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Marchionnemente
Le firme del "Fatto" raccontano il tramonto della Fiat
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Marchionnemente
Le firme del "Fatto" raccontano il tramonto della Fiat
About this book
"Marchionnemente" è un neologismo che riassume la storia industriale più importante di questi anni: quella della Fiat, del sindacato, del declino economico di questo Paese. ll volume pubblicato da "il Fatto Quotidiano" raccoglie analisi inedite, i migliori reportage dei nostri inviati da Pomigliano, Termini Imerese e Mirafiori, gli editoriali più interessanti, le storie degli operai e delle stock option di Marchionne. Tutto il tramonto della Fiat in un libro inedito di 192 pagine. Con le vignette di Vauro, Natangelo e Fucecchi.
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Information
Storia di una guerra aziendale (e non solo)1 di Luca Telese
E poi, mentre parlo con Maria Epifania, operaia cassintegrata di Mirafiori, lei mi guarda negli occhi e, trattenendo un’onda di commozione nella voce, mi dice: «Mettilo, il mio nome, nella tua intervista. Scrivilo. Perché dopo anni in cui abbiamo abbassato sempre gli occhi, io oggi non voglio farlo più. Voglio entrare in fabbrica a testa alta. Sono una ragazza madre, ho un bambino a carico, spesso lavoro solo quattro giorni al mese. Vivo con 900 euro – mille quando va bene – e non ho nessuno che mi aiuti, se non i miei genitori. Però questa volta voglio dirlo perché voto “no” al referendum sul contratto Mirafiori. Voglio dirlo, che hanno raccontato un mare di balle su di noi. Voto “no” perché voglio difendere il mio lavoro, non perché voglio perderlo».
Eravamo alla vigilia del referendum più drammatico degli ultimi anni. Eravamo nel gennaio del 2011, un secolo fa. Perché io potessi intervistare Maria, a rate, avevo dovuto fare lo slalom fra i suoi turni di lavoro. Prima di trovare lei, avevo parlato con decine di operaie, tutte intenzionate a votare “no”. Ma quando avevo detto loro che l’intervista non sarebbe potuta che essere “in chiaro” (ovvero esplicitando il proprio nome e la propria identità), molte si erano tirate indietro. Non per vigliaccheria. Ma per paura, che è un’altra cosa.
Nel gennaio del 2011, il referendum nei reparti di Mirafiori era diventato il simbolo di un’intera battaglia, quella contro la flessibilità esasperata che la Fiat voleva imporre nei propri stabilimenti, con una serie di nuovi contratti, che cancellavano le tutele del contratto nazionale e limitavano enormemente il diritto alla rappresentanza. Non c’è andata leggera, l’azienda, con i suoi operai. E infatti alla vigilia del voto l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha detto: «Se vince il “no” ce ne andiamo da Torino».
In qualsiasi Paese del mondo, contro un ricatto di questo tipo sarebbero insorti anche i liberali. Da noi in Italia, invece, persino dirigenti della sinistra come l’allora sindaco di Torino Sergio Chiamparino avevano detto: «Marchionne ha avuto coraggio». Eccolo, il coraggio di Marchionne, davanti alla Porta 2 di Mirafiori. Eccolo negli occhi di una donna che mi dice: «Io l’intervista con te la posso pure fare. Ma siccome prima di questa intervista firmo una lettera di licenziamento, e solo dopo ne firmo una di assunzione, il mio nome non lo possiamo scrivere. Io lavoro da venticinque anni, vivo solo del mio stipendio, non posso permettermi di rischiare che dopo la lettera di licenziamento quella di assunzione non arrivi mai».
