Fa caldo. Molto caldo. Non so più da quanto tempo sono qui. Quante ore, quanti giorni? Ho l’impressione che forse potrei restare qui tutta la vita. Tutto il tempo che mi resta da vivere. Le pale del ventilatore rimescolano ancora e sempre un’aria pesante e odorante: una mistura di polvere, feijao e caffè. Il rumore sordo e irregolare della lamiera segna il tempo in un modo anacronistico. L’aria è tagliata, tratteggiata dalla cadenza discontinua delle braccia dell’apparecchio. Starci sotto ed essere soggetto a questo rumore intermittente per sperare di avere un po’ di frescura porta con sé, e sa il cielo perché, la paura irragionevole, quasi folle che l’oggetto possa staccarsi e girare nell’aria con un ruggito stridente. Come se un fuoco d’artificio impazzito arrivasse a bruciare il corpo e la carne.
E il telefono resta silenzioso. Nemmeno l’ombra di una vibrazione. Neanche la traccia di una suoneria. Nulla. Nada. Sono madido di un sudore che non smette mai di invadermi e di disturbarmi. Ma non ho la forza di alzarmi. Meno ancora di lavarmi. Solo aspettare. Fino a quando?
– La quinta domanda è cruciale. Lo sapete. Lo sappiamo tutti. Noi tutti qui, e i telespettatori davanti allo schermo. Si lascia o si raddoppia! Si passa o si va via! Siamo d’accordo? Siete tutti d’accordo? Paolo? Marie? Bene. Ecco allora la quinta domanda.
La luce della televisione irradia lampi nel locale e porta, anche in pieno giorno, una luminescenza strana, quasi fluorescente. E la sonorità particolare del gioco do Globo invade tutta l’atmosfera. Tra grida ed euforia. Tra citazioni e agitazioni. Troppo forte, troppo bruciante, troppo esuberante per lo stato dei miei neuroni. Prendo il telecomando e riduco drasticamente il suono. Non capisco perché ho acceso questa stupida televisione. Sicuramente un banale tentativo di trovare un po’ di conforto. Un minuto o due, poi nessuna sensazione. I muri di un verde acqua slavato, diventano quasi fotogenici. Si rischiarano, il tempo di un’immagine, di uno scoppio di risa, di una scena da birreria. Sento in lontananza, come se fossi nella stanza accanto, il frastuono dell’illusione consumistica. La felicità garantita da un’acqua minerale, un paio di scarpe o un nuovo costume da bagno. E io sono di fronte al nulla. Non posso sapere quello che diventerò tra un’ora, un giorno, una settimana.
Fa caldo. Molto caldo. O sono io, che non lo sopporto più? Ma cosa succede? Ho dimenticato qualcosa che lei mi ha detto? In che giorno siamo? Possibile che sia partita così, senza una parola, senza un cenno? Forse sto diventando matto. No, sono matto. Lei è là di sopra e io non la sento più, non la vedo più. Magari sono morto. Io sono già morto e lei è viva, è per questa ragione che non la vedo. O è lei che si è cancellata. Distrutta. Evaporata. Tutto questo non importa. Non si è portata via nessun vestito, nessun oggetto, nessun gioiello. Lei non è partita. Lei è scomparsa.
– E il signore cosa ha vinto? Ha appena vinto qualcosa?
Gli applausi invadono lo spazio sonoro prima di essere interrotti bruscamente dal mio dito sul telecomando. Questo rumore di fondo è insopportabile. Ma il bisbiglio del ventilatore è ancora peggio. Bisogna che beva qualcosa o che fumi. Bisogna che mi alzi. Bisogna che il telefono suoni. Che tutto si fermi. Che finisca. Che io sappia.
