mollando un pugno rumoroso al muro che rispose tremando. Inveii contro tutto, mi dilungai in una filastrocca di parolacce e mi misi a piangere come un anatroccolo sperduto. Lunghi sospiri e scrosci bagnati mi solcavano l’anima screpolata. Poi spurgavano la mia iattura all’esterno con grosse lacrime che finivano il loro percorso sul colletto della camicia. Alle due del mattino mi guardai nello specchio del bagno e ci vidi me con trent’anni in più. Parevo un vecchio in attesa della pensione. Mi sbattei sul letto e girai tutta la notte da una parte all’altra. Mi rotolavo come uno schiavo incatenato, la mente affollata di cose da dire, cose da fare, azioni da intraprendere subito o idee cazzone che ti vengono di notte; solo al mattino capisci lo stupido non-sense di ciò che ti pareva geniale. Il cuore della notte continuerà per sempre a mietere vittime, ogni volta che le ore piccole si materializzano. I primi rumori del mattino, amplificati dal condominio, mi convinsero ad abbandonare il giaciglio, le prime luci dell’alba mi spinsero ad andare al lavoro. Dopo un impatto devastante con i colleghi che chiedevano delle mie condizioni di salute, spiegai che una brutta influenza, quella che falcidiava tutti, mi aveva sbattuto kappaò; la mia faccia spiegazzata e masticata dal destino era testimone credibilissimo. Uno spot a favore di antibiotici, con spremute di amore infranto, ben celate dal mio modo di fare gigionesco. Poi, superato quel momento e una crisi di disperazione subito dopo pranzo, la giornata trascorse con lentezza ma con pochi pensieri rispetto a come mi alienavo da solo. Tornai a casa e mi misi al computer giusto per gabbare la coscienza che sbatteva contro carta moschicida, assai appiccicosa. Cenai con un toast e carciofini sott’olio e alle otto e mezza arrivò la chiamata di Teo. Gli feci la cronaca della giornata e lui rimase in silenzio mentre annuiva dall’altra parte del filo.
Mi disse solo: «Bravo, vedo che hai seguito i miei consigli, ti sento meglio stasera, continua così e non invertire più la rotta… vuoi che venga lì da te?».
Gli risposi asciutto: «No grazie mille, sto cercando di affrontare i miei spettri stasera, e credo andrò a dormire presto, ho gli occhi che mi bruciano dal sonno. Ci sentiamo domani». In verità consumai una serata tremenda. Presi in mano il telefono cinque o sei volte, composi il numero di Tiara. Volevo solo sentire il suo inconfondibile ed ammaliante “pronto”, poi decisi di soprassede...

Table of contents

  1. Ringraziamenti
  2. Prefazione
  3. Girotondo dei Racconti
  4. Nella Gioia e Nel Dolore
  5. Honeytrap
  6. Vita Randagia
  7. Un Ruscello che Scorre
  8. Scarification - La Pelle …
  9. Capannelli Tumultuosi
  10. Epaminonda
  11. Balenottero D’Odio
  12. Amarcord
  13. Maledetto Night
  14. Yes Mistress. Ok
  15. Freedom Bat (Pipistrello di libertà)
  16. Stessa Spiaggia Stesso Mare
  17. Residence Gotha
  18. Sub Rosa
  19. Beh … Ufficio Centrale
  20. Lettera 99
  21. Piumini e Specchi Infranti