Ecco perché la voce di Maria, in quel gennaio, era diventata un simbolo, prima sulla carta stampata e poi in televisione, dopo la sua partecipazione ad Annozero, proprio la sera del voto. Ecco perché avevo deciso di fare cardine sulla sua vicenda per dare un senso a questo racconto, al lungo viaggio di questi anni, al racconto di una battaglia che è diventata un paradigma nazionale. Perché se cambiano i rapporti di forza alla Fiat cambiano anche – come vedremo – nella Confindustria. E dopo che sono cambiati dentro Confindustria cambiano anche nel governo. E se cambiano alla Fiat, dentro Confindustria e nel governo, cambiano in tutto il Paese, e per tutti noi. Se raccontiamo la parabola dell’azienda di Marchionne, dunque, la sua ritirata nella fortezza americana, e il suo tramonto italiano, è perché – mai come oggi – la Fiat è una metafora esatta di quello che sta accadendo al mondo del lavoro in Italia.
Questa è una storia di passioni, ma anche di merci. Ed è anche la storia di una persona, scelta per raccontarne tante altre. È la piccola grande storia di Maria Epifania, madre e cassintegrata, e di suo figlio Simone, che ha solo sei anni e già vuole salvarla dal suo destino. Ma questa è anche la storia di pistoni che fanno il giro del mondo, di sindacati e di referendum combattuti fino all’ultimo voto. Questa è una storia di simboli antichi e di nuovi leader che ancora riescono ad accendere i cuori. È la storia della più grande industria italiana e delle sue fabbriche che in Italia stanno chiudendo (anche se non si può dire), è la storia di venti miliardi di euro di investimenti che sono stati promessi ma non sono mai arrivati, e di patti solennemente sanciti che non sono stati rispettati.
Questa è la storia di un altro pezzo di Novecento che scompare con un gioco di prestigio e un abracadabra osceno, ed è pure una storia di Torino. È anche la storia di un celebre maglione a girocollo e del suo fortunato indossatore. E – ovviamente – è una storia di tante tute blu, la storia più importante dell’anno 2010. È la storia della Fiat nel tempo della crisi, e della lotta contro i diritti garantiti dal contratto nazionale, nel tempo del non lavoro.
Ma prima di raccontare ogni altro dettaglio, e prima di dire di Maria, di suo figlio e del suo coraggio, bisogna provare a raccontare anche la vicenda di quel benedetto pistone, nel tempo della globalizzazione. Il pistone del motore MultiVet. Un pistone che oggi è il cuore tecnologico di tutta una azienda. Il pistone che gira il mondo mentre gli operai restano fermi, che corre dove il lavoro costa meno: il “pistone viaggiatore”, appunto.
Il pistone viaggiatore
Così, per riuscire a dipanare per bene il filo di questa storia, per raccontarla nella carne e nel sangue, bisogna prima allontanarsi dalle cose umane e cambiare prospettiva narrativa: entrare nella perfezione dell’acciaio levigato e lucido e provare a farlo parlare, perché ha molto più da dire lui, dei comunicati d’azienda. Ecco il primo miracolo della filosofia marchionniana. Ci avevano appena finito di spiegare, nell’anno di grazia 2010, che lo stabilimento siciliano della Fiat di Termini Imerese doveva chiudere. E non per una scelta malvagia, no. Per una sorta di fatalità della storia. Perché era inevitabile. La vecchia Ypsilon, l’auto che fino al 2011 sarebbe stata prodotta in quella catena di montaggio (una delle macchine più riuscite e vendute sui mercati), ci avevano spiegato, aveva un sovraprezzo insostenibile per l’azienda: una maggiorazione di costo di ottocento euro a esemplare. E quelle Ypsilon costavano più di quanto avrebbero dovuto, aggiungevano, perché dopo essere state prodotte laggiù, in Sicilia, dovevano essere «trasportate in Italia» con grande aggravio di spesa per il viaggio dall’isola alla penisola. Per questo, molto prima della battaglia di Mirafiori, quando la Fiat aveva annunciato che quello stabilimento andava chiuso, quasi nessuno aveva protestato, con l’eccezione della Fiom. Quella di Termini Imerese, si diceva, era una fabbrica che era il prodotto di un’altra epoca, di un’industrializzazione assistita, nata male, figlia dei piani industriali costruiti con i sussidi dello Stato per dare lavoro al Sud.
