Memorie corsare
29/10/2014
di Oliviero Beha
La profezia sbagliata
per difetto
Quale conformismo: chissà cosa avrebbe detto il poeta di Renzi, della sua fame di governare in un Paese ridotto ormai al deserto
Era una domenica, il 2 novembre 1975, quando Pasolini venne assassinato. Non c’era la tv del mattino, e tantomeno Internet, e la notizia cominciò a circolare nei giornali radio. Adesso, dopo quasi una generazione e mezza, mentre i suoi libri continuano a essere tradotti in tutto il mondo e la filmografia ogni tanto ce lo ricorda, come per il film discutibile di Abel Ferrara su di lui, almeno in Italia le sue idee, che ancora affascinano i giovani, sono estranee al dibattito pubblico, quello per esempio sul Pd tra la Leopolda e San Giovanni. Oppure quello sull’interrogatorio eccentrico, eccentricissimo, del Presidente Napolitano nel processo alla “trattativa Stato-mafia” (le due maiuscole sono da intendersi solo come segni diacritici, non un attestato di valore: cfr. le polemiche su Grillo e “la morale della mafia di una volta”).
Mi riesce difficile non sentire in occasioni simili il buco, la mancanza di un’intelligenza forte e non pusillanime come quella di uno scrittore di cui magari non resterà tutto, ma di sicuro sopravviverà la veggenza socioculturale. Resisto alla tentazione banale e improduttiva di chiedermi che cosa avrebbe detto oggi: di Renzi e del suo monopolio propagandistico con il codazzo di “cani del Sinai” (Fortini, ma anche Flaiano) dietro al carro del vincitore; della manifestazione di San Giovanni, del milione di protestanti e di quella parte di sinistra considerata non senza motivo alla stregua di vecchi arnesi intercambiabili; dell’interrogatorio al Quirinale, meglio se confrontato con il celeberrimo “Io so… io so… ma non ho le prove” del “romanzo delle stragi” di Pier Paolo.
Invece mi guardo attorno: le considerazioni del poeta sul consumismo che aveva antropologicamente cambiato i connotati degli italiani si sono rivelate una profezia sbagliata, ma per difetto. Ormai gli italiani non ci sono più, sono stati polverizzati culturalmente ed economicamente a colpi di spread, tv e quant’altro, in un Paese svuotato di morale personale e di etica collettiva, in cui anche la battaglia per la legalità può assumere una veste tecnica, amministrativa, politica, in definitiva amorale mutuando stilemi mentali dall’illegalità. Va bene quel che succede in aula a Berlusconi, non va bene se succede a de Magistris. Quanto agli intellettuali, categoria di riferimento pasoliniana comprensiva anche dei media e dei sottomedia di allora, ditemi il nome di una figura pubblica che oggi abbia il coraggio di non avere paura o vantaggi o interessi minuti o massimi che lo tacitino.
Che dica di Renzi semplicemente chi è e che cosa fa, astraendolo dal confronto con la classe dirigente che l’ha preceduto sul quale – anche comprensibilmente – prospera. Che gli faccia notare che avere un partito al 41 e magari anche al 51 %, in un Paese distrutto, significa solo amministrare un deserto per sé e per i suoi, cosa che non mi mette di un’allegria sconfinata. Forse sarebbe meglio vincere nel Paese, e rischiare di perdere le elezioni, dico così, per capirci. Uno, pasolinianamente o no, che non si esima dallo stigmatizzare gli effetti di un sindacalismo pernicioso non nei suoi ideali bensì nei suoi comportamenti, da cinghia di trasmissione con la politica e con le relative poltrone, al punto che oggi in giro per Roma riconosci un sindacalista piccolo, medio o grande dalla sua fisiognomica: sono diventati un’espressione antropologica.
Uno, infine, che dica dei media che sono pienamente corresponsabili di un Paese sfasciato, più sfasciato che ai tempi del fascio. Ed è davvero tutto dire, anche se alla Leopolda si è celebrato, con grande attenzione all’“eterno femminino”, il “nuovo che avanza”: certo, ma in un paesaggio ormai spettrale. Che birba, quell’ottimista di Pier Paolo.
5/9/2013
di Loris Mazzetti
La “Terza B” censurata
prima dell’editto bulgaro
Registrata nel 1971, la puntata con l’intervista di Enzo Biagi a Pasolini fu bloccata dalla Rai per quattro anni.
