NUOVI ARRIVI. VECCHIE PRESENZE
Estate 2014
Ogni volta che udivo il cigolio della grande porta a vetri che si apriva sulla strada, mi dirigevo verso quell’apertura che, magicamente, introduceva allo scorrere della vita, con tutta la velocità che mi consentiva il corpo un po’ traballante e carico d’anni, ma ancora colmo di una curiosità così viva che poteva sembrare addirittura fanciullesca.
Là fuori la vita pulsava e io, in qualche modo, me ne sentivo parte ancorché escluso.
Quasi sempre, tuttavia, restavo deluso perché, da quel sipario trasparente, non entrava nessuno che conoscessi, che m’inducesse al sorriso spontaneo, a un vitale «ti ricordi di me?», bensì uno sconosciuto d’età indefinibile con una borsettina ben stretta in mano e con addosso una maschera che mi faceva pensare che fosse sul punto d’assistere a una tragedia, o ne fosse nel bel mezzo, dato che si guardava intorno smarrito, accompagnato da chissà chi, che non gli concedeva neppure uno sguardo.
Tuttavia era successo, ma poche volte, che il tizio o la tizia entrasse con un accenno di sorriso stampato sul volto segnato, e non saprei dire se si era trattato d’un sorriso ebete oppure forzato dalla ineluttabilità delle circostanze; a volte mi sembrava soprattutto un sorriso imbarazzato, generato di certo dalla propria timidezza; qualche volta, peggio, perché dissimulava la paura, nella consapevolezza che doveva fare i conti con una realtà che gli pareva di intuire essere poco entusiasmante, ma alla quale non poteva sottrarsi.
Rare volte, invece, ero stato più fortunato perché avevo assistito all’arrivo apparentemente baldanzoso di un nuovo possibile ospite e dunque di un possibile amico, pronto a raccontare di sé e delle sue mirabolanti avventure; il nuovo arrivato era scortato da qualche familiare dall’andatura decisamente disinvolta e sbrigativa che trainava un trolley di ampie dimensioni. Mi sembrava allora evidente che la decisione era stata già assunta, dall’accompagnatore, presumo. Quella possibilità era testimoniata dal trolley, soprattutto se era di ampie dimensioni. “Buon segno” mi dicevo convinto.
Allora capitava, in quella circostanza, che il nuovo arrivato mi fissasse per un attimo con uno sguardo che sembrava essere fiero, a cui di solito replicavo lanciandogli il mio migliore sorriso di benvenuto, con l’intenzione di rassicurarlo circa la mia sincera disponibilità ad accompagnarlo in questa nostra specie di ultimo fantasmagorico viaggio. Ma poi succedeva, quasi sempre, che il nuovo arrivato d’un tratto togliesse la maschera e il sorriso sparisse e mostrasse il suo vero volto, e allora, anche in lui, potevo leggere tutto il suo sbigottimento, la sua delusione, il suo tormento, il senso di vuoto entro cui era precipitato suo malgrado.
Mi trovavo da solo a fare quella sorta di cerimonia di benvenuto che, ovviamente, al mio arrivo non mi era stata riservata; ciononostante nessuna di quelle persone a cui avevo donato il mio sorriso sincero, nel momento in cui il mondo aveva girato loro le spalle, successivamente, voglio dire una volta preso possesso della propria stanza e dopo essere stato appunto indotto, con le buone o le cattive, a considerare in modo definitivo che lì doveva restare, mi aveva cercato con l’intenzione di tendermi a sua volta la mano, di scambiare due parole che non fossero di circostanza. E così dovevo dire addio a tutte quelle storie che immaginavo potesse narrarmi.