Ma è sempre vero quello che ci raccontano quando devono tirare un tratto di penna su uno stabilimento e su un frammento di storia industriale? Quando le informazioni vengono smontate e frammentate, quasi nulla di quello che dovrebbe risultare chiaro lo è. E così tutti, a partire dall’opinione pubblica, finiscono con il dimenticare presto la vecchia propaganda, perché vengono investiti da quella nuova. E invece, a me, questa storia della Sicilia e del viaggio insostenibile della Ypsilon attraverso lo Stretto era rimasta impressa, e mi era ritornata in mente quando, solo un anno dopo quell’annuncio di chiusura, avevo letto – in mezzo a tanti dispacci di propaganda entusiasta – il percorso di un motore che la stessa Fiat reclamizzava. In questo caso, visto che bisognava lanciare un nuovo modello (messo in produzione riciclandone uno vecchio della Chrysler), era stata la stessa a Fiat a voler dare risalto all’unica vera novità di quella macchina, e cioè proprio alla piccola odissea globale del nostro pistone viaggiatore. Ecco perché, magnificando i nuovi motori della Fiat Freemont, era stato lo stesso ufficio stampa di Mirafiori a raccontarci di quel viaggio intorno al mondo.
Vale la pena di ripercorrerlo, questo tragitto. Quei pistoni lucenti, infatti, inseriti nel cuore d’acciaio dei loro bei motori diesel MultiVet, vengono prodotti nello stabilimento d’avanguardia Fiat di Pratola Serra, in provincia di Avellino. Poi, caricati sui camion, partono da lì per arrivare a Genova, dove vengono stivati nei container e imbarcati su grandi cargo. In nave traversano l’Atlantico e raggiungono il porto di Veracruz, in Messico. Lì vengono messi su altri camion e trasportati fino allo stabilimento Chrysler di Toluca. Fine del viaggio? Macché: a Toluca i motori con dentro i pistoni viaggiatori vengono impiantati su una carrozzeria montata con mano d’opera locale, che lì in Messico – visto che il mercato è globale, ma i diritti no – costa all’azienda solo dodici euro l’ora. Gli operai di Toluca montano i motori avellinesi sulla carrozzeria di una Dodge Journey, cioè di una macchina che è sul mercato dal 2006 (praticamente quasi al limite del tempo di vita media di un modello). I messicani, però, invece del logo con l’ariete dalle corna ritorte (quello che fa bella mostra sulla carrozzeria di tutte le Dodge dal 1930), in mezzo alla croce cromata oblunga della imponente calandra della Journey, ci montano il logo rosso della Fiat. Poi prendono questa Dodge Journey, con il logo rosso della Fiat, la dotano di un assetto, di uno sterzo e delle sospensioni Fiat, le impiantano il pistone viaggiatore di Pratola Serra nel cofano, e quindi la caricano di nuovo su dei camion. Di nuovo viaggiando su gomma la riportano a Veracruz, di nuovo la imbarcano su grandi container a bordo delle navi, di nuovo le fanno traversare l’Atlantico per farla sbarcare a Genova. E così, finalmente, la Dodge Journey del 2006 ha compiuto la sua metamorfosi ed è diventata la nuova Fiat Freemont del 2011, direttamente dal concessionario a casa vostra per la modica cifra lancio di 25.700 euro (24.900 nell’offerta del primo mese). Un prezzo meraviglioso, sia chiaro. Se andate a vedere sul sito della Dodge, scoprite che negli Stati Uniti la Journey senza il motore di Pratola Serra, e con il suo sterzo duro americano, costa 22.245 dollari, e per sessanta mesi non pagate un centesimo di interessi.