1
Una cartolina dal Canal Grande con soltanto nome, indirizzo e firma. Come promesso. Una sentenza senza appello. Era finita. Punto e basta. Era previsto da molto tempo. Fin dall’inizio. Tuttavia, non ci si era mai preparata per davvero. Assurdamente, in una maniera da sembrare oggi impossibile, non ci aveva creduto. Non aveva potuto crederci. Come se non fosse mai potuto accadere. Non in questa bella storia. Non con lui. Era uno scherzo. Ma dopo aver ritirato la posta e preso coscienza di quello che significava, capì che era veramente accaduto. Non si scherzava più. Il momento era brutale. Alla battuta d’arresto. All’abbandono. Ebbe l’impressione che il pavimento si fondesse sotto i suoi passi. Come un incubo da cui non ci si risveglierà più. Allora rigirò, martoriò, osservò quel piccolo pezzo di carta quasi vergine, se non per i nomi scritti a penna. Non c’erano dubbi. Lo lesse e lo rilesse. Non c’era altro, oltre a quel «Ciao bella, basta così!». Stringendolo tra le mani, quasi potesse involarsi, Elsa si lasciò scivolare lentamente lungo il muro, poi sempre più in fretta, trascinata dal suo stesso peso. Rimase così, seduta a terra, la cartolina accartocciata nelle mani ancora tremanti. Si ricordò dei momenti in cui lo aspettava fremente in una squallida camera dell’albergo Dunia. Il luogo era sordido ma non lo percepiva. Non vedeva nulla. Non vedeva i muri, non vedeva le tende, né i colori del cielo. Aveva solo la certezza che lui sarebbe arrivato e l’avrebbe liberata dalla mancanza. Era un desiderio che le dava i brividi. Stranamente. Lui preferiva che lei venisse prima. Sempre. «È più sicuro», le diceva sorridendo, e lei non sapeva se era per motivi di prudenza o per infiammare il desiderio. Magari per entrambe le cose. Ora, qui, nessun desiderio, nessuna attesa, solo un dolore così forte da aver l’impressione di non aver mai avuto così tanto male. Persino il dolore fisico era più sopportabile. Si stese sul pavimento e si lasciò andare al pianto. Pianse con tutte le sue lacrime. Poi, a un tratto, cominciò a gridare. Un urlo d’angoscia allo stato puro. In verità non aveva presagito nulla. O forse non aveva voluto saperne. Che si fosse sbagliata su tutti i fronti? Le lacrime colavano sulla cartolina e lavavano le lettere fatali. Il suo nome spariva poco a poco. Qualcosa nel suo corpo le diceva che non sarebbe sopravvissuta. Una bruciatura simile a un colpo di pugnale nel basso ventre. «Mia cara, se un giorno ne avessimo abbastanza l’uno dell’altro, e questo vale sia per me che per te, ce lo diremo semplicemente con una cartolina... da Venezia per esempio?» Glielo aveva mormorato dopo qualche ora di estasi, accarezzandole dolcemente il viso. Non gli aveva creduto. Non aveva voluto credere che un giorno sarebbe potuto accadere. Come aveva fatto a essere così sorda, così cieca? Glielo aveva detto all’improvviso, chiaramente, che la loro storia non avrebbe potuto essere diversa da com’era. Ed eccola, oggi, schiacciata su questo pavimento freddo, che si stava frantumando. La gola si chiuse in un nodo. Il dolore era tale che non riusciva più a pensare. Nemmeno gli insulti si formavano più nella sua testa. Non riusciva a emettere nessun suono. Rimaneva soltanto un vuoto. Un buco. Una faglia. Come una tomba. «Come la morte», pensò. Come poteva aver amato quell’uomo, chiedergli di possedere il suo corpo con tanta follia. Aveva preso tutte le precauzioni per soddisfare i loro desideri, perché lui naturalmente era sposato.
Le piastrelle del pavimento erano già fresche in quel mese d’agosto piovoso, ma aveva la sensazione che il calore scemasse dal suo corpo. Forse stava davvero per morire. Qui, ora. Pensò ai suoi pazienti suicidari, quelli che a volte non era riuscita a riportare sulla strada “vita”. «Ma io non voglio morire», pensò in un lampo di pensiero, nella folgorazione di un istante. Ma intanto aveva la sensazione di non poter fare niente per fermare questa discesa implacabile. Si sentiva inesorabilmente trascinata verso il nulla, come colpita da un’emorragia inarrestabile. Stava per dissolversi, per disaggregarsi, per fondere e non sapeva se era più disperazione o stupore. Cominciò a rabbrividire e, piegandosi verso il pavimento, strisciò cercando di raggiungere l’attaccapanni. Il suo corpo era interamente scosso da spasmi e da un tremore irrefrenabile. Doveva coprirsi per fermare il tremore. Riuscì a sollevarsi, afferrando il suo cappotto di lana. Si coprì e ricadde, rotolandosi nel cappotto, incapace di pensare a come rialzarsi. Le forze l’avevano talmente abbandonata che giaceva a terra come svenuta. In fondo era un po’ così. Un’interruzione brutale del contatto, dell’odore, dell’emozione della pelle. Aveva l’impressione di non poter sopravvivere a quella mancanza. Di non poter fare a meno di lui e che solo la morte l’avrebbe liberata. Cercò di calmare la corsa furiosa dei pensieri. «La sola cosa che potrebbe calmarmi un po’, si disse, è sentire la sua voce. Se gli telefono lui non risponderà, ma almeno potrò ascoltarlo per qualche istante». Questa idea le diede la forza di risollevarsi e appoggiarsi alla scala metallica che portava al piano. Abbastanza per sganciare la borsa appesa all’attaccapanni. Mettendosi in piedi, vide la sua immagine riflessa nello specchio. Alterata. Invecchiata. Imbruttita. I suoi capelli rossi erano così arruffati che era difficile pensare di pettinarli. Come poteva trovarsi in questo stato dopo tutti quegli anni di divano? Si sedette sullo scalino e frugò a lungo nella borsa informe prima di trovare ciò che cercava. Le borse sono così grandi e i cellulari così piccoli. Selezionò il numero e, come previsto, sentì la sua voce lontana e così familiare: «Buongiorno, risponde la segreteria telefonica di...». Ripeté l’operazione cinque o sei volte prima di sedersi su una sedia. Poi trangugiò un bicchiere d’acqua fresca. Finalmente, stava risalendo dall’abisso. Per il momento. Per un istante. Prima di rituffarsi.
