La nuova fabbrica dei sogni
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La nuova fabbrica dei sogni

Aldo Grasso, Cecilia Penati

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La nuova fabbrica dei sogni

Aldo Grasso, Cecilia Penati

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"Da quindici anni Aldo Grasso ci ricorda una verità semplice eppure rivoluzionaria: le serie televisive americane sono i prodotti artistici che più hanno plasmato l'immaginario collettivo contemporaneo, grazie non solo alle nuove tecnologie di diffusione digitale, ma anche e soprattutto a una raffinatezza tecnica e stilistica sempre più nitida.Che mostrino gli abissi morali in cui può sprofondare un frustrato professore malato di cancro o la dolorosa impossibilità di un pubblicitario newyorkese di sfuggire alle menzogne patinate che confeziona ogni giorno; che raccontino le turbolente vicende sentimentali di una giovane dottoressa alle prime armi, o l'epopea, defl agrata in infinite dimensioni parallele, dei sopravissuti a un disastro aereo, le serie tv hanno saputo dare forma ai desideri e agli incubi che popolano il reale. E ci hanno reso dipendenti.Nella Nuova fabbrica dei sogni, Aldo Grasso e Cecilia Penati accolgono la sfida a cartografare la galassia delle serie televisive – dai Soprano a The Wire, da House of Cards a The Walking Dead, dal Trono di spade a Breaking Bad – passando per i personaggi più iconici, i colpi di scena più plateali, e soprattutto per i nuovi demiurghi dell'immaginario, gli showrunner, che accentrano ogni aspetto della produzione artistica: autori blockbuster come Shonda Rhimes e J.J. Abrams e artisti autenticamente radicali come David Simon e David Chase. Per affermare il loro nuovo ruolo sono saliti sulle spalle di giganti come Alfred Hitchcock, Rod Serling e David Lynch, che con serie come Alfred Hitchcock presenta, Ai confini della realtà e Twin Peaks hanno saputo creare straordinari universi finzionali, riversando la loro forte autorialità in un dispositivo di produzione schiettamente pop.La nuova fabbrica dei sogni – quella che, grazie a Don Draper e Tyrion Lannister, Dale Cooper e Rusty Cole, ha ormai soppiantato Hollywood – non è solo una guida imprescindibile per chiunque voglia affacciarsi al mondo delle serie tv, ma una ricognizione profonda e attenta, in cui anche gli appassionati di lungo corso scopriranno nuova linfa per le loro «ossessioni seriali»."

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2016
ISBN
9788865765159
La nuova fabbrica dei sogni