A noi, però, dopo questo lungo viaggio interessa capire due cose. La prima: perché il pistone viaggiatore fa il giro del pianeta fino a diventare una metafora. La seconda: se davvero questo viaggio è economicamente conveniente. E siccome tutti ci dicono di sì, e ci spiegano che il trasporto per mare, nei tempi moderni, premia le economie di scala e abbatte tutti i costi, il dubbio che anche la povera Ypsilon potesse viaggiare da Termini Imerese alla penisola, alla fine, ti viene.
Socialdemocratico per un abbaglio
Allora bisogna fare un passo indietro e raccontare qualcosa della storia della Fiat degli ultimi anni, che in fondo – dal punto di vista logico e imprenditoriale – è la storia di un paradosso: l’azienda, che dopo i primi passi della cura del primo Sergio Marchionne si era ripresa splendidamente, tra il 2009 e il 2010 ha cambiato improvvisamente rotta e subìto un piccolo terremoto. Marchionne, manager di origine abruzzese, cresciuto in Canada e svizzero d’adozione, era entrato alla Fiat nel 2003 ed era diventato amministratore delegato nel 2004. Con i suoi 4.782.400 euro di stipendio all’anno, è il quinto manager più pagato in Italia. Anzi: sarebbe il più pagato in Italia, ma siccome ha mantenuto la residenza in Svizzera, paga le tasse lì (dove le aliquote sono più basse), e quindi è il quinto manager più pagato dall’Italia (che, anche simbolicamente, è una cosa tutta diversa).
Eppure Marchionne quei soldi per lungo tempo se li era guadagnati: nel 2005 si era ritrovato a capo di un’azienda in crisi, distrutta, senza identità, con i creditori e le banche attaccati alla gola. Una società che aveva in cantiere (anche) dei buoni modelli ma che non credeva più in se stessa, e sfornava tanti prodotti senza identità e senza mercato. L’auto simbolo di questo pasticcio ha un nome: Stilo. Era una vettura progettata bene, con materiali di prim’ordine, ma aveva un piccolo difetto: un design orribile. Allora Marchionne prese i progettisti del centro stile e fece rigirare la macchina come un guanto, a tempo di record, per produrre un nuovo modello. Via la Stilo, che non si vende, e dentro – in soli diciannove mesi! – la Bravo, che ne è l’erede in tutto e per tutto, ma che finalmente ha anche una linea accattivante. Intorno alla Bravo ecco rifiorire un’intera gamma. C’era già la Grande Punto, ecco la nuova Cinquecento, fortemente voluta (e pensata) anche da Lapo Elkann, il più sregolato dei nipoti Agnelli. Intorno a questi modelli di successo, e alla certezza della nuova Panda, che si sarebbe dovuta chiamare Gingo (ma per fortuna la Renault aveva minacciato ricorso per l’assonanza ingannevole con la sua Twingo), l’azienda risorge.
Marchionne (in questo volume troverete pagine di Vittorio Malagutti sulla sua storia e sulla sua strategia finanziaria) sembrava il manager democratico che tutti aspettavano, inaugurò una politica di accordi con i sindacati, incassò gli elogi di tutti i dirigenti della sinistra radicale e non (Fausto Bertinotti compreso), disse che lui ai suoi operai ci teneva perché erano la sua ricchezza e a chi gli chiedeva se non fossero pagati troppo, ripeteva: «Il costo del lavoro non incide più dell’8 per cento sui prezzi».
Il problema, dunque, non sono i salari, ma la concertazione e la collaborazione per un obiettivo comune, che è il rilancio imprenditoriale. I sindacati così fanno la loro parte, favoriscono gli accordi che l’azienda richiede, contengono gli scioperi, accettano di fare straordinari.
Questa strategia pagò. Grazie all’amministratore italo-canadese, il titolo Fiat auto passò dai 4 euro del 2005 ai 23 euro del 2007: la misura tangibile di una resurrezione miracolosa, un trionfo. Questo “Sergio Marchionne uno”, un giorno fece una visita a sorpresa in uno stabilimento e addirittura si arrabbiò con il direttore, dicendo che gli operai andavano tutelati e che la mensa non era all’altezza. A Termini Imerese elogiò gli operai e promise: «Arriverà presto un nuovo modello». A Torino inaugurò asili aziendali. Piero Fassino lo promosse dicendo: «È un socialdemocratico». In poche parole, un idillio.