In onda solo dopo l’omicidio
Enzo Biagi in tv, prima dell’editto bulgaro di Berlusconi che lo allontanò per ben cinque anni dalla Rai, subì diverse censure. Nel 1971 fu la volta dell’intervista a Pier Paolo Pasolini. La trasmissione si intitola Terza B: facciamo l’appello, dieci puntate registrate dal teatro dell’Antoniano di Bologna, dove dal 1959, per RaiUno, viene prodotto Lo Zecchino d’oro. Dieci scolaresche si ritrovarono intorno a un compagno di banco diventato famoso. Oltre a Pasolini, Pietro Nenni, Indro Montanelli, Monica Vitti, Renato Guttuso e altri ancora. Nella trasmissione parteciparono alcuni compagni di classe del liceo Galvani di Bologna del 1938.
La censura scattò anche quando gli americani bombardarono Tripoli, lo stesso giorno Biagi incontrò il colonnello Gheddafi. La messa in onda dell’intervista prima fu bloccata, poi trasmessa una settimana dopo a causa dell’intervento dell’allora ministro dell’Interno Scalfaro che mise il veto per ragioni di sicurezza e ne impedì anche l’acquisto (mezzo miliardo di lire) da parte di una televisione americana.
L’ultima censura fu nei confronti di Indro Montanelli. Nel marzo 2001, un paio di mesi prima del voto, il fondatore del Giornale era stato minacciato di morte. La mattina del 27 Biagi intervistò per il Fatto Montanelli. Prima della messa in onda le agenzie scrissero che Montanelli aveva dichiarato che “Berlusconi avrebbe governato senza le quadrate legioni ma con molta corruzione”. Il Cavaliere e Fini scatenarono un putiferio provocando l’intervento del direttore generale e del direttore di RaiUno che ci obbligarono a tagliare la frase incriminata, altrimenti l’intervista non sarebbe andata in onda.
Consultando gli archivi Rai, risulta che l’intervista di Biagi a Pasolini è l’unica vera testimonianza di uno dei più importanti intellettuali del Novecento. Non fu un’intervista facile, Biagi ebbe la sensazione che Pasolini non si fidasse di lui. “In fin dei conti allora ero il direttore di un giornale molto borghese, anche se fatto a modo mio. Invece a Pasolini questo non importava, era autentico, credeva nelle cose che diceva, e basta. Ero io molto più prevenuto nei suoi confronti che lui nei miei”, confidò poi il grande giornalista.
L’intervista è molto di più di una testimonianza, è la confessione nella quale si intuiscono i motivi della polemica del poeta con le istituzioni. Pasolini veniva attaccato, spesso con grande volgarità, per le idee che professava con coraggio e sincerità. Non aveva mai nascosto la sua omosessualità, il suo bisogno d’amore anche “carnale”, che lo aveva portato, come scriveva nelle sue poesie, alla solitudine.
Ufficialmente la puntata fu bloccata perché lo scrittore era stato denunciato per istigazione alla disobbedienza e propaganda antinazionale. Conseguenze della sua direzione di Lotta continua. Gli extraparlamentari chiedevano agli intellettuali, che erano giornalisti professionisti, di diventare, a rotazione, direttore del giornale, da Roberto Roversi a Piergiorgio Bellocchio, da Adele Cambria a Pio Baldelli. Pasolini, pur non condividendo la linea politica assunse la direzione dal primo marzo al 30 aprile 1971.
La versione ufficiale riporta che l’intervista fu bloccata perché un provvedimento della Rai stabiliva che non potevano apparire in video tutti coloro che erano soggetti a un’azione giudiziaria. Non mi risulta che tale provvedimento sia stato, negli anni soppresso, piuttosto dimenticato e messo da parte. Quello che fu applicato a Pasolini dovrebbe essere valido anche per Silvio Berlusconi che invece, senza che nessuno intervenga, dal-l’Autorità delle comunicazioni alla Commissione parlamentare di vigilanza, al Consiglio di amministrazione della Rai, può mandare in onda a reti unificate, monologhi registrati nei suoi studi tv, contro la sentenza di condanna della Cassazione e contro la magistratura, violentando le norme del “Testo Unico” sulla radiotelevisione dove negli articoli 7 e 33 è specificato che soltanto le massime cariche dello Stato, in occasioni straordinarie, hanno la facoltà di chiedere di aver l’accesso al video. In effetti il pregiudicato non chiede perché i direttori sono tutti lì che gli sbavano dietro per averlo ospite del loro tg.
Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini venne assassinato, il giorno dopo la Rai diede il via libera alla messa in onda di Terza B: facciamo l’appello, presentandola Enzo Biagi disse: “Abbiamo perduto un grande artista, rimpiangiamo il suo singolare valore: era impegnato in una battaglia per rendere questo mondo più giusto, più libero, più aperto, si batteva contro la prepotenza del potere e aveva anche il coraggio di battersi contro se stesso con una grande lealtà”.
