L'altro perduto
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L'altro perduto

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L'altro perduto

About this book

Non c’è nulla di ovvio nel concetto di cura, né l’atto di curare è una pratica scontata.
È perciò che a tale concetto e a tale pratica sono, in larga parte, dedicate le pagine di questa raccolta di scritti, elaborati in forma di seminari rivolti ad amici di pensiero: analizzanti, per posizione etica, più che analisti.
Di quale cura ha necessità, se non addirittura urgenza, il soggetto contemporaneo? Di quale ascolto che non trova? E di quale parola vera che, nella diffusa logorrea, non riesce a spuntare mai?
Possono la teoria e la pratica dell’inconscio offrire al soggetto di oggi questo spazio accessibile alla ricerca, all’enigma, all’impercorso e, quindi, all’altro?
Un mondo afflitto come il nostro da un’ingravescente povertà di linguaggio ha contribuito a scavare la più minuziosa e profonda resistenza nei confronti del rischio di incontrare l’altro con la sua estraneità, con le sue ombre inattese e il suo mistero.
Lungo le pagine di questo libro si possono trovare l’affanno e la passione di un’analisi incompiuta che ha la pretesa di non arrendersi all’indifferenza e di non cedere agli ostacoli, ma di procedere.

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L’ALTRO PERDUTO

PREMESSA

Si tratta, in questo libro, della pubblicazione di alcuni testi che hanno costituito per me, negli anni 2018-2019, l’occasione di elaborare e di trasmettere i miei pensieri costanti rivolti alla psicanalisi come teoria e come cura, interrogata e provocata nel suo rapporto con la nostra attuale civiltà.
Approfittando della libertà e della passione con cui l’editore Polimnia Digital Editions sfida quotidianamente gli ostacoli compositi creati, per un verso, dalle resistenze della nostra cultura alla psicanalisi e, per un altro verso, da quelle non meno ottuse nei confronti di un’editoria soltanto digitale, riesco a far conoscere a un pubblico più vasto il mio lavoro seminariale che, in caso contrario, resterebbe limitato alla preziosa comunità di analisti e non analisti con la quale mi incontro ormai da molti anni.
Accolgo l’opportunità di pubblicare, ancora una volta1, la testimonianza scritta di un lavoro minuto e capillare di contagio e di ricerca, così come lo preparo pensando a chi mi ascolta, con le perplessità e le ripetizioni che implica una simile esperienza.
Propongo perciò al lettore che non conosco di prendere l’aspetto randagio delle mie idee come segno di una ricerca in corso destinata a tentare, a errare e a reiterare, non sempre suo malgrado, ma spesso per sottolineare, per contraddirmi, per ricordare e per vagabondare.
GRdM
22 maggio 2019

1 Il riferimento è agli altri due testi, pubblicati da Polimnia Digital Editions, testimoni di alcuni seminari o conferenze tenute negli anni 2016-2017 a Roma, a Perugia e a Formia: Oltraggio nella civiltà-La fine dell’ombra (2016) e I nuovi figli (2017, nuova edizione accresciuta 2019).