Dietro i numeri di Quattroruote
Maria Epifania abita a trenta chilometri da Torino, in un Comune che si chiama Volpiano. I suoi genitori vengono dalla Basilicata. In quarant’anni di lavoro sono riusciti a comprarsi una casetta. La loro è una storia-tipo dell’emigrazione degli anni Sessanta. La storia del boom, dei meridionali che partono con la valigia di cartone e riempiono le fabbriche del Nord, la storia delle piccole conquiste raggiunte dopo mille sacrifici. Sette anni fa i genitori di Maria hanno preso una decisione difficile: vendere quella casetta comprata con i risparmi di una vita. Lo hanno fatto per regalare un pezzo di futuro possibile ai loro figli. Se ne sono andati a vivere in affitto. Anche il padre di Maria è stato operaio, anche lui sa cosa significhi lavorare in catena, e finire in cassa quando il lavoro non c’è più. Maria e il fratello ottengono dai genitori quel che serve per pagare l’acconto, per il resto c’è un mutuo di seicento euro, perfettamente sostenibile, finché lo stipendio è di milletrecento euro più gli straordinari.
Ma la catastrofe si prospetta quando Maria inizia a entrare e uscire dalla cassa integrazione, alla fine del 2009. I soldi non bastano mai, il bambino cresce, ogni due mesi, quando arrivano le bollette di acqua, luce e gas, Maria fa i conti con la calcolatrice e si mette le mani nei capelli: «Da anni sento ripetere questo ritornello di quelli che non arrivano a fine mese. Beh, io appartengo alla famiglia di quelli che vedono sparire lo stipendio a inizio mese. E che già al giorno sei devono iniziare a fare i debiti e i salti mortali. Io, dopo che ho pagato il mutuo e le bollette, sono già a zero».
A Mirafiori Maria lavora nella catena di Musa e Idea, due modelli gemelli che sul mercato iniziano a essere “anziani”. La Lancia Musa, che per quattro anni è stata l’auto più venduta in Italia nel suo segmento, ha avuto nel 2007 un restyling (quello promosso da sua maestà Carla Bruni – poco prima di diventare première dame – all’insegna del fortunatissimo slogan «City Limousine»). Ma adesso le concorrenti si sono tutte rinnovate, e la Musa inizia a perdere colpi. L’Idea, la sorella più spartana, marchiata Fiat, vede le sue vendite calare in picchiata. Così i lavoratori della catena entrano ed escono dalla fabbrica a singhiozzo, lavorando solo quando si esauriscono le scorte. Del nuovo modello che dovrebbe sostituire la Musa e l’Idea per riconquistare il mercato, per ora non c’è traccia. Maria sospira e dice: «Per altri quei numeri sono le classifiche di “Quattroruote”. Per noi, quelle quote di mercato, sono il lavoro».