Naturalmente me ne ero fatto una ragione e con un po’ di tristezza avevo scrollato le spalle, cosicché, poco alla volta, avevo ridotto le mie incursioni verso la porta d’ingresso, finendo per fregarmene alla grande di chi arrivava, con il risultato che qualche volta mi ero trovato a condividere il pasto di mezzogiorno con persone mai viste fino a quel momento. Una spiacevole situazione, devo dire, e l’imbarazzo che avevo provato all’inizio si era tramutato prima in menefreghismo, e poi in scocciata occhiata dei nuovi arrivati sapendo che avrei dovuto condividere obbligatoriamente con loro gli spazi e gli oggetti messi a nostra disposizione. Era certo, tra l’altro, che potevo trovarmi di fronte a qualche bel rompicoglioni.
Qualche volta, se ero particolarmente fortunato, capitava di spiccicare due parole buttate lì, in una sorta di conversazione che durava un niente, dato che quasi sempre si trattava di scambiare banali opinioni sulle bizze che faceva il tempo là fuori, oppure che, in fondo, qui non si stava malaccio, che “il mangiare”, alla fine, non faceva schifo e che c’era di peggio. Tutto qui.
Così non sapevo preventivamente chi era entrato e quando, se era un maschio o una femmina, se era molto grande o non troppo, se aveva lo sguardo intelligente o no, se potevamo diventare amici o no, fintanto che non me lo trovavo davanti; ma non era più la stessa cosa perché la magia dell’accoglienza generosa e franca che all’inizio mi aveva pervaso era svanita, e poco importavano dopo il sesso, l’età, oppure lo sguardo. Restava soltanto in loro lo smarrimento, e in me la presa d’atto della nuova presenza.
***
Dunque, mi era sfuggita l’entrata di due tizi che, in una mattina piena di nuvole e promettente pioggia battente, parlavano tra loro seduti al tavolo accanto al mio dove stavo leggendo una rivista della settimana precedente; non mi importava affatto che fosse datata perché tanto, mi dicevo, “le notizie, gira e rigira, sono sempre le stesse”.
Uno dei due tizi, quello secco e forse alto per via di quelle sue grandi e ossute mani, che mi era sembrato un po’ malmesso nell’aspetto e con uno sguardo cupo e deciso, diceva all’altro, che aveva un’aria così smarrita che sembrava un’anima in pena in cerca d’immediato conforto, con un tono di voce che non ammetteva discussione o repliche, che era del tutto inutile che se la prendesse così di petto, che non c’era nulla da fare perché loro, oramai, non erano altro che «vuoti a perdere», insomma roba da discarica, niente di più.
Accidenti! «Vuoti a perdere», aveva detto. Quella definizione era talmente brutale che mi aveva provocato uno scossone così forte che mi sembrava d’aver ricevuto un colpo durissimo alla bocca dello stomaco al punto di togliermi il fiato.
Poi aveva aggiunto: «Viviamo nel più totale abbandono mio caro amico, e devi, dobbiamo, rendercene conto. Qui il futuro non esiste! L’oggi è il nostro futuro! Un po’ pochino, ma è di questo che ci dobbiamo accontentare. Che ti piaccia o no. E gli affetti? Dico, sai dirmi dove sono andati a finire? Prima, voglio dire quando camminavamo svelti e avevamo la battura pronta, oltre al portafoglio spesso aperto, gli affetti c’erano tutti intorno a noi, così carini, gentili. Cazzo che affetti che avevamo! Come ci vogliono bene, pensavamo. E dopo? Dopo eccoci qui a parlare di come erano travolgenti e veri quei benedetti affetti, di come eravamo noi, di come erano loro. Beh oggi ti dico che parlavamo del nulla, dato che non c’è rimasto nulla. Non so se mi sono spiegato…».
Poi se ne era andato lasciando l’altro, l’amico, o presunto tale, ancora più smarrito di prima se possibile, di certo impaurito, immobile sulla sua sedia di legno cigolante e sgangherata, più o meno come lui, a fissare un punto davanti a sé. Un punto immaginario, perché su quella parete bianca non c’era nulla, nemmeno un banale quadretto, una stampa, un calendario del cazzo, un crocifisso, insomma non c’era niente di niente. O forse puntava le spalle dell’amico, o il ricordo delle spalle dell’amico perché si era già dileguato. O stava pensando? Sì, non avevo sbagliato, l’amico era molto alto e molto secco.
