Il secondo sesso
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Il secondo sesso

Simone de Beauvoir

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Simone de Beauvoir

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Nel 1949 esce «Il secondo sesso» che fece, allo stesso tempo, successo e scandalo. Con veemenza da polemista di razza, de Beauvoir passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna e i relativi attributi. In questo saggio l'autrice si esprime in un linguaggio nuovo, parla di controllo delle nascite e di aborto, sfida i cultori del bel sesso con "le ovaie e la matrice". Affronta temi il tema della sessualità, il lesbismo, la prostituzione, l'educazione religiosa e la maternità, indicando alle donne la via per l'indipendenza e l'emancipazione. Provocando il pubblico conservatore, de Beauvoir cerca riconoscimento personale e solidarietà collettiva, e li avrà: l'opera, di respiro universale, è diventata una tra le fondamentali del Novecento. Prefazione di Julia Kristeva. Postfazione di Liliana Rampello.

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LIBRO SECONDO

L’ESPERIENZA VISSUTA

Che disgrazia essere donna! tuttavia, il male peggiore per una donna consiste nel non capire che è un male...
KIERKEGAARD
Per metà vittime, per metà complici, come tutti, del resto.
J.-P. SARTRE

Introduzione

Le donne di oggi stanno distruggendo il mito della femminilità; e cominciano ad affermare concretamente l’indipendenza che spetta loro; ma tale volontà di vivere integralmente la condizione dell’essere umano non va disgiunta nella donna da un travaglio molto penoso. Educate da donne, in un mondo femminile, sono comunemente destinate al matrimonio che in pratica le assoggetta ancora all’uomo; il prestigio della virilità è tutt’altro che al tramonto: ha sempre solide basi economiche e sociali. Occorre dunque indagare con cura il destino tradizionale della donna. Io cercherò di descrivere in che modo la donna fa il noviziato della sua condizione, come la esperimenta, in quale ambito si trova imprigionata, quali evasioni le sono concesse. Solo così potremo capire i problemi specifici che si pongono alle donne; le quali, eredi di un doloroso passato, vogliono però foggiarsi un avvenire nuovo. Quando adopero le parole «donna» o «femminile» evidentemente non mi rifaccio a nessun archetipo, a nessuna inalterabile essenza; nella maggior parte delle mie osservazioni bisogna sottintendere «nello stato presente dell’educazione e dei costumi». Qui non si tratta di enunciare verità eterne, ma di descrivere il fondo comune da cui ha origine ogni singola esistenza femminile.