La serialità americana come genere televisivo

di Aldo Grasso
Nel corso degli anni duemila, la serialità televisiva americana ha occupato, a livello globale e nella televisione italiana, uno spazio particolare, diventando oggetto di una valorizzazione importante nei palinsesti di reti dedicate e (parzialmente) di canali generalisti, e insieme scatenando una riflessione teorica e critica con pochi precedenti nel discorso pubblico, sia amatoriale sia specializzato. Questa rinnovata attenzione ha contribuito allo stabilirsi delle serie di origine produttiva statunitense come un genere vero e proprio, a se stante, differente da altre forme di fiction.
In questo processo, si sovrappongono tra loro più aspetti differenti, che portano però a conseguenze simili, o comunque procedono nella stessa direzione.
Da un lato, nel contesto statunitense, in particolare a cavallo tra gli anni novanta e il nuovo millennio, la serialità televisiva si è trovata al centro di una vera e propria Golden Age, di un momento prolungato di felicità linguistica e creativa che ha portato alla messa in onda di titoli estremamente importanti, caratterizzati insieme da elevati valori produttivi, da una scrittura seriale di ottimo livello, da performance attoriali all’altezza, da temi capaci di inserirsi appieno e in modo rilevante nelle grandi questioni del contemporaneo, e ancora – fattore non trascurabile – da un grande favore del pubblico, con successi capaci di unificare la comunità televisiva (o almeno alcune generazioni) e di sviluppare fenomeni di fandom. Sia la televisione generalista (i cosiddetti «network»), sia la tv via cavo (da Hbo a Showtime, passando per i canali definiti basic cable, come Amc), sia ancora (in anni più recenti) i nuovi operatori, legati a forme di distribuzione online (come Netflix e Amazon), hanno contribuito a ridefinire il genere delle serie televisive, rendendolo cruciale e rilevante, oggetto di discorso condiviso continuo (e continuamente ripreso dai media), e trasformando almeno alcuni titoli in veri e propri brand, capaci di fidelizzare il pubblico e di moltiplicarsi in innumerevoli sequel e spin-off. In particolare le televisioni cable hanno dato origine a un nuovo modello produttivo, caratterizzato da un numero limitato di titoli e da grandi investimenti, con il coinvolgimento di personalità letterarie e cinematografiche nel ruolo di sceneggiatori e registi, e a un linguaggio inedito, capace di affrontare temi anche molto spinosi con estrema libertà, di dare forma televisiva al male e a molteplici figure di antieroi, di mettere in scena sullo schermo il sesso, la violenza, i temi etici e morali estendendo gli spazi di visibilità del mezzo e la sua capacità di inserirsi al centro delle sfide della contemporaneità. Come risultato, le serie americane sono diventate, nel dibattito pubblico e nella riflessione accademica, perfetti esempi di quality television, una tv «di qualità», in grado di sviluppare al meglio i linguaggi e i modelli produttivi contemporanei, fatta di programmi «da vedere» (must-see), rivedere e commentare, emblema di una testualità che svolge lo stesso ruolo della letteratura e del cinema per la sua capacità di fornire una visione artistica del mondo, di sviluppare narrazioni complesse, articolate e multistrand, di rappresentare in modo complesso e ricco le grandi questioni della modernità, di coinvolgere a più livelli un pubblico vasto, popolare e mainstream e insieme l’élite più colta e raffinata, gli opinion leader. Nell’ultimo saggio appena uscito in Francia La géopolitique des séries, ou le triomphe de la peur, il politologo Dominique Moïsi espone il trionfo della paura attraverso l’analisi delle serie tv, «espressione perfetta della globalizzazione e delle emozioni che attraversano il mondo». E aggiunge: «Quel che mi affascina è notare come l’America usi la denuncia delle sue debolezze per invadere l’immaginario del pubblico, proprio nel momento in cui non ha più la volontà o i mezzi per essere il gendarme del mondo. Il soft power dell’America continua a progredire, nel momento in cui l’hard power si indebolisce considerevolmente. Solo che questo soft power descrive un’America in condizioni apocalittiche».1
Dall’altro lato, percorsi almeno in parte simili avvenivano anche all’interno del contesto culturale e dello scenario mediale italiano. Ancora una volta, nei primi anni duemila, si verifica un importante scarto nel rapporto tra il pubblico nazionale e le serie di provenienza americana, esemplificato in modo pieno da uno slittamento linguistico: dal «telefilm» – testo-riempitivo che almeno dagli anni ottanta ha colonizzato ogni anfratto dei palinsesti delle reti commerciali e poi anche di quelle pubbliche, oggetto fruito in modo relativamente semplice, costantemente replicato e ripetuto, trasmesso in ordine spesso casuale e considerato «basso», triviale – alla «serialità televisiva americana» – un vero e proprio genere a se stante, che viene valorizzato nei suoi contenuti e nelle sue forme, cui viene riservata un’attenzione quasi «filologica» rispetto alla messa in onda, che trova spazio su appositi canali dedicati rivolti a un pubblico specifico, a un target pregiato anche per gli investitori pubblicitari, e che diventa persino un contenuto premium, che giustifica una spesa ad hoc dello spettatore (per l’abbonamento ai canali, per i cofanetti dvd, per il merchandising ecc.) – il salto, e il cambio di orizzonte, è radicale. Anche in Italia, questo passaggio è stato sostenuto da una forte attenzione sia critica sia accademica che, soprattutto nella seconda metà degli anni duemila, ha trovato sbocco in libri, rubriche ad hoc, riviste specializzate, collane di volumi, festival dedicati (sul modello di quelli cinematografici) e una pubblicistica variegata rivolta a fan, appassionati, studiosi o semplici curiosi. Così come la cable television negli Stati Uniti, un ruolo determinante è stato svolto in questo caso dalle piattaforme digitali, prima satellitari e poi anche terrestri, a pagamento o gratuite, che nell’ambito di un più generale passaggio al multichannel del mezzo televisivo, hanno costruito canali, brand e offerte composite dedicate alla serialità americana, da un lato per accontentare un pubblico già affezionato e soddisfare i suoi bisogni e le sue necessità, e dall’altro per portare questo tipo di contenuti e di narrazioni seriali a una nuova audience.
Sono questi mutamenti, sia più generali, sia specifici rispetto al caso italiano, a sottolineare il valore della serialità televisiva americana come genere, come modello narrativo, come forma linguistica originale, come stile specifico. La dimensione seriale garantisce il dispiegarsi delle storie lungo molteplici episodi e stagioni, crea mondi e universi narrativi popolati e «ammobiliati» (secondo la definizione di Umberto Eco) entro cui muoversi, genera un’attenzione costante e ripetuta e un legame anche affettivo con personaggi che si vedono crescere, cambiare, sbagliare, riprendersi. L’intreccio tra la dimensione della produzione e della messa in onda e il mondo «reale» entro cui questi contenuti seriali sono fruiti genera forme di rispecchiamento tra lo spettatore e i personaggi, di connessione e di mescolamento tra realtà e finzione, di connessione tra la narrazione e il mondo sociale, politico, culturale in cui tutti ci muoviamo: la serialità diventa lo «specchio» di una realtà, quella americana, che contribuisce sia a costruire (popolandola con i contenuti e i personaggi della fiction) sia a decifrare (consentendo, a volte più di molte analisi giornalistiche, di comprendere le grandi tensioni sociali contemporanee, il ruolo dei media, le evoluzioni della politica o del diritto, l’impatto delle nuove tecnologie e così via), la porta sullo schermo, la rielabora in forme inedite e (spesso) profonde. Ancora, la serialità televisiva americana attinge dalla memoria condivisa, fatta di altre narrazioni (letterarie, cinematografiche, epiche) e della storia della nazione, e insieme diventa parte integrante di questa memoria, bagaglio comune di un pubblico spesso trasversale ai paesi e alle generazioni, portatrice di un’American way of life sempre più globale e insieme delle sue difficoltà e contraddizioni. Il telefilm, frutto di un sistema di produzione e distribuzione di stampo industriale, che lavora sui grandi numeri (di titoli, come di pubblico) e che nel tempo ha sviluppato vere e proprie «culture della produzione», riesce così a essere profondamente nazionale e insieme a dialogare in modo attivo con un pubblico internazionale e globale, grazie anche agli standard qualitativi elevati, alla bellezza formale e alle modalità di costruzione narrativa degli episodi, alla messa in scena di un contesto socio-culturale specifico, come quello americano, ma capace di «parlare» a un pubblico più ampio e di lasciarsi attraversare dalle più importanti tensioni (etiche, sociali, politiche, culturali) della contemporaneità avanzata. Le serie americane, insomma, sono un genere dalla forte specificità, pienamente inserito nel sistema industriale e culturale nazionale statunitense, e insieme un prodotto fortemente esportabile, con cui anche il pubblico italiano può entrare in relazione grazie al particolare mix di vicinanza e di alterità culturale che ci lega agli Stati Uniti.

