CAPITOLO TERZO – POLITICA
L’esposizione teorica che precede va scientificamente confutata come qualunque teoria scientifica. Non è difficile confutarla; la difficoltà non sta a livello intellettuale; sta a livello dell’interazione sociale; Freud direbbe che è una difficoltà affettiva. Infatti, se non è difficile confutare la mia teoria, è però difficile condividerla, perché non propone verità categoriche. Ciò pone un problema politico. La politica, cioè lo stare insieme delle persone, deve dare certezze relativamente certe, cioè, se non proprio inconfutabili, almeno durature, altrimenti il legame sociale che tiene insieme la gente si slega e la comunità si scompiglia e si sparpaglia. Perciò la politica ha bisogno di una censura di tipo difensivo, come quella envisagée da Freud, che condanni l’eterodossia e difenda l’ortodossia.
Nella politica della psicanalisi, cioè nello stare insieme di analisti e analizzanti, vale lo stesso buon senso; difficilmente attecchirà la mia proposta di censura che favorisca l’innovazione, magari (non necessariamente) mettendo a rischio la conservazione; la mia è una proposta sicuramente più adatta a contesti scientifici, dove si preferisce falsificare che confermare, rispetto a contesti dottrinari, dove prevale l’inverso e la conferma predomina sulla confutazione; in psicanalisi l’atteggiamento scientifico è un sogno notturno di pochi; nella vita a occhi aperti ogni scuola di psicanalisi ha il proprio catechismo che si guarda bene dal modificare, pena soccombere e sparire dal panorama psicanalitico; la censura in psicanalisi può essere solo conservativa; deve difendere quel che c’è: la scuola di formazione, la pratica professionale, il portafoglio privato. Recentemente abbiamo visto emergere in Europa manifesti a difesa della psicanalisi; la bandiera è quella, ma chi la porta difende ben altri interessi che scientifici.
Sulla contrapposizione tra censura conservativa e innovativa alla fine decide l’atteggiamento culturale nei confronti della scienza. Qui tocco un argomento sgradito, per non dire tabu. Non serve nascondersi dietro a un dito: la cultura generale, die Kultur, cioè la civiltà nel senso freudiano del termine, resiste alla scienza; questa è la verità sociologica di fondo, vecchia di secoli ma che non conviene enfatizzare; la cultura censura la scienza sin dai tempi di Giordano Bruno e Galileo Galilei, e continua ancora oggi, in tempi di apparente trionfo della scienza coniugata alla tecnologia. L’opzione censoria è sempre e automaticamente difensiva delle verità acquisite e stabilite contro le verità nuove proposte dalla scienza; l’opzione censoria non è mai innovativa, favorevole a verità ignote e da acquisire; la cultura non gioca al buio; gioca alla luce del sole; gioca su quel che c’è, non su quel che non c’è ancora. Lascia i giochi rischiosi o in perdita a pochi scienziati non iscritti sul libro paga di qualche multinazionale o non fossilizzati in qualche accademia.
Non voglio fare un discorso manicheo ma politico. La verità è che tanto o poco e per i motivi più disparati tutti noi resistiamo alla scienza. Alla scienza resiste la civiltà anche quando ne tesse gli elogi. Parafrasando un famoso argomento freudiano, addotto da Freud a proposito della sessualità,1 tutti noi siamo disposti a bere le più incredibili panzane, pur di non scottarci la lingua con la scienza. La litania di frasi fatte contro la scienza è arcinota: la scienza è oggettiva e non considera il soggetto, la scienza è quantitativa e “senza qualità”, la scienza è meccanicistica e non tiene conto della libertà umana; per non parlare degli scienziati che per la via della tecnologia si sono venduti al capitalismo. Forse non val la pena parlarne. Infatti, è più interessante parlare della resistenza intrinseca alla scienza, cioè di quella resistenza che non risparmia neppure gli scienziati nella loro stessa pratica e diretta contro il loro stesso oggetto. Quando parlo di resistenza alla scienza, intendo in prima istanza questa specifica e paradigmatica resistenza, parallela alla resistenza degli psicanalisti alla psicanalisi. Un caso eclatante di resistenza alla scienza proprio qui, in campo psicanalitico? Lupus in fabula: Freud! Lo si constata in modo evidente in questo esordio di discorso scientifico che riporto di seguito.
Siamo alla fine del XIX secolo, correva l’anno 1895. Freud proponeva all’amico del cuore e di penna, Wilhelm Fliess, il proprio Progetto di psicologia scientifica. Propongo nella mia traduzione l’incipit del suo manoscritto, che verrà misconosciuto da Freud e pubblicato postumo una dozzina d’anni dopo la sua morte, ma era stato scritto più di mezzo secolo prima.