Una poesia di Pasolini, che potrebbe essere intesa come un congedo o un testamento, dice: “Ringrazio gli uomini di essere così buoni per aver dato tante manifestazioni d’amore non riconosciute”.
5/9/2013
di Enzo Biagi
L’INTERVISTA A PIER PAOLO PASOLINI
“Vivo per la letteratura,
l’eros e il calcio”
Era il 1971 e sullo “scrittore corsaro” infuriavano le polemiche. Enzo Biagi intervistò Pier Paolo Pasolini in tv e ne nacque un battibecco: “Non posso dire tutto quello che voglio neppure qui perché sarei accusato di vilipendio del codice fascista italiano”
Nel 1971 mentre dirigevo il Resto del Carlino feci un programma che si chiamava: Terza B: facciamo l’appello, dove alcuni personaggi, a loro insaputa, incontravano ex compagni di scuola, amici dell’adolescenza, i timidi amori. Il protagonista di una serata fu Pier Paolo Pasolini. In quel periodo si parlava molto di lui, era appena uscito il suo ultimo film Decameron, che era stato premiato al Festival di Berlino con l’Orso d’argento, e aveva suscitato molte polemiche. Insieme a lui vennero in studio alcuni compagni di classe del liceo Galvani di Bologna del 1938: feci vedere la foto di classe e chiesi al poeta chi dei ragazzi presenti gli sarebbe piaciuto rivedere. Mi rispose: “Parini, perché era il mio più caro amico, il mio compagno di banco. Era uno degli amici più cari. È morto in Russia e per tanti anni ho sognato il suo ritorno”.
Pasolini, lei era molto bravo a scuola?
No, molto no perché ero un po’ discontinuo. Insomma, ero sull’otto. In greco a volte portavo a casa l’otto, a volte un misero sei. Quello che amavo soprattutto era il latino. Mi piaceva più tradurre oralmente che per iscritto.
Quali erano i sogni di allora?
È una domanda che mi sorprende perché proprio la mia vita è caratterizzata dal fatto di non aver perso nessuna illusione.
Lei, per esempio, si è mai sentito vittima di un’ingiustizia?
Sì, ma sono casi personali che non ho mai voluto generalizzare.
Chi ha influito di più nella sua vita, suo padre o sua madre?
I primi tre anni mio padre, che poi ho completamente dimenticato, dopo, mia madre. Il rapporto con mio padre era infernale. Mi faceva pena perché ha sbagliato tutto: nazionalista, filofascista, prima sul fronte francese, poi prigioniero in Etiopia. È tornato che era uno sconfitto. Aveva capito perché i suoi ideali dovevano cadere. Ha voluto a tutti costi che seguissi i miei studi, la mia vocazione. Quando morì, aveva il grado di colonnello. La mamma è esattamente il contrario: ama il coraggio, la verità, la bontà.
La sua famiglia era religiosa?
No, mio padre aveva una religione di tipo formale, in chiesa la domenica alla messa grande, a quella dove vanno i borghesi, i ricchi. Mia madre, invece, aveva una religione rurale, contadina, presa da sua nonna, una religione molto poetica, ma per niente convenzionale, per niente confessionale.
I racconti che faceva sua madre nella sua infanzia hanno avuto un peso nella formazione del suo carattere?
I racconti non tanto, la sua ideologia sì, l’ideologia che è formata da tutte quelle illusioni di cui lei mi parlava prima: l’essere buoni, bravi, generosi, darsi agli altri, del credere e del sapere, eccetera eccetera.
Lei aveva un fratello: andavate d’accordo?
Sì, cioè litigavamo molto come succede tra fratelli ma fondamentalmente ci volevamo molto bene, e andavamo molto d’accordo.
Lui è stato partigiano.
Sì.
E lei no.
Non è vero. Io non ero un partigiano armato, ero un partigiano ideologico. Ero sempre in contatto con mio fratello e scrivevo articoli per i giornali dei partigiani.
Pasolini come se la cavava con le adunate col moschetto?
Da una parte ne ho un ricordo spaventosamente deprimente, perché si stava per delle ore fermi in certe viuzze battute dal sole e allora lì i ragazzi, presi dalla noia e dalla frenesia, cominciavano a dire delle stupidaggini, delle follie. I discorsi che si facevano tra adolescenti mi deprimevano. Quando il professor Antonio Rinaldi venne da noi a fare il supplente di Storia dell’arte e non sapendo cosa fare e cosa dire, era un ragazzo anche lui, ci ha letto una poesia di Rimbaud, ecco, in quel momento lì è scattato in me l...