Morte del romanzo?

Nel 2007 ho pubblicato con Mondadori un libro che si intitola Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri. Per la cultura italiana del periodo era un azzardo, ma i motivi che mi avevano spinto a scrivere il saggio (che qui ripropongo in parte e con alcune modifiche) erano più che solidi: il successo planetario di alcune serie tv ormai entrate nell’olimpo dei classici, la riproposizione in chiave attuale della serialità (una forma narrativa non certo inventata dalla tv ma che rivelava allora nuove dinamiche della creatività, ritmi inediti imposti dalla produzione industriale), il ricco repertorio di citazioni, attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, e il bagaglio di strutture narrative «rubate» a modelli alti.
L’aspetto più curioso era rappresentato dalla diffidenza degli intellettuali. La tv era pur sempre una «cattiva maestra», non poteva promettere nulla di buono. È impensabile che la serialità abbia ucciso il romanzo, gli abbia tolto il ruolo egemone di testimone dello spirito dei tempi. Ma se continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, allora forse è venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri, al cinema ma anche ad altri media e generi. Come la serialità americana, appunto. La fiction è una delle poche riserve televisive dove è possibile incontrare la «scrittura», quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia romanzesca. Quanto a scrittura, al racconto si chiede di darsi per intero in ciascuno dei suoi frammenti, in ciascuna delle sue manifestazioni; sul supporto cartaceo o su quello schermico ciò che muta è solo il linguaggio, non la «forma-romanzo». Tempo fa, Jonathan Franzen dichiarava che le serie tv «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv…». E Vince Gilligan, lo showrunner di Breaking Bad, ci svelava il suo metodo: «Mostrare più che raccontare negli anni novanta era un concetto radicale… Sono orgoglioso quando per quattro-cinque pagine di copione non ci sono dialoghi fitti eppure si racconta comunque qualcosa».
In un celebre discorso, Milan Kundera sosteneva che il bene più prezioso della cultura europea – il suo rispetto per l’individuo, il suo rispetto per il pensiero originale – è deposto «come in uno scrigno d’argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo».2 Quello di cui prima di tutto dobbiamo prende atto è che questa saggezza non ci appartiene più, da tempo si è trasferita negli Stati Uniti, un paese che crede ancora ai sogni, anche a quelli culturali.
La «forma-romanzo», dunque, non è morta ma sta migrando verso nuovi e differenti media. Si tratta di un processo che possiamo osservare in tutta la sua chiarezza oggi che il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento: il telefono, così come l’abbiamo conosciuto e usato per anni, non è più solo un telefono; i giornali stanno mutando pelle e contenuti; la tv non è più la tv, ma i suoi contenuti viaggiano con sempre più facilità su altre piattaforme. I media si ibridano e si fondono in un’unione di più strumenti del comunicare, e, insieme, cambiano profondamente i modi di distribuire e consumare i loro contenuti. Com’è noto, si tratta del fenomeno della convergenza, che tecnicamente significa proprio l’unione di più mezzi di comunicazione, un amalgama reso possibile dalla tecnologia digitale. Ma quello della convergenza non è solo un processo tecnologico, o scandito dalla tecnologia: è anche un cambiamento antropologico, un’attitudine culturale che incoraggia gli utenti a creare connessioni tra diversi testi, a usare le tecnologie sempre meno come strumenti per comunicare e sempre più come nuovi territori da esplorare, e i media non come semplici protesi, ma piuttosto come ambienti in cui siamo immersi e in cui viviamo la nostra esperienza quotidiana.
Bisogna spiegare che la convergenza è una tendenza al meticciato e all’ibridazione che coinvolge non solo le tecnologie e i device, ma anche i linguaggi e le forme testuali: anche quelle più antiche e archetipiche come il romanzo si modellano e si plasmano intorno a nuovi «contenitori». La serialità televisiva, certo. Ma anche altri media presentano tracce evidenti della persistenza di un modello narrativo che trova nuova linfa in forme inaspettate: per esempio, molti dei videogame più recenti e di successo sono modellati sul canonico «viaggio dell’eroe» che Joseph Campbell ha identificato come la formula narrativa alla base di molta letteratura.
Insomma, tra il romanziere e la figura dello showrunner la linea sembra essere sempre più sottile, tanto che il processo vale anche all’opposto: grandi executive producer seriali come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, Matthew Weiner e David Simon si sono guadagnati sul campo la qualifica di «autore», un tempo prerogativa esclusiva di territori nobili come la letteratura e il cinema.

