Crescere non basta. Economia e società in America latina
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Ugo Pipitone

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Crescere non basta. Economia e società in America latina

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Dopo oltre quarant'anni di dittature e velleitari tentativi di rivoluzioni terzomondiste, l'America latina si è incamminata sulla strada della democrazia, del cambiamento e dello sviluppo economico. Una trasformazione accompagnata da profondi rivolgimenti sociali e dall'avvento di una classe politica e di governi di centro-sinistra che hanno posto le basi della rinascita del subcontinente. Una rinascita attraversata da contraddizioni, luci e ombre, discusse da un importante analista e studioso dell'America latina.

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Capitolo 1 | Persistenze, novità

L’America latina costituisce un sesto della superficie terrestre e il 7-8% della popolazione e del Prodotto lordo mondiali. Qui si trova un quarto della terra arabile e quasi un terzo dell’acqua dolce del pianeta. Aggiungiamo una comune storia coloniale iberica, due principali lingue latine e una tradizione viva di disparità sociale e istituzioni fragili come tratti largamente comuni a più di venti paesi con una storia indipendente di due secoli, escludendo Cuba e Brasile. Ma sotto la coltre lessicale comune, le differenze non sono poche.
Agli estremi, il Messico, con una popolazione a maggioranza meticcia, e l’Argentina, assieme a Cile e Uruguay, con popolazione prevalentemente di origine europea. E tra questi poli, la Bolivia, con maggioranza indigena, e Cuba e Brasile, con importante presenza nera e mulatta. Su una popolazione di quasi 600 milioni, 40 milioni sono discendenti delle popolazioni originarie e si concentrano soprattutto tra sud del Messico, America centrale, Ecuador, Perù e Bolivia. Seguendo la linea delle differenze interne alla regione, il Prodotto interno lordo pro capite (a parità di potere d’acquisto), oscilla tra circa 15mila dollari in Argentina, Messico e Cile, 8-9mila in Ecuador, Colombia e Perù e 5mila in Bolivia, Paraguay e Guatemala. Una distanza interna di tre volte che è circa la stessa tra la regione nel suo insieme e, per esempio, Germania o Canada. Il tasso di povertà in Argentina e Cile gira attorno al 10% della popolazione mentre, nell’altro estremo regionale, arriva al 55% in Guatemala e Honduras[1]. Il tasso di povertà dell’intera regione si riduce da 41 al 31% tra 1980 e 2010. Storia e cultura danno all’America latina forti tratti di omogeneità ma, evidentemente, il fondo unitario non esclude enormi differenze attuali che, spesso, non sono recenti.
Gli ultimi due decenni hanno portato la ripresa dell’economia e il ritorno della democrazia, quanto meno nella versione restrittiva, ma determinante, di partiti in competizione ed elezioni libere. Tra 1990 e 2010 il Pil pc torna a crescere a tassi superiori al 2%, come nel periodo di maggior dinamismo economico del secolo passato, tra gli anni quaranta e l’inizio degli anni ottanta. Una crescita recente associata tanto alla stabilizzazione macroeconomica della regione come alla domanda di materie prime dalla Cina, che alimenta grandi flussi di esportazioni latinoamericane di soia, rame, minerali ferrosi, eccetera. Grazie alla domanda cinese, dall’inizio degli anni novanta, i prezzi internazionali delle materie prime si duplicano in termini reali, ciò che evidentemente favorisce una regione con grandi risorse naturali. Se nei venti anni anteriori al 1990 i prezzi delle materie prime (escludendo il petrolio) si erano contratti, nel ventennio successivo succede esattamente il contrario, con conseguente impulso dell’economia regionale. Sul fronte della democrazia sarà sufficiente ricordare che alla metà degli anni settanta del secolo scorso, esistevano elezioni libere solo in tre paesi: Costarica, Colombia e Venezuela. Da allora, e con l’unica esclusione di Cuba, il resto della regione si è liberata da antichi e recenti regimi autoritari (militari o no), ristabilendo condizioni minime di vita democratica.
Nella sua storia indipendente, la regione ha conosciuto due importanti stagioni di crescita economica, 1870-1914 e 1940-1982. In entrambe la durata dell’accelerazione è stata di quattro decenni, ma questi prolungati cicli di crescita non hanno impedito la conservazione di un’acuta disuguaglianza nonostante i cambiamenti economici intervenuti. La terza ondata di crescita, iniziata negli anni novanta del secolo scorso, accumula fino a ora due decenni ma, come le precedenti, conserva un’alta concentrazione della ricchezza anche se con una significativa riduzione della massa di povertà. I segnali sono misti. Se si considera l’insieme del periodo tra 1950 e 2010, la crescita media del Pil pro capite è stata del 1,3% contro il 4% dell’Asia orientale. E mentre all’inizio di questo periodo il Pil pc latinoamericano costituiva il 30% di quello degli Stati Uniti, sei decenni dopo si è ridotto al 21%.