PARTE PRIMA

Formazione

I. Infanzia

Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna. Unicamente la mediazione altrui può assegnare a un individuo la parte di ciò che è Altro. In quanto creatura che esiste in sé, il bambino non arriverebbe mai a cogliersi come differenziazione sessuale. Tanto nelle femmine che nei maschi, il corpo è prima di tutto l’irradiarsi d’una soggettività, lo strumento indispensabile per conoscere il mondo: si conosce, si afferra l’universo con gli occhi e con le mani, non con gli organi sessuali. I drammi della nascita, dello svezzamento avvengono nello stesso modo per i due sessi; l’uno e l’altro hanno i medesimi interessi, gli stessi piaceri; dapprima, la fonte delle loro esperienze più gradevoli consiste nel succhiare; poi attraversano una fase anale in cui traggono le soddisfazioni più intense dalle funzioni escretorie, che sono analoghe per tutti e due; pure analogo è lo sviluppo genitale; esplorano il proprio corpo con la stessa indifferente curiosità; dal pene e dalla clitoride nascono uguali, dubbi piaceri; e, in quanto la loro sensibilità già tende a obbiettivarsi, è diretta verso la madre; la carne femminile, dolce, liscia, elastica, suscita nel bambino e nella bambina stimoli sessuali, che si traducono in un desiderio di prendere, di afferrare; è aggressiva la maniera con cui la bambina, come il bambino, abbraccia sua madre, la palpa, l’accarezza; provano la stessa gelosia quando nasce un altro bambino e l’esprimono in modi analoghi: collera, malumore, disturbi urinari; ricorrono agli stessi vezzi per conquistare l’affetto degli adulti. Fino ai dodici anni la giovinetta è robusta quanto i suoi fratelli, e mostra identiche capacità intellettuali; non vi sono zone dove le sia vietato di rivaleggiare con loro. E, se molto prima della pubertà, o qualche volta addirittura dalla primissima infanzia, ci appare sessualmente già differenziata, non dovremo risalire a misteriosi istinti destinati a farne una creatura passiva, civetta e materna, ma dovremo ricordare che l’intervento altrui nella vita infantile è pressoché originario e che fino da principio la sua vocazione le viene imperiosamente imposta. In un primo tempo, il mondo appare al neonato solo nella forma di sensazioni immanenti; è ancora immerso nel seno del Tutto come quando dimorava nelle tenebre del ventre; che lo allevino alla mammella o col biberon, si sentirà sempre investito dal calore d’una carne materna. A poco a poco impara a percepire gli oggetti come distinti da sé: vuol dire ch’egli comincia a distinguersi dagli oggetti; nello stesso tempo, e in modo più o meno brutale, viene strappato al corpo che lo nutre; talora reagisce a questa separazione con una crisi violenta;1 in ogni caso, nel momento in cui avviene codesta separazione – verso i sei mesi – cominciano ad apparire nel bambino mimiche e graziette, che più tardi si tramuteranno in vere e proprie scene, destinate a sedurre i grandi. Certo, questo atteggiamento non si rifà a una scelta riflessiva; ma non occorre pensare una situazione per viverla. In modo immediato il lattante vive il dramma originario di ogni esistente, che consiste nel suo rapporto con l’Altro. Nell’angoscia, l’uomo prova l’abbandono. Fugge la libertà, la soggettività e vorrebbe perdersi nel Tutto: in ciò risiede l’origine dei suoi sogni cosmici e panteistici, del suo desiderio d’oblio, di sonno, d’estasi e di morte. Egli non giunge mai ad abolire il proprio io solitario: e così almeno egli aspira a raggiungere la solidità della cosa che è in sé, dell’essere pietrificato in cosa; e specialmente quando lo sguardo altrui lo ferma, lo gela, appare a se stesso come un essere. Bisogna interpretare su tale sfondo il modo di agire del bambino: in un aspetto legato alla carne il bambino scopre la finitezza, la solitudine, l’abbandono di un mondo estraneo; e cerca di dare un compenso a codesta catastrofe alienando la propria esistenza in un’immagine che assorbe dall’esterno ogni realtà e valore. Pare che nel momento in cui egli coglie il proprio riflesso in uno specchio – momento che coincide con quello dello svezzamento – cominci ad affermare l’identità sua;2 l’io si confonde così perfettamente con l’immagine rimandata dallo specchio che si dà una forma solo alienandosi. Abbia o no lo specchio propriamente detto una parte così importante, è però sicuro che il bambino comincia ad afferrare verso i sei mesi la mimica dei genitori e a vedersi sotto i loro sguardi come un oggetto. Egli è già un soggetto autonomo che si trascende verso il mondo: ma solo in forma di alienazione può incontrare se stesso.