“L’intento di questo progetto è di fornire una psicologia che sia una scienza della natura, cioè intendo presentare i processi psichici come stati quantitativamente ben definiti di parti materiali distinguibili, in modo da renderli evidenti e non contraddittori.
Le idee principali sono due:
1. ciò che distingue la quiete dall’attività va concepito come [la variabile] Q, soggetta alla legge generale del movimento;
2. assumere come particelle materiali i neuroni.
N e Qh – analoghi tentativi sono oggi frequenti.”2
Non saprei immaginare esordio più cartesiano. Sembra l’inizio di una delle favole scientifiche che ai suoi tempi scriveva Cartesio. “C’erano una volta delle particelle materiali che si muovevano disordinatamente…” Era Cartesio stesso a chiamare favole i suoi modelli. Li chiamava così perché non raccontavano tutta la storia, ma solo quella parte di storia naturale che era possibile ricondurre all’azione e alla reazione di particelle materiali l’una sull’altra, in funzione di variabili quantitative: la velocità delle particelle materiali o il diametro dei “pori” di un certo organo, il cervello o gli steli dell’erba in un mucchio di fieno in fermentazione. Oggi, eccezion fatta per la favola dell’arcobaleno, le favole cartesiane hanno cessato di essere narrate; i vortici di materia sulla terra o nello spazio interplanetario, che ne erano protagonisti, sono stati sostituiti dalle teorie di campo o dalle equazioni d’onda quantistiche; si costruiscono altre favole, cioè altri modelli scientifici, ma con gli stessi ingredienti di Cartesio: particelle materiali tra loro interagenti e descritte da variabili quantitative tra loro correlate da certe funzioni matematiche. Questo assetto concettuale si chiama meccanicismo; non va confuso con determinismo, neppure quando si tratta dei cosiddetti meccanismi di difesa, escogitati da Freud, i quali sono procedure più deterministiche, anche nel senso burocratico del termine, che meccaniche nel senso fisico. La differenza è radicale e semplice da cogliere. Le leggi deterministiche descrivono la “legalità” naturale, che consiste nella consequenzialità, rigidamente determinata e sicuramente prevedibile, dalla causa all’effetto. Le leggi meccaniche descrivono la “forma” di interazioni variabili, a priori ignote finché non si misurano fissando le condizioni iniziali del sistema meccanico, le cosiddette condizioni al contorno.
Nel citato Progetto Freud adotta il paradigma meccanico, non quello deterministico; non opera diversamente da Cartesio: seleziona delle particelle materiali, i neuroni, e suppone una variabile Q che varia da neurone a neurone, in funzione delle facilitazioni sinaptiche. Per la verità, Freud non parla di variabile, ma di quantità, secondo l’uso tedesco di chiamare Grösse le variabili quantitative, e adotta la sigla Q, poi misteriosamente raddoppiata in Qh, proprio per alludere alla quantità (Quantität) di energia. Mi sono concesso questa licenza di traduzione per ribadire il carattere scientifico dell’operazione freudiana. La scienza opera con variabili di stato, per esempio posizione e velocità di N particelle materiali, delle quali un certo meccanismo selettivo individua i valori correnti.
Per meglio comprendere il punto, va detto che prima dell’avvento della scienza galileiana non si concepivano né variabili né meccanismi selettivi; né la parola “variabile” né la parola “selezione” ricorrono nei tredici libri di geometria di Euclide (in generale in tutta la cultura greca antica), mentre si trovano le parole “quantità” (poson) e “grandezza” (mégethos), determinate da precisi (deterministici) processi di misura; infatti, l’euclidea è una geometria della proporzionalità (analoghia) delle misure (magistrale il V libro degli Elementi, opera di Eudosso di Cnido, che invano Galilei tentò di migliorare, forse intendendo introdurre qualche forma di variabilità).3
Ebbene – non sapremo mai il vero perché – pochi anni dopo averlo rapsodicamente concepito, Freud abbandona il progetto di psicologia scientifica (cartesiana). Praticamente lo cestina; neppure gli assegna un titolo e regredisce a un progetto prescientifico che chiama metapsicologico, ma dovrebbe meglio chiamare aristotelico (a meno di non intendere quel “meta” come prefisso di “metafisica” aristotelica). Che si sia trattato di una rimozione (ma di fronte a quale pericolo pulsionale?) lo dimostra la stessa teoria freudiana, la quale prevede che ogni rimosso ritorni, deformato dalla censura, nel sintomo. Infatti, quasi tre decenni dopo, nel 1924, l’approccio meccanicistico del progetto, attraversa muraglie deterministiche e, come un fiume carsico, improvvisamente ricompare e subito scompare nel breve scritto intitolato Note sul “notes magico”, dove Freud non parla di pulsioni, ma tratta la volatilità dei fenomen...