capitolo 1
I riflessi economici dei rapporti tra legislazione,
giurisdizione e regolazione dallo Stato liberale all’epoca post-moderna
1.1 le variabili intersezioni tra sistema giuridico e rapporti economici
I rapporti tra l’economia e le scienze giuridiche sono da sempre sofferti. Gli studiosi e i pratici delle due materie in costante e strisciante conflitto, non da oggi, si guardano con una certa diffidenza. Già Federico Caffè accennava a un incontro intellettuale, quello tra giurista ed economista, assai difficile. Ciò non “significa, tuttavia, che non debba avvenire”, concludeva il grande economista abruzzese. Del resto, da un punto di vista metodologico, l’indagine economica investe lo studio “di ciò che è”, atteggiandosi in questo a scienza positiva; tuttavia, essa si occupa anche “di ciò che dovrebbe essere”.
Non diversamente, gli studi di diritto sono caratterizzati da due anime che segnano la compresenza della necessità di comprendere e descrivere i fenomeni che danno luogo alla produzione di regole, ma, al contempo, di cogliere la direzione che si vorrebbe imprimere all’ordinamento giuridico.
Di qui l’esigenza preliminare di individuare i terreni di incontro tra l’economista e il giurista, sul piano del metodo. Vi è, innanzitutto, un tema di ordine terminologico, dal momento che l’attività economica presuppone categorie di natura giuridica, così come il diritto si avvale di nozioni elaborate dalla scienza economica. I riferimenti alle figure e ai concetti sono, dunque, biunivoci e imprescindibili.
L’intera lunga marcia delle organizzazioni sociali, secondo ordini, ceti e, infine, attraverso il formarsi delle embrionali statualità è stata segnata dal contatto, talvolta non esplicito, tra strutture dell’economia e istituti giuridici.
Nella fase successiva, con l’epoca moderna, prende il via il processo di progressiva affermazione dello Stato sui particolarismi giuridici, per cui si afferma la necessità di sviluppare discipline di portata generale, funzionali, naturalmente, all’intensificarsi dei commerci che si riteneva potessero essere ostacolati dalle differenze di stratificazione locale degli usi normativi. Speculare a questa esigenza, si sarebbe prospettata, in seguito al perfezionamento della costruzione degli Stati, la necessità di difendere i mercati dall’esterno. Per conseguenza, i rapporti tra diritto pubblico ed economia non mutano attraverso lo sviluppo dello Stato assoluto e poi di quello di polizia. Tuttavia, tra il XVI e il XVII secolo uno scontro epocale vede contrapporsi sul terreno culturale, religioso e ideale, i cattolici e i riformati in Europa; ma ad affermarsi in via definitiva è l’economia mercantile. Il vero momento di trasformazione è, dunque, quello dell’avvento delle monarchie costituzionali. È a questa altezza che l’istituzione politica Stato deve far fronte alle esigenze “della potenza più fatale dell’epoca moderna: il capitalismo”.
Le riflessioni e gli studi analitici sul rapporto tra le due scienze si intensificarono con l’avvento dello Stato liberale; quest’ultimo rende infatti evidente la relazione tra la regolazione giuridica e lo sviluppo del capitalismo industriale e del modello di società che su di esso si fonda.
L’attesa per un profitto calcolabile, lo sfruttamento delle possibilità di scambio pretendono lo sviluppo di un ambiente giuridico pacifico e razionale, che tra l’altro non tollera più gli eccessi di schematizzazione verticistica e l’accentramento del potere in un solo nucleo egemonico. È su queste basi che si realizza una prima parte dell’organizzazione capitalistica del lavoro così che si sviluppano in virtù di questa evoluzione le relazioni industriali.
Sono due, tuttavia, i fondamentali riferimenti culturali maturati tra il XVIII e il XIX secolo che hanno influenzato l’evoluzione dei rapporti tra economia e diritto: da un lato l’archetipico pensiero di tradizione liberista, in base al quale, per dirla con Adam Smith, “ciascun individuo finché non viola le leggi della giustizia è lasciato perfettamente libero di perseguire il suo interesse nel modo che vuole”. Invece, secondo l’impostazione marxista il diritto è asservito alla logica dell’economia come espressione egemonica di una classe dominante. Dunque, “il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari della classe borghese”. Ne discende l’inevitabile e celebre conclusione per cui il diritto, in quanto sovrastruttura dei rapporti materiali, può essere compreso a fondo soltanto attraverso lo studio dell’economia, cioè in chiave derivata e non primaria.
L’approccio liberale che muove alla ricerca dell’ambiente giuridico più favorevole, se non proprio ideale, allo sviluppo economico si incarna negli studi di Max Weber; essi si rivelano seminali nel fondare l’equazione razionalità-modernità e nello sviluppo delle conseguenze, sul piano del progressivo adattamento delle istituzioni giuridiche alle trasformazioni delle strutture economiche. Non a caso, l’intellettuale tedesco individua nell’esigenza di prevedibilità e calcolabilità del diritto uno dei tratti che caratterizzano il sistema capitalistico. Il rischio da scongiurare, secondo Weber, risiede nell’ipotesi che il capitalismo, in mancanza di una produzione legislativa certa, preferisca agire con scorribande al limite del legale o persino con atti predatori, piuttosto che nel rispetto di limiti legislativi friabili e incerti.