Erano passati tre mesi da quando aveva ricevuto la cartolina, ma continuava a vagare nella nebbia. Non viveva più. Non riusciva a mangiare e beveva troppo. Anche nel modo di vestirsi c’era qualcosa di eccentrico. In effetti aveva perduto cinque o sei chili e questo rafforzava l’immagine di una che fluttua nella vita come nei vestiti, divenuti di colpo troppo larghi. Un quadro straordinario per una psicanalista conosciuta e apprezzata. Si domandava se i colleghi se ne accorgessero. Poco importa. In ogni caso aveva i tratti tirati di chi non dorme molto e non respira felicità. Fortunatamente i suoi analizzanti avevano ben altro a cui pensare che non al suo stato fisico. Ma perché l’analisi non guarisce anche il dolore di amare? Comunque, non ne avrebbe certo parlato a un collega, col rischio di sembrare «male analizzata» o di non esserlo abbastanza, e di farsi suggerire di sdraiarsi sul divano ancora per un po’. Non vedeva di buon occhio questa eventualità. A meno che non fosse l’unica soluzione. Ancora una volta. Ritornare sul divano. In tanti anni aveva macerato, lavorato, attraversato tutte le fasi della sua storia personale, e nella vita le cose fondamentali erano cambiate. Niente più insonnia, solo qualche incubo, non più malattie e non più esitazioni nelle scelte. Quindi, Gaëtan o no, sarebbe uscita dal presente da sola senza correre il rischio, altrimenti, di dover riprendere ancora una volta le questioni “infinite”. E poi, oltre che sopravvivere a Gaëtan, doveva anche diffidare dei pettegolezzi dei colleghi.
Ripensando all’accaduto, pianse ancora senza sapere esattamente il perché. A stento riusciva a guidare sotto il diluvio di quella domenica pomeriggio. Avrebbe dovuto fermarsi e aspettare, ma quella sera aveva fissato un appuntamento con Claire, alla Galerie de la Reine, per vedere un film. Le avrebbe giovato, ammesso di uscire da questo diluvio. Si sentiva di nuovo stanca e la settimana stava solo per cominciare. Aveva il naso incollato al vetro dell’auto, cercando di distinguere la strada attraverso le gocce d’acqua. L’attenzione l’aiutò un poco a riprendersi. Guidare piangendo e per di più sotto la pioggia non era facile, anzi era proprio pericoloso. Aveva preso questa strada seguendo i consigli di Raphael, ma avrebbe dovuto prevedere che le condizioni del tempo andavano rapidamente peggiorando e che sarebbe stato meglio prendere l’autostrada, come tutti! Era talmente fuori di sé che non era più in grado di dire perché fosse venuta fin qui. Per distrarsi. Per dimenticare. Per fare come se tutto andasse bene. E in più, il pomeriggio si era messo piuttosto male. Era scappata, ancora incapace di vivere normalmente. «Se continuo a imbastire stupidaggini, si disse, finirò per comprare un pacchetto di sigarette e riprendere le vecchie abitudini». Su questo non c’era dubbio! La stanchezza le tirava i tratti del volto più ancora della perdita di peso. Era invecchiata di colpo, con questa storia, e non riusciva a uscirne. Raphaël. Era a causa sua e della sua email se adesso si trovava su questa strada. Il suo messaggio, stampato prima di partire, era finito sul sedile sopra la cartolina di Gaëtan, che non riusciva a buttar via.
Gentile signora
evidentemente non ho ancora trovato le riproduzioni di cui abbiamo parlato alcuni giorni fa, ma ripensando alla nostra conversazione, mi dicevo che lei potrebbe trovare le cose che le interessano nelle scorte del negozio, voglio dire il mio. Infatti, le ho parlato soprattutto dei libri attualmente in vendita, ma non le ho detto, ed è questo che mi è tornato in mente dopo, del locale che mi serve da ripostiglio e da magazzino dove, in un disordine indescrivibile, ci sono varie opere di scarso interesse e tanti strani manoscritti da identificare. Se lei volesse dargli un’occhiata, le aprirò volentieri le porte. Dato che lei mi ha lasciato il suo indirizzo email, ho pensato che questa sarebbe stata una buona idea per scriverle. Sperando di avere sue notizie, le auguro una buona serata.
Raphaël Pirard
P.S.: Se vuole accettare il mio invito, mi avverta in modo che possa riceverla come si deve e non tra due clienti scontenti. Le indicherò anche come arrivare da me.
Tutto era cominciato alla Antik’fair di settembre a Fort Jaco. «Cominciato», era d’altronde una parola che le dava qualche problema, se ci pensava. In fondo, ancora oggi, non poteva dire esattamente quello che era successo, né perché aveva discusso così a lungo con quell’antiquario. Forse per il desiderio di sentirsi un po’ più viva. Di dimenticare, per un’ora o due, la tristezza e il malessere permanente che la imprigionavano, che le impedivano di dormire e le rendevano difficile anche svegliarsi. Di certo aveva voluto trovare in Raphaël un’energia vitale e creare un contatto con qualcu...