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Introduzione
Per provare a descrivere la situazione della psicoanalisi in Italia non si può prescindere dal far riferimento alla data che costituisce il punto chiave di una svolta e che quindi stabilisce un prima e un dopo oramai imprescindibile per ogni giudizio. Si tratta della fatidica data di formalizzazione della legge 56/891, ossia della legge che in Italia ha costituito l’Ordine degli Psicologi e conseguentemente l’istituzione delle scuole private collegate al MURST (Ministero dell’Università) per la formazione degli psicoterapeuti.
La legge, meglio conosciuta con il nome del suo presentatore come legge Ossicini – già senatore del PCI, professore universitario e psicoanalista freudiano – stabilì il profilo della professione dello psicologo, figura professionale allora non ancora definita nel suo curriculum formativo se non attraverso le sue tante implicazioni operative interne e esterne alle strutture sanitarie, e sancì l’istituzione dell’ordine degli psicologi, elenco sino a allora appunto inesistente, pur essendo presenti nelle strutture della sanità pubblica degli operatori con tali funzioni.
È il caso di aggiungere che le prime facoltà universitarie di psicologia sono state attivate in Italia solo negli anni ‘70. Prima della legge Ossicini la psicoterapia era di fatto regolamentata solo all’interno di associazioni private che, in base a regole e statuti autoctoni, nominavano al loro interno i membri autorizzati a un intervento.
All’interno dello stesso testo della legge, all’articolo terzo, si istituisce la figura professionale dello psicoterapeuta sia riferito all’ordine degli psicologi che a quello dei medici, che acquisisce tale profilo attraverso un periodo di formazione nelle scuole di specializzazione, sia universitarie che private con riconoscimento universitario, della durata di quattro anni. In questo insieme i più pretenderebbero di inserire anche la psicoanalisi, che verrebbe a configurarsi così come una delle tante possibili terapie contemplate dalla posizione dello psicoterapeuta. Ci occuperemo in seguito degli aspetti che si aprono su questi scenari inquietanti, mentre desideriamo prima gettare uno sguardo nel contesto riguardante il dibattito culturale che precedette il 18 febbraio 1989 e quindi la legge 56/89.
L’istituzione della legge 56/89 giunge nel nostro Paese in seguito alle forti pressioni degli psicologi per ottenere un riconoscimento giuridico, atto a permettere loro di entrare con pieno riconoscimento nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, essendo così equiparati alle altre professioni mediche; si tratta quindi di un evidente richiamo d’appartenenza che descrive la storia della psicologia italiana quale ceppo legato alla psicologia sperimentale accademica e clinica, da sempre ambiguamente succuba della psichiatria, piuttosto che riferibile alla storia della psicoanalisi in Italia.
Questa invece è sempre stata caratterizzata dalla difficoltà d’essere accolta dagli ambienti universitari e medici; la cultura accademica e istituzionale italiana ha sempre marginalizzato la psicoanalisi e ben pochi sono stati i docenti universitari che l’hanno ammessa nel loro insegnamento: Benussi tramite Musatti a Padova e Di Sarlo tramite Bonaventura a Firenze2. Contava certamente la provenienza germanica della psicoanalisi, ma contavano anche le pretese di scientificità degli studiosi italiani decisamente contrari a ogni contaminazione culturale, così come contava pesantemente il clima bigotto imposto dalla chiesa cattolica. Insomma, sotto il sole d’Italia non erano ammesse novità e quindi la psicoanalisi ha dovuto attendere la fine della I guerra mondiale per conoscere meglio Freud e averne delle traduzioni (eccezion fatta per le traduzioni del pioniere Levi Bianchini, che resta un caso isolato nella sua impresa e nella sua funzione di direttore del manicomio di Nocera Inferiore); lo fece attraverso Weiss solo nel 1925 e la fondazione della SPI nel 1932, ma tutto ciò durò sino al 1938, quando, per effetto delle leggi fasciste in difesa della razza, anche i pochi analisti italiani, perloppiù di origine ebraica, dovettero fuggire e rifugiarsi all’estero. Di psicoanalisi non si parlò più sino al 1949, quando Musatti pubblicò a Torino il suo Trattato di psicoanalisi, peraltro imperfetto in alcune sue parti e produttore dell’equivoco scambio di senso tra pulsione (Trieb) e istinto (Instinkt). Si dovette attendere il 1967 prima che il coraggioso editore Boringhieri decidesse di dare alle stampe le Opere complete di Freud tradotte in lingua italiana e sino a allora la psicoanalisi in lingua italiana si trovò spesso rifugiata nelle opere letterarie di alcuni scrittori, piuttosto che capace di affrontare lo scoglio del contrasto profondo con l’egemonia culturale dei medici. In fondo, però, è bene confessare che neppure il monito freudiano di non civettare con l’endocrinologia e col sistema nervoso autonomo3 sortì molto effetto e infatti ben poco del discorso freudiano sull’inconscio trova eco nella letteratura psicologica e scientifica del nostro Paese. I medici e gli psichiatri ancora pochi decenni fa si formavano sul Trattato delle malattie mentali di Tanzi e Lugaro, nel quale la psicoanalisi trova posto solo per essere rifiutata in blocco, oltre che irrisa da posizioni di presunzione scientifica4. La corsa degli anni ci ha già condotti a un punto storicamente capitale per la psicoanalisi il 1973, è infatti allora che fece la sua comparsa in Italia Lacan e ciò permise di coagulare intorno alla proposta lacaniana un gruppo di intellettuali e di psicoanalisti attenti e capaci di mettere in tensione il loro discorso teorico. Su questo rimando al bel resoconto di Giacomo Contri, pubblicato con il titolo Lacan in Italia5.
Fu questo evento che diede il via a un momento fecondo, ma assolutamente non interno alle istituzioni riconosciute, che rappresentò l’anelito più intensamente capace di mettere insieme una bella serie di intellettuali italiani e di giovani analisti, che cominciò, anche attraverso delle divisioni, a mettere a confronto la psicoanalisi e il mondo della cultura italiana e internazionale. Furono anche gli anni di Verdiglione e della rivista Spirali – nata nel 1977 – e basta sfogliarne qualche numero per accorgersi della molteplicità e della qualità dei collaboratori che seppe mettere all’opera. È proprio sul numero 3, marzo 1980, che Verdiglione dice, nel resoconto della conferenza stampa per il lancio del Congresso internazionale di Psicanalisi L’inconscio (tenutosi a Milano dal 30 gennaio al 2 febbraio 1980): «La psicanalisi qui non è in crisi. Fino al 1973 semplicemente non esisteva». E continua: «Quel che finora è esistito nei termini teocratici e che è passato sotto il nome di psicanalisi in Italia è quel che chiamo antropoanalisi: qualcosa che ha la vocazione d’integrarsi con la psichiatria, ovvero in una sorta di religione di stato».
Nel 1985 l’avventura di Verdiglione terminò bruscamente, com’è noto, con una condanna per circonvenzione d’incapace, per truffa e tentata estorsione6, con il che – se si tacitò il presunto mostro – si diede anche il via alla possibilità che quanti collaboravano con lui potessero intraprendere la strada del loro discorso in una sorta di arcipelago psicoanalitico che tuttora è presente nel nostro Paese.
Si potrebbe quindi dire che la condanna comminata a Verdiglione nel 1986 fu il presupposto capace di creare, insieme alle spinte lobbistiche degli psicologi, l’ambiente culturale e politico che permise (primo Paese democratico al mondo e dopo la Germania nazista), tramite il Parlamento e lo Stato, di legiferare sull’in...