Quando il bambino cresce, combatte in due modi contro l’abbandono originario. Tenta di negare la separazione: si nasconde tra le braccia della madre, cerca in lei il calore della vita, vuole le sue carezze. Poi, cerca una giustificazione nel consenso degli adulti. Gli adulti sono divinità per lui; hanno il potere di conferirgli l’essere. Ed egli sente la magia di quegli sguardi che a volte fanno di lui un angelo, piccolo e delizioso, a volte un demonio. Queste due maniere di difendersi non si escludono; tutt’altro: si completano, fanno una cosa sola. Quando la seduzione riesce, il bisogno di giustificazione trova una conferma fisica nei baci e nelle carezze: il bambino prova la stessa felice passività nel grembo della madre e sotto i suoi occhi amorevoli. E, nei primi tre o quattro anni, non c’è differenza tra l’atteggiamento dei maschi e quello delle femmine; gli uni e le altre si sforzano di perpetuare la beata condizione che ha preceduto lo svezzamento; negli uni e nelle altre vi sono atteggiamenti ispirati al desiderio di sedurre; il bambino, non meno della sua sorellina, vuol piacere, provocare dei sorrisi, farsi ammirare. È più gradevole negare la lacerazione sopravvenuta che far in modo di superarla, più radicale smarrirsi nel cuore del Tutto che farsi pietrificare dalla coscienza altrui: la fusione fisica crea uno stato d’alienazione più profondo della rinuncia accettata dallo sguardo altrui. La seduzione, il piccolo teatro improvvisato dal bambino rappresentano già uno stadio ulteriore, meno facile del semplice abbandono nel seno materno. La magia dell’occhio adulto è capricciosa; il bambino pretende di essere invisibile, i genitori stanno al gioco, lo cercano a tentoni, ridono e poi d’un tratto esclamano: «Basta, ci annoi, non sei affatto invisibile». Una battuta del bambino li ha divertiti; ma, quando la ripete, alzano le spalle. In un mondo incerto, imprevedibile quanto l’universo kafkiano, si corre il rischio d’inciampare a ogni passo.3 Per questo tanti bambini hanno paura di diventare grandi e si disperano se i genitori smettono di prenderli in braccio e di portarli a letto con loro; nella delusione provano con crudeltà sempre più viva l’abbandono, di cui l’essere umano non può prendere coscienza senza angoscia. C’è però un punto nel quale le femmine sono apparentemente in vantaggio. Quando un secondo svezzamento, meno brutale, più graduale del primo toglie il corpo della madre alle carezze del bambino, succede che baci e tenerezze vengano negati soprattutto al ragazzo. La bambina invece continua a essere circondata da moine, vive attaccata alle gonne della madre, il padre la prende in braccio e scherza con i suoi capelli; i vestiti che indossa sono morbidi come i baci, lacrime e capricci le vengono perdonati, si pone una cura speciale nel pettinarla, le sue smorfiette, le sue civetterie piacciono: carezze e sguardi amorevoli la proteggono dall’angoscia della solitudine. Al ragazzo, viceversa, anche la civetteria è proibita, le manovre di seduzione, le scene che improvvisa per guadagnarsi l’affetto irritano. «Un uomo non chiede di essere baciato... Un uomo non si guarda nello specchio... Un uomo non piange...» Si vuole da lui che diventi «un ometto»; conquisterà la loro approvazione liberandosi di loro. Diverrà simpatico se non cercherà di piacere.
Molti bambini, impauriti dalla severa indipendenza cui vengono condannati, vorrebbero essere femmine; quando si usava vestirli come le bambine, spesso piangevano nel lasciare la sottanina per i pantaloni, nel veder cadere i riccioli. E ve ne sono che scelgono con ostinazione la femminilità, che è poi un modo per orientarsi verso la pederastia: «Desideravo ardentemente essere una donna e spinsi la mia ignoranza della grandezza di essere uomo fino a pretendere di far pipì seduto» racconta Maurice Sachs.4 Ma questa posizione di svantaggio rispetto alle bambine dipende dai grandi progetti che si fanno per il maschietto: la severità cui viene sottoposto implica un’immediata valorizzazione. Nei suoi ricordi, Maurras racconta di essere stato geloso del fratello minore, coccolato dalla madre e dalla nonna; il padre lo prese per mano, lo condusse fuori dalla camera e gli disse: «Noi siamo uomini; lasciamo le donne da sole».