Sull’onda della recente ripresa economica latinoamericana, riaffiora un ottimismo che suppone una rottura in atto del tempo ciclico della regione, e cioè del susseguirsi di accelerazioni e retrocessi tra persistenti fragilità strutturali e politiche. Latinobarómetro, prestigiosa ong con sede a Santiago del Cile, misura dal 1995 valori e atteggiamenti della popolazione latinoamericana. Nell’edizione 2011 del suo rapporto si legge:
Con un reddito medio di 10mila dollari non siamo poveri e non c’è dubbio che andiamo verso lo sviluppo in questo primo decennio del secolo. [L’America latina] è la terra delle opportunità, dove si costruisce a passi da gigante la classe media, la borghesia benestante, si smantellano le piccole oligarchie, si massificano i diritti, si espande l’educazione, la salute e soprattutto l’industria del tempo libero.[2]
E invece qualche dubbio c’è, soprattutto verso l’affermazione “non siamo poveri”, per non parlare dell’abusata “terra delle opportunità” in una regione dove la distanza tra ricchi e poveri è maggiore che in qualsiasi altra parte del mondo. Di fronte a precedenti ondate di ottimismo, l’ironia brasiliana coniò una battuta fulminante: il Brasile è la terra del futuro... e continuerà a esserlo. Il futuro luminoso dietro l’angolo è stato annunciato troppe volte, sull’onda della crescita economica, per essere ancora credibile. Per un secolo intero, dal 1870, l’America latina è stata la regione di maggiore crescita mondiale[3] senza che questo alterasse in modo fondamentale le coordinate di un’arretratezza che si conserva fino a oggi in termini di bassa produttività e alta segmentazione sociale. Enrique Iglesias, antico direttore della Cepal (Commissione economica per l’America latina delle Nazioni Unite), dice: “Abbiamo la grande opportunità di essere grandi fornitori di materie prime del mondo asiatico”
[4]. E viene da chiedersi quali paesi al mondo abbiano conseguito la fuoriuscita dall’arretratezza sulla base dell’esportazione di materie prime. Crescere è certamente condizione ineludibile ma non è sufficiente. Si può crescere senza uscire dall’arretratezza e la storia secolare dell’America latina è lì a dimostrarlo.
Anche il passato collettivo, come l’infanzia, è destino? Se fosse così, Svezia, Giappone, Corea del sud o Singapore dovrebbero essere ancora spazi di arretratezza come furono un secolo e mezzo fa nei primi due casi o solo alcuni decenni orsono negli altri due. E quindi, il passato non è destino ma, riconosciamolo, nel caso latinoamericano, viene la tentazione di pensarlo. Ed è quello che la letteratura registra con un miscuglio variabile di fatalismo e irritazione. Uno scrittore peruviano dice: “Qui cambiano le persone, mai le cose”, e uno cubano risponde: “La storia che si ripeteva, si mordeva la coda, trangugiava se stessa”.[5]
Si starà rompendo in questi anni il tempo ciclico in cui la novità è catturata dalla ripetizione, dall’eterno ritorno che riproduce il passato in forme rinnovate? Una domanda senza risposte ovvie. Come sapere se le novità di oggi non saranno ingabbiate nel futuro (o non lo sono già nel presente) dalla forza gravitazionale di quello che per comodità, o per mancanza di perspicacia analitica, chiamiamo arretratezza? Sono passati due secoli dall’indipendenza della maggior parte di queste terre, il tempo dei servi e dei signori è scomparso ma la regione continua a essere la più polarizzata del mondo. L’uomo più ricco del mondo è un messicano e non c’è motivo di sorpresa, meno ancora d’orgoglio nazionalista, in uno dei paesi tra i più disuguali del mondo governato in gran parte del Novecento da uno stesso partito che si è successivamente chiamato Partito nazionale rivoluzionario, Partito della rivoluzione messicana e, finalmente, in piena fioritura surreale, Partito rivoluzionario istituzionale. I surrealisti (come Artaud, Buñuel o Breton) amavano il Messico per l’incantamento esotico dell’imprevisto, dell’inimmaginabile. Dove, pensando a oggi, i poliziotti che vigilano a Città del Messico i crocevia di alcuni quartieri si assentano qualche minuto per dar modo ai delinquenti collusi di assaltare automobilisti e passanti, tornando subito dopo per manifestare la propria sollecitudine verso le vittime. Il surreale quotidiano.