NOVITÀ È TRIBUTO DI VERITÀ

1. All’ombra dell’afasia

Gli ultimi due decenni hanno portato con sé – secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck – più che un cambiamento una vera e propria metamorfosi del mondo1.
E con il termine metamorfosi, Beck intende significare che molte delle analisi di un tempo debbono adesso fare i conti non con un semplice cambiamento, ma con una mutazione fondamentale: la mutazione di alcuni parametri interpretativi dell’essere umano che ritenevamo immutabili.
La metamorfosi quindi si identifica nel fatto che quanto fino a ieri era impensabile, oggi invece è reale e possibile.
E la visione del mondo, che sostiene tutto questo, subisce una trasfigurazione che non ha precedenti. Mentre noi percepiamo molto di quanto accade come obbligato: una sorta di viaggio ineluttabile in un territorio che peraltro ci è ignoto.
In effetti la modernizzazione si è imposta con un tale successo – un successo così pervasivo e globale – che (mi chiedo) chi potrebbe rappresentare oggi lo spirito prezioso dell’antimodernità il quale, nel passato, ha avuto così grandi cantori: cantori del disinganno?
Qual è oggi il prezzo di emarginazione e di noncuranza che attende chi fa resistenza alla modernità contemporanea attraverso il dubbio, l’ambivalenza, il disincanto e la nostalgia?
Antoine Compagnon, nel suo libro dedicato al tema, scrive che gli «antimoderni, intempestivi e inattuali sono stati i veri fondatori della modernità e i suoi rappresentanti più eminenti”!2 Perché – precisa – gli antimoderni non sono avversari qualsiasi del moderno, ma piuttosto sono i pensatori del moderno, i suoi più liberi teorici»3.
Ecco una riflessione che oggi non troverebbe udienza. Troppo e prepotente è il trionfo del contrario.
Baudelaire sosteneva che «C’è in ogni cambiamento qualcosa di infame e di gradevole al tempo stesso, qualcosa che ha a che fare con infedeltà e trasloco»4.
Ma una metamorfosi, appunto, non è un cambiamento, non è un trasloco, è piuttosto una mutazione essenziale che rende insensibile ogni soggetto, per esempio, alle improvvisazioni e ai contropiede dell’inconscio.
E tutto questo accade proprio in nome di un potente cliché condiviso.
Ma torniamo a Beck che annovera, tra le metamorfosi, quelle subite dai concetti di maternità e di paternità. Tante, e ormai da tempo, sono le madri che migrano in paesi lontani per guadagnare di più, lasciando a casa i loro figli. Certo si tratta di una grande novità per le relazioni di genere, per la divisione del lavoro tra i sessi e per la posizione delle donne, tuttavia sono novità che non toccano né influenzano le origini della vita umana.
La metamorfosi del mondo in rapporto alla maternità e alla paternità inizia, invece, nel momento in cui il concepimento può essere plasmato dalla tecnologia medica. E così – proprio in nome di una vecchia visione delle cose e in nome di una concezione tradizionale della famiglia – si è cominciato a fabbricare la vita umana.
«Ci sono epoche che esprimono: – scrive Mandel’stam nel 1922 – disinteresse per la persona umana, e dicono che bisogna usarla come mattoni e cemento e farne il materiale e non il fine della costruzione. Un’architettura sociale si misura con la dimensione della persona. Talvolta si fa ostile alla persona e alimenta la sua grandiosità con l’umiliazione e l’annichilimento individuale» 5.
E noi apparteniamo a un’epoca del genere? Noi che stiamo progressivamente fabbricando l’essere umano come un oggetto.
Intanto, via via, nascono nuove opzioni, nuove forme e nuove relazioni che però il linguaggio non sa nominare, manca delle parole e dei concetti adatti a esprimerle: a esprimere qualcosa di mai esistito finora, ma di cui il singolo inconscio potrebbe voler lasciare intatti sia l’inconcepibile che l’innominabile.
Del resto, penso che esista anche un aspetto orrorifico della metamorfosi, fondamentalmente dovuto all’eccesso di realtà di cui ciascuno rischia di diventare preda senza accorgersene, trasformandosi e assumendo fogge senza veli, senza enigma né altra forma di erranza.
Insomma una persona singola e quindi singolare, una volta aggredita dalle deformità di una metamorfosi tecnologica, si trova a essere inghiottita di fatto dal realismo di un’identità seriale: resa perciò prevedibile, quando non addirittura auspicabile.
L’idea d’identità che abbiamo oggi, nell’èra dei comportamenti, elimina dal gioco peculiarità e sorpresa, condannando le sviste e gli errori. La nostra attuale idea d’identità elude e contrasta, per definizione, tanto le incognite della divisione soggettiva quanto le sfumature di alterità che ci abitano. Dunque: poiché identità è sempre di più compattezza, raggiunta prima di sapere e di cercare; poiché è il centro concluso del nostro essere, la metamorfosi si prospetta come una soluzione realistica con cui proteggersi dai desideri erranti ed erronei.
In altre parole, la metamorfosi deturpa il soggetto, fissandolo in un’identità di massa, fin troppo catalogabile per essere vera. Un’identità in cui deroghe o devianze dai protocolli di successo sono abolite e inconcepibili. La metamorfosi perciò – avvalendosi di un repertorio di soluzioni stereotipate per l’esperienza comune – può persino produrre, in tempi rapidi, un adattamento dell’ambiente impensabile e un nuovo inatteso conformismo.
Ma in questo modo (mi chiedo e vi chiedo) non si spegne – allagandola col più triviale luogo comune (magari ispirato all’enfatica della naturalità e dell’amore materno) – la singolarità di ogni singola esperienza?
Prendiamo l’esempio della maternità surrogata: non si cancella, attraverso di essa, il desiderio di non avere quel bambino?
Non si perde così – con questa metamorfosi dell’origine della vita – il fascino oscuro e inquietante della verità che sta al fondamento dell’impresa: come l’uso prostitutivo del ventre di un’altra donna con i relativi aspetti inconsci masochisti, sadici e imperialisti?
Non si strappa al piccolo nato il mondo di suoni e di parole preliminari all’atto della sua nascita, per rassicurarsi e rassicurarlo che prima non sia successo nulla… salvo il trionfo delle nostre innumeri possibilità?
Del resto: persino i defunti oggi possono concepire e far nascere i figli.
E allora il sociologo ci dice che sta sorgendo in questo mondo una normativa nuova, ispirata alla forza dei fatti, per formulare la quale però ci mancano i concetti e le parole.
E questa nuova normalità nascerebbe all’ombra dell’afasia.
Bene: è proprio del termine afasia e della sua ombra che mi voglio giovare per provare ad articolare un interrogativo che riguarda questo tempo capovolto. Capovolto dalla scienza, dal digitale e dalle più spregiudicate tecnologie.
E intanto mi chiedo: che cosa accade alla psicanalisi, nata all’inizio di un secolo che ormai appare remoto, di fronte all’impatto sconcertante con tutto questo?
Che ascolto può offrire la ricerca analitica laddove la ricerca etica vacilla e la legge del limite fallisce, mentre cose mai accadute prima diventano realtà?
Ebbene: penso che innanzitutto possa offrire lo smascheramento del fatto che la più attuale e inquietante forma di afasia sia quella che riguarda oggi ogni singolo soggetto il quale, assorbito dalle metamorfosi del mondo, viene privato del proprio inconscio e perciò destinato non tanto a colmare di acronimi e di luoghi comuni ciò che ancora non ha un nome (e magari sarebbe bene che lo aspettasse un po’, il nome), quanto piuttosto a compensare con una lugubre poltiglia di parole ciò che non sa né vuole sapere.
Insomma a me sembra, amici, che la nostra vera afasia sia la logorrea. La logorrea che ci inonda e a cui rischiamo di non fare più caso.
La parola oggi sembra non servire ad altro che a comunicare ovvero a emettere enunciati, espropriati del vuoto e del mistero, necessario al dire.
L’erogazione della parola, oggi, deve essere rapida come se contasse dire il più possibile. E così la frase non respira più e noi ascoltiamo una sorta di miscuglio sonoro che tende a colpire, a frastornare e a rimpinzare.
Anche questo miscuglio è un mo...

Table of contents

  1. Indice
  2. Presentazione
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Nota ai testi
  6. L’altro perduto