Si fa capire al bambino che i sacrifici che gli vengono chiesti sono una prova della sua superiorità maschile; per sostenerlo nella via difficile che ha davanti, gli predicano l’orgoglio della sua virilità. Per lui questa astratta nozione prende subito un aspetto concreto: s’incarna nel pene; la fierezza verso il piccolo sesso indolente non nasce in lui in modo spontaneo; gli viene istillata dall’ambiente. Madri e balie perpetuano la tradizione che assimila il fallo all’idea di maschio; sia che ne riconoscano il prestigio nella gratitudine amorosa o nella sottomissione, sia che cerchino una rivincita nella piccola umiliata forma del sesso infantile, certo lo trattano con singolare diletto. Rabelais ci racconta i giochi e le parole delle nutrici di Gargantua;5 la storia ha conservato quelle delle nutrici di Luigi XIII. Vi sono anche donne meno sfacciate che danno un soprannome affettuoso al sesso del bambino, che ne parlano come se fosse un piccolo personaggio nello stesso tempo uguale e diverso da sé; ne fanno, secondo la frase citata, «un alter ego generalmente più scaltro, intelligente e abile dell’individuo».6 Anatomicamente, il pene è adattissimo a impersonare questa parte: oggetto staccato dal corpo, è una specie di piccolo giocattolo naturale, una bambola. E valorizzare il suo doppio è un modo di valorizzare il bambino. Un padre mi raccontava che uno dei suoi figli all’età di tre anni orinava ancora seduto; era un fanciullo timido e triste, circondato da sorelle e da cugine; un giorno il padre lo condusse con sé al wc e gli disse: «Ora ti farò vedere come fanno gli uomini». E il bambino, finalmente orgoglioso di saper orinare in piedi, cominciò a disprezzare le bambine, «che pisciano da un buco»; il suo disprezzo non proveniva dall’assenza nelle bambine di un organo come il suo, ma dal fatto che esse non avevano avuto un padre per iniziatore. Così, invece di vedere nel pene un privilegio originario, dal quale il ragazzo trarrebbe un sentimento di superiorità, diremo che la sua messa in valore è viceversa una compensazione – inventata dagli adulti e accettata con ardore dai fanciulli – dei rigori dell’ultimo svezzamento: con quel mezzo, si difende dal rammarico di non essere più un neonato, di non essere una bambina. E più tardi vorrà incarnare nel sesso la sua trascendenza e la sua orgogliosa sovranità.7
Il destino della bambina è molto diverso. Madri e nutrici non hanno per i suoi organi genitali nessuna speciale attenzione o tenerezza; non eccitano la sua curiosità intorno a quell’organo segreto, di cui si vede appena l’involucro e che non si lascia prendere in mano; in un certo senso, la bambina non ha sesso. Ma non sente questa mancanza come una privazione; il suo corpo è evidentemente per lei qualcosa di pieno e completo; senonché ha, nel mondo, un posto diverso da quello del ragazzo; e un insieme di fattori può trasformare tale differenza in inferiorità.
Ben poche questioni gli psicanalisti hanno dibattuto più del famoso «complesso di castrazione» femminile. La maggioranza ammette oggi che la gelosia del pene si presenta in modi assai diversi.8 Prima di tutto, ricordiamo che un’infinità di bambine ignorano fino a un’età già avanzata l’anatomia maschile. La fanciulla accetta naturalmente che vi siano uomini e donne, come c’è il sole e la luna; crede che le parole racchiudano delle entità e la sua curiosità non è in un primo tempo analitica. Per molte altre, quel minuscolo pezzo di carne che pende tra le gambe del maschietto è una cosa insignificante o addirittura ridicola; è qualcosa di singolare che ha lo stesso valore delle differenze nel vestire o nel pettinarsi; spesso la bambina scopre se stessa mediante un fratellino nato da poco e quando è «molto giovane, non viene affatto colpita dal piccolo membro del fratellino», dice H. Deutsch, che poi cita l’esempio d’una ragazzina di diciotto mesi che fu assolutamente indifferente davanti alla scoperta del pene e cominciò ad assegnargli un valore solo molto più tardi, e in conseguenza di sue personali preoccupazioni. Succede anche che il pene venga considerato un’anomalia: un’escrescenza, qualcosa di vago, che pende come un tumore, un capezzolo, una verruca; e può ispirare disgusto. Finalmente, quando la bambina s’interessa al membro del fratello o d’un amico, ciò non deve necessariamente risalire a una gelosia sessuale e ancora meno a un acuto senso della privazione di codesto oggetto; la bambina lo desidera; come desidera tutto; ma quel desiderio può restare in superficie. È certo che le funzioni escretorie e più specialmente le funzioni orinarie interessano con passione i bambini: fare la pipì a letto è spesso una protesta contro l’esplicita preferenza dei genitori verso un fratello. Ci sono dei paesi in cui gli uomini orinano seduti e le donne in piedi; è tra l’altro il costume di molti contadini; ma, nella società occidentale contemporanea, gli usi vogliono che le donne si accoccolino mentre i maschi restano in piedi. Questa è per la bambina la più accentuata delle differenze sessuali. Per fare pipì, deve accovacciarsi, denudarsi e quindi nascondersi; è una schiavitù vergognosa e scomoda. La vergogna aumenta quando, e ciò può avvenire spesso, va soggetta a sfoghi urinari involontari, come sarebbe nel ridere, per esempio; il controllo in lei è meno sicuro che nei maschi. In costoro, la funzione urinaria ha l’aspetto di un gioco volontario, ricco di tutte le attrattive dei giochi in cui la libertà si manifesta; il