Stato, disuguaglianza, populismo

Riconosciamo alcune tra le maggiori persistenze: la mediocre qualità dello stato, la sperequazione dei redditi e la tenacia nel tempo di una cultura populista che trapassa i decenni come vincolo di fedeltà con un passato abbellito dal tempo trascorso. Tre dimensioni che si intrecciano e si alimentano reciprocamente con istituzioni deboli che hanno bisogno di accordi corporativi per dare sostegno popolare alla propria scarsa credibilità; con la segmentazione sociale che riduce la capacità di controllo democratico delle istituzioni e con il populismo che, come un clientelismo di massa, frantuma il senso dello stato nella società e nello stato stesso. Uno stato che, tra inefficienza, debolezza del servizio civile di carriera e dipendenza dell’amministrazione pubblica dal governante di turno, disgrega sistematicamente le basi della propria incerta consistenza. Un tormento di Sisifo. La stessa politica pubblica ha conseguenze differenti dipendendo dalla qualità delle istituzioni. Uno stato debole – nella sua organizzazione sistemico-razionale e nella sua legittimazione sociale – è facilmente catturato da interessi oligarchici o clientele capaci di orientarne le politiche.
Nei processi di fuoriuscita dall’arretratezza la credibilità istituzionale è probabilmente importante come l’accumulazione di capitale, e sarebbe agevole mostrare dal punto di vista storico come le due condizioni si siano generalmente intrecciate. Con la maggiore eccezione cilena (come si vedrà nel terzo capitolo), l’America latina continua a essere uno spazio di istituzioni deboli in cui, troppo spesso, il presidenzialismo imperiale[6] (come un potere con pochi contrappesi) costituisce una compensazione in chiave decisionista che aggrava l’infermità che vorrebbe sanare. Le forme liberali si intrecciano con residui di tradizioni autoritarie e con il frequente distacco culturale delle élite dalle società che governano. Come se parte dello spirito dell’antico conquistador, sebbene modernizzato, si aggirasse ancora da queste parti alla ricerca di rapidi guadagni senza troppe responsabilità. “Vivono nel paese come in un hotel” diceva Ernesto Sabato[7].
L’altra traccia di continuità (di inconsapevole fedeltà alla tradizione) è la radicale disuguaglianza sociale che, con crescita economica o senza, si conserva nel tempo come una fragilità incorporata che riduce il senso di responsabilità sociale, frena l’espansione dei mercati e la possibilità di scalare maggiori livelli di produttività, limita la capacità sociale di controllo delle istituzioni ed è ribadita nel tempo da un eccesso di offerta di lavoro che l’economia non assorbe frenando una marcia sincronica di produttività e benessere. Disuguaglianza significa scarsa fiducia reciproca e un debole senso di solidarietà non solo tra gruppi sociali diversi ma all’interno dello stesso gruppo. Le inchieste d’opinione aiutano a misurare la fiducia interpersonale. Chiedendo alle persone in che grado è possibile avere fiducia negli altri, la media latinoamericana si attesta sul 22%, un dato sostanzialmente stabile negli ultimi quindici anni, contro il 70% che prevale nei paesi europei[8]. Se non si ha fiducia in chi ci sta attorno, come pensare in azioni collettive capaci di ampliare diritti e migliorare condizioni di vita? La disuguaglianza produce la sfiducia che la retroalimenta.