La meglio tv

Adesso che alcune serie come Sex and the City, Lost, I Soprano, The Wire, Breaking Bad e True Detective hanno ottenuto un grande successo «di pubblico e di critica» diventa più facile sostenere che la buona tv, la tanto ricercata tv di qualità, esiste. Anzi, non c’è mai stata una tv tanto vitale, intelligente e ricca di risonanze metaforiche e letterarie come l’attuale. Sembra quasi un paradosso ma spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm. C’è in giro, per esempio, un’opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del Male più avvincente di Twin Peaks?
Destino vuole che la cattiva tv, la nostra quotidiana cattiva tv, generi un’orda sterminata di cattivi discorsi sulla tv: come sempre, la moneta falsa scaccia quella vera per convincerci dell’inevitabilità del trash. Martin Winckler ha scritto: «La televisione è un’idra a tre teste. Una delle sue bocche riversa sullo spettatore un fiume di parole e di discorsi rozzi, assertivi, manipolatori: dalla televendita alla discussione ideologica passando per i giochi di massa, i dibattiti di società e le risse da salotto. La seconda cerca o finge di spiegare il mondo attraverso programmi d’informazione, documentari, testimonianze. La terza sussurra fiction… Ispirate al mondo umano, come lo sono quelle della letteratura e del cinema, (le fiction) lottano senza posa per diventare migliori, con humour e dignità. E per rendere, di rimando, il mondo migliore».3
Da quando in Italia le reti satellitari hanno permesso di seguire con regolarità le serie televisive, ci si è finalmente accorti che il telefilm è il genere che meglio d’altri rappresenta le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni. Naturalmente, la straordinarietà di molti telefilm sta nella scrittura con cui queste vicende si legano e si dipanano, si sostengono e si rilanciano nell’obbligatorietà degli appuntamenti settimanali. Sorrette, in genere, da un’ottima sceneggiatura e da un ritmo calibratissimo, le storie presentano quasi sempre più risvolti: uno «esterno» e uno «interno»; uno pubblico, riguardante un tema che coinvolge la comunità, e uno più intimo. Gli americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono mettere in scena i molti tormenti da cui sono afflitti, scelgono di renderli in questo modo casi esemplari, ricordi incancellabili, apologhi notturni.
Da alcuni anni, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro: le immagini non vogliono dire soltanto quello che mostrano ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo. La sensazione è che nei telefilm americani si lavori per un tipo di pubblico il cui profilo sta diventando sempre più in...

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