membro si lascia toccare, muovere ecc., per esso il bambino agisce, e in ciò trova un profondo interesse. Una ragazzina, vedendo orinare un ragazzo, esclamò ammirata: «Quanto è comodo!».9 Il getto d’orina può venire diretto a volontà, l’orina lanciata lontano; il ragazzo ne ricava un senso di potenza. Freud ha parlato della «bruciante ambizione dei diuretici incalliti»; Stekel ha discusso con buon senso questa formula, ma è vero che, come dice Karen Horney,10 «fantasmi d’onnipotenza spesso a carattere sadico vanno spesso uniti al getto dell’orina maschile»; tali fantasmi sopravvivono in alcuni uomini,11 ma sono soprattutto importanti nei bambini. Abraham parla del «gran piacere che provano le donne a innaffiare il giardino con una canna»; penso, d’accordo con le teorie di Sartre e di Bachelard,12 che non sia necessariamente13 l’analogia tra la canna e il pene a provocare tale piacere; ogni getto d’acqua è un miracolo, una sfida a ciò che è grave, pesante; dirigerlo, guidarlo, ha il significato di una piccola vittoria sulle leggi naturali; e il ragazzino trova in questo una quotidiana fonte di divertimento che è negata alle sue sorelle. Soprattutto in campagna, permette di entrare in un minuto contatto con le cose: l’acqua, la terra, la neve, il muschio ecc. Ci sono delle bambine, che, per conoscere questa esperienza, si coricano sul dorso e tentano di far schizzar l’orina «in alto», o che si esercitano a orinare in piedi. Secondo Karen Horney, invidiano al bambino anche la possibilità d’esibirsi che gli è permessa. «Una malata esclamò, dopo aver visto un uomo che orinava per la strada: “Se potessi chiedere una grazia alla provvidenza sarebbe di farmi orinare come un uomo per una volta sola nella vita”» racconta la Horney. Pare alle bambine che il maschietto, che ha il diritto e la possibilità di toccare il proprio pene, possa servirsene come d’un giocattolo, mentre invece i loro organi femminili sono tabù. Naturalmente, questo insieme di fatti ispira a molte di loro il desiderio di un sesso maschile; inchieste di psicologi e confidenze raccolte confermano questa verità. Havelock Ellis14 cita le parole di un soggetto ch’egli designa sotto il nome di Zenia: «Il rumore d’un getto d’acqua, soprattutto se esce da una lunga canna per annaffiare, è sempre stato molto eccitante per me; mi ricorda il rumore che facevano mio fratello e altri quando orinavano, durante l’infanzia». Un’altra, la signora R.S., racconta che da bambina le piaceva infinitamente tenere in mano il pene di un coetaneo; un giorno le fu data da tenere una canna per annaffiare: «Mi parve delizioso averla tra le mani, come se si fosse trattato di un pene». La signora insiste sul fatto che il pene non aveva per lei nessun significato sessuale; ne conosceva solo la funzione urinaria. Il caso più interessante è quello di Florrie, studiato da H. Ellis15 e ripreso più tardi da Stekel:
Si tratta di una donna assai intelligente, sensibile, attiva, normale biologicamente e senza inversioni sessuali. Racconta che la funzione urinaria ha sempre avuto un posto importante nella sua infanzia; aveva inventato coi fratelli dei giochi con l’orina, nella quale immergevano le mani senza nessun ribrezzo. «Le mie prime concezioni della superiorità maschile risalgono agli organi urinari. Mi adiravo con la Natura per avermi privato di un oggetto così comodo e decorativo... Nessuno ha mai avuto bisogno di insegnarmi qualcosa sull’egemonia maschile: ne avevo una prova costante sotto gli occhi.» Le piaceva orinare in campagna; «... ma ciò che maggiormente l’affascinava era orinare nell’acqua». Molti ragazzini sono sensibili a tale genere di divertimento... ma Florrie si lamentava che la forma delle sue mutande le impedisse di darsi a esperimenti che altrimenti avrebbe tentato; spesso, durante una passeggiata in campagna, le avveniva di trattenersi a lungo, per poi lasciarsi andare tutto d’un fiato in piedi. «Mi ricordo perfettamente il piacere strano e proibito che me ne veniva e lo stupore che il getto potesse uscire anche se stavo in piedi.» Secondo lei, la foggia delle vesti infantili ha molta importanza nella psicologia della donna in genere. «Per me, non era solo una noia dover...

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Beauvoir, Simone. (2013) 2013. Il Secondo Sesso. [Edition unavailable]. Il Saggiatore. https://www.perlego.com/book/1095664/il-secondo-sesso-pdf.

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Beauvoir, S. (2013) Il secondo sesso. [edition unavailable]. Il Saggiatore. Available at: https://www.perlego.com/book/1095664/il-secondo-sesso-pdf (Accessed: 14 October 2022).

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Beauvoir, Simone. Il Secondo Sesso. [edition unavailable]. Il Saggiatore, 2013. Web. 14 Oct. 2022.