Ma torniamo alla storia di quell’anno 2008, che per la Fiat era stato carico di speranze. In pochi mesi, i nuovi modelli della cura Marchionne ebbero tutti ottima accoglienza e iniziarono ad andare molto bene sul mercato: la nuova Cinquecento fu un successo, la macchina più venduta in Italia dopo la Panda. La quota di mercato della Fiat superò di nuovo il 30 per cento, toccando livelli record degli ultimi anni. I nuovi motori erano invidiati da tutti e Marchionne – previdentemente – mise in cantiere una pattuglia corposa di nuovi modelli, per rinnovare tutta la gamma. Di questi ultimi progetti iniziarono a parlare tutti, a partire dalle riviste specialistiche. Su «Quattroruote» fioccavano le copertine che rivelano i gioielli con cui la Fiat avrebbe aumentato la sua quota di mercato. Ecco la Topolino, che avrebbe fatto concorrenza alla Smart nel segmento delle piccole e costose; ecco la Nuova Ypsilon che, disponendo di cinque porte, avrebbe posto rimedio all’unico handicap del modello precedente. Ecco una nuova monovolume, fantomaticamente ribattezzata “Lo”. Di tutti questi modelli apparvero addirittura le prime immagini. La Lo, l’erede della Multipla, si sarebbe dovuta chiamare Orso, e sarebbe dovuta essere prodotta in Italia (poi è finita in Serbia, viene presentata quest’anno, con almeno due di ritardo). Ecco la nuova superutilitaria, ecco il piccolo Suv da produrre a Mirafiori, ecco la piccola Maserati, ecco le nuove berline che avrebbero sostituito la Croma, ormai a un passo dalla pensione: nuove Alfa dal design affusolato, pronte a raccogliere l’eredità della sfortunatissima Lancia Thesis. Un caleidoscopio di ipotesi, nomi, immagini, date, scadenze. Ma di tutto quello che era stato annunciato, alla fine è uscito poco o nulla. E anche quello che alla fine è stato messo in produzione è arrivato negli autosaloni con anni di ritardo rispetto alle tabelle annunciate. Dietro l’incredibile crollo delle vendite del 2011, prima di ogni altra cosa, c’è questo appello di assenze, un deficit di modelli che ha falcidiato il listino. La prima domanda è: perché?
Maria Epifania fa l’operaia in catena di montaggio: ha sorriso radioso e voce battagliera. È entrata «in Fiat», come si dice da queste parti, nel 1997. Oggi sorride: «Pensa che lavoravo sulla Punto. La vecchia Punto, due Punto fa, due ere geologiche fa!» Pausa. Sorriso. «All’inizio, da ragazza, ero convinta che nella mia vita avrei fatto la maestra d’asilo, che avrei insegnato ai bambini. Poi, per colpa di una brutta malattia, avevo dovuto lasciare gli studi. Ero riuscita a guarire, per fortuna. Ma a questo punto, se volevo lavorare e guadagnare, avevo una sola strada: dovevo andare in fabbrica». Altri tempi. «Era una fabbrica diversa, piena di persone, una grande comunità. Alla catena c’erano ancora i vecchi operai, quelli che avevano vissuto la trasformazione della fabbrica nella stagione dei diritti: persino qualcuno di quelli che avevano fatto in tempo a vedere la vecchia Fiat di Valletta, con i reparti confino, e poi la nuova fabbrica. C’erano quelli che avevano vissuto la stagione della sconfitta, nel 1980, e poi quella del ritorno alla democrazia interna. Si lavorava», racconta Maria, «con un senso del rispetto migliore di quello di oggi. E si lavorava con amore per la fabbrica. Se c’era da fare straordinari, nessuno si tirava indietro. Non ho visto un mio compagno di lavoro dire no a un’ora di straordinario. Vedi, la cosa che più mi fa male è che abbiano detto che ci siamo opposti al nuovo contratto perché non volevamo fare il nostro lavoro: be’, io lo amo, il mio lavoro, e quando devo restare fuori dalla fabbrica sto male».
La prima auto di Maria è stata ovviamente una Fiat:...
Table of contents
- Copertina
- Colophon
- Perché questo libro
- L’Italia riflessa in una Fiat-Chrysler
- Storia di una guerra aziendale (e non solo)
- Quel che resta di Torino
- L’Annozero di Marchionne
- Quei fannulloni di Pomigliano
- Carmen, Antonio, Francesco: gli esclusi
- Termini, la vittima sacrificale
- Berlinguer e Trentin in cantina, se la Fiom finisce in roulotte
- L’importanza di chiamarsi Sergio
- Imitando Crozzonne
- Fiad: Fabbrica italiana automobili e discriminazione
- MiTo, il caso Annozero
- Analisi di un declino morale
- Quell’intervista non s’aveva da fare
- Indice
- Note