Nel XX secolo, il dibattito subisce un’evoluzione vorticosa. In Italia, si diffonde un’adesione larga all’idealismo crociano, il quale si mostra decisamente sensibile al primato della politica e quindi, in certo senso per proprietà transitiva, al recupero di centralità delle categorie giuridiche rispetto alle strutture economiche. Del diritto si mette in luce, allora, la preminenza specifica e si ribadisce la funzione ordinante; una concezione, quindi, che tende ad affermare la primazia del diritto sull’economia, ma pur sempre in chiave di contenimento di fenomeni irrazionali e degli effetti che già si intuivano non agevolmente dominabili. Venate da un’inquietudine di fondo, infatti, risuonano le parole di Capograssi, secondo cui: “ad una prima osservazione il diritto si presenta sì come il mezzo dell’economia, ma un mezzo autonomo, che appena evocato, si mette ad operare per conto suo, attua e manifesta una vita potente e sua, tanto da aiutare e sorreggere, ma anche scompigliare e disordinare, tutta quella che sarebbe la vita puramente economica dell’esperienza”. Si scorge la consapevolezza delle difficoltà del diritto a farsi fattore di stabilità; al contempo, però, se ne conferma la funzione ineliminabile e primaria rispetto a fattori economici all’apparenza indomabili.
Nello scenario della prima parte del Novecento irrompe la teoria keynesiana, secondo la quale le esigenze di equità, di redistribuzione e di crescita dell’economia di mercato, impongono un intervento pubblico di regolazione, così da correggerne le anomalie. Lo sviluppo teorico e pratico delle politiche monetarie e l’analisi delle misure volte a favorire i cicli espansivi del reddito, nonché a contrastare le fasi recessive, affondano le radici proprio nel presupposto delle molteplici leve dell’intervento pubblico nell’economia degli Stati nazione. Intanto il dibattito culturale è vivacissimo proprio in Italia, dato che nel 1931 il confronto tra Luigi Einaudi e Benedetto Croce attiene all’inscindibilità o meno di libertà politica e libertà economica e, in definitiva, tra liberalismo e liberismo. Tuttavia, i più fini giuristi sembravano a un tratto aver raggiunto la conclusione di metodo alla base del rapporto tra le due scienze, così riassumendolo: “la vita economica raggiunge i suoi fini, in quanto il diritto le presta le sue forme e le sue forze”.
Ma in Europa, a disarticolare questo ordito, giunge la graduale affermazione di scelte di distribuzione del reddito e, nello specifico, di politiche attive incentrate proprio su finalità perequative.
È questa la prospettiva di riferimento che prelude, pur dopo l’interruzione dovuta alla tragica esperienza fascista, alla redazione, nel secondo dopoguerra, delle disposizioni della Costituzione italiana dedicate ai Rapporti economici.
Notevole rilevanza sortiscono, naturalmente, i principi sanciti dagli articoli 41 e 42 della Carta fondamentale. Essi recano la disciplina dell’iniziativa economica privata libera che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale; inoltre, tali disposizioni regolano il regime della proprietà privata, riconosciuta e garantita dalla legge. Proprio la legge parlamentare può determinarne i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale. In questa espressione che fa ingresso nell’art. 42 della Costituzione, vi era certamente l’idea di contenere i termini “dell’eterno campo di battaglia tra chi possiede e chi non possiede”.
Il binomio proprietà e libertà di impresa viene dunque posto al vertice dei valori cui conformare l’organizzazione dei poteri pubblici economici. Ma la Costituzione sviluppa su questi fondamenti anche i rapporti tra individuo e autorità, nella prospettiva di un sistema economico effettivamente liberale. Esso convive con un avanzato impianto di protezione sociale, proiettato alla tutela dell’eguaglianza sostanziale e alla protezione universalistica dei diritti della persona, nonché al sostegno al lavoro. Gli accenni, pur non assenti in Costituzione, alla programmazione e pianificazione economica, pietra angolare dei sistemi socialisti, si risolvono in disposizioni rivelatesi dal valore assai relativo, se non meramente simbolico.
Sul piano delle dinamiche della proprietà pubblica e privata, la storia repubblicana è segnata da tendenze non dissimili da quelle sperimentate in tutto il mondo occidentale. All’iniziale espansione della mano pubblica, attraverso la gestione dei beni e delle aziende direttamente in mano ai poteri statali e delle autonomie territoriali, fa seguito un graduale recesso dal dominio diretto, parallelamente al declino dell’intervento statale nell’economia.
Dunque, la regolazione dei settori in chiave di garanzia della partecipazione e di tutela della concorrenza, si salda con l’indirizzo volto a ridurre la proprietà pubblica e ad abbandonare la gestione diretta di beni e servizi. Quest’ultimo è un processo integrato e apparentemente inarrestabile, sostenuto dall’evoluzione del quadro giuridico continentale e dal mutamento di dimensioni dei mercati concorrenziali che non consente più la gestione pubblica dell’attività imprenditoriale, al cospetto del mondo largo dei rapporti economici e finanziari. A fronte del recesso dello Stato imprenditore, si profila, sin dalla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso, il tema della sostenibilità dello Stato sociale, specie in presenza delle patol...