La sfiducia non è un dato vagamente antropologico e fuori dal tempo, è il risultato di percorsi storici e politici. Un esempio. Nel Guatemala di maggioranza indigena maya, dagli anni quaranta del secolo scorso comincia una sequenza di sconfitte nei tentativi di riforma agraria dei presidenti Arévalo e Arbenz, nel secondo caso con il golpe militare del 1954 organizzato dagli Stati Uniti. È seguita la sconfitta di una guerriglia rurale con significativo appoggio contadino e indigeno. Nel 1982, con il governo golpista di Ríos Montt, si moltiplicano i massacri di contadini, maestri rurali e l’insieme della popolazione sospettata di qualche simpatia verso la guerriglia. L’80% delle vittime della repressione sono maya. E sull’onda del (più che comprensibile) pessimismo di un’etnia tragicamente impossibilitata a cambiare le proprie condizioni di miseria, Ríos Montt ritorna alla presidenza attraverso elezioni democratiche nel 2003 e, questa volta, con l’appoggio di un mondo indigeno che cerca nel clientelismo una risposta individuale a problemi che né i tentativi di riforma, né la guerriglia avevano potuto affrontare con successo. Nelle elezioni del 2007, la candidata maya, premio Nobel della pace, Rigoberta Menchú, ottiene il 3% dei voti[9]. La sfiducia è molto di più che un dato genericamente culturale.
Le istituzioni che raccolgono maggiore fiducia nello scenario latinoamericano attuale sono, nell’ordine: chiesa, radio e televisione. E, lasciando da parte la chiesa, è sufficiente una conoscenza superficiale della radio e, soprattutto, della televisione in America latina per percepire la gravità alienante della fiducia riposta in strumenti di comunicazione che fanno, in generale, della disinformazione interessata e dell’insulsaggine i propri tratti distintivi. Per aggravare il quadro, all’ultimo posto della fiducia sociale si trovano i sindacati e i partiti politici. E quindi, uno stato di bassa efficacia e credibilità e una società che stenta a credere a se stessa.
Il populismo è l’altra (ricorrente) continuità latinoamericana. Una cultura latente che ciclicamente rinasce caratterizzando interi periodi di storia nazionale o regionale. Gli ingredienti sono diversi e si presentano sempre con sfumature e accentuazioni non facili da assimilare meccanicamente al contenitore del populismo. Come dice l’antropologo messicano Roger Bartra, siamo di fronte più a una cultura che a un’ideologia[10]. Elenchiamo senza alcuna pretesa comprensiva alcuni tratti di un fenomeno che contrassegna il passato e il presente, soprattutto dalla fine del secolo scorso in vari paesi andini. L’ingrediente principale è il leader carismatico che esalta il popolo come una massa indifferenziata i cui interessi si fondono e confondono in nome di un manicheismo etico con nemici variabili secondo gli umori e bisogni politici del leader stesso. La sfiducia nel sistema dei partiti (molto spesso giustificata) è l’altro tratto distintivo che canalizza speranze e aspirazioni collettive più nell’uomo della provvidenza che nelle regole democratiche e nella capacità di organizzazione sociale autonoma dallo stato. Il leader è il programma. La persona (il caudillo) prende il sopravvento sulle regole e la sua benevolenza verso il popolo diventa garanzia di giustizia. Un moralismo giustizialista che, sempre in nome del popolo, esautora la società della capacità (e a volte del diritto) di autorganizzazione. Nel populismo il conflitto diventa rapidamente cospirazione e il dissenso, complotto contro un mondo esterno fonte di minacce all’integrazione spir...

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