***
Non era stato un bel modo di cominciare la giornata, perché sentire, alle otto di mattina o giù di lì, una sfuriata del genere, mi aveva scombussolato da capo a piedi a dir poco. Insomma ne ero rimasto particolarmente colpito, ecco.
«Nel più totale abbandono…», aveva detto il tipo alto e secco.
Non avevo mai pensato all’abbandono come a uno stato nel quale io sarei potuto precipitare. Né, di certo, conoscevo il suo significato come dire… “morale”, a cui mi sembrava facesse riferimento il tizio alto e secco, dato che nemmeno ero sicuro che esistesse veramente un significato “morale” di abbandono.
Non mi restava che colmare la lacuna tentando di cercare il significato di quella parola con quel diavolo di smartphone che avevo usato, fino a quel momento, sì e no dieci volte, soprattutto per il fatto che era piccolo e scivoloso. L’avevo comperato prima di entrare qui dentro perché era in offerta, perché volevo cimentarmi anch’io con la modernità, perché ce l’avevano tutti, anche i bambini di dieci anni e quindi…, mi ero detto, “perché io no!?”
“Allora eccomi qui”, avevo biascicato un po’ perplesso, “devo cercare intanto la ‘A’ e poi il resto. Sì, ma devo restare calmo, anche se quest’aggeggio diabolico m’innervosisce; calmo, calmo, altrimenti rischio di fare cadere quest’accidenti di telefono e di non combinare niente di buono”.
E dunque: “A” come “Abbandono”.
Avevo faticato molto a trovare il tasto della “A”, condendo la ricerca con sacramenti irripetibili.
Mi stavo perdendo d’animo, Gesù benedetto! Quando, poi, all’improvviso, avevo lanciato un liberatorio “no, no, eccolo!, l’ho trovato il gran bastardo!”
Tuttavia, nonostante l’impegno, non riuscivo a pigiare come si deve quel minuscolo bottoncino per via di uno stupido tremore che da tempo stazionava impertinente sulla mano sinistra, solo su quella ma, scalogna vuole, ch’io sia mancino in ogni cosa che faccio ma non nello scrivere; lo dico per caso non si fosse intuito quanto la iattura m’accompagni imperterrita da tempi remotissimi, e non intenda cessare la sua provocante aggressione, soprattutto quando devo fare qualcosa di importante, che m’interessa veramente.
Riflettendo su questa mia difficoltà, avevo pensato seriamente che si trattasse di una vendetta congegnata dal destino, a causa di un qualche misfatto che avrei commesso, quando e come non saprei dire, proprio non ricordo, o fingo di non ricordare per comodità, s’intende! Comunque sia, avevo concluso “se è davvero così, forse vuol dire che me lo sono meritato e che il sommo dispensatore di punizioni, quella pena ha stabilito per me e amen”.
“Insomma”, mi ero detto risoluto, “ora mi concentro, non mi faccio prendere dall’ansia che di solito m’accompagna in molte situazioni che reputo problematiche e…”, finalmente ero riuscito a centrare quel maledettissimo tasto.
L’avevo imbroccato dopo aver studiato la situazione che mi era sembrata patetica, forse anche quasi drammatica, poiché il dito indice non seguiva la traiettoria dell’occhio, per cui finiva sempre per cadere su un altro bottoncino, non so quale, che doveva essere per forza quello dell’audio, perché subito una voce idiota mi diceva: «Adesso puoi parlare».
Ma di che cosa avrei dovuto parlare? E a chi avrei dovuto parlare? Mah! Allora avevo cambiato strategia: avevo mirato al tasto di destra e il dito era caduto su quello giusto, quello che ha sopra la lettera “A” e poi, fatta esperienza, il resto era venuto quasi da sé.
Era stata una grande soddisfazione vedere lo spazio bianco con una barretta riempirsi con le le...