Open source, software libero e altre libertà
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Open source, software libero e altre libertà

Un'introduzione alle libertà digitali

Carlo Piana

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Un'introduzione alle libertà digitali

Carlo Piana

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Questo libro ci presenta una visione d'insieme sul mondo dell'openness, dal software open source ai servizi cloud, passando per le licenze Creative Commons e gli open data.Tra i primi ad averne fatto l'oggetto principale della propria attività scientifica e professionale, per la prima volta nel panorama italiano l'autore ci offre un quadro sistematico di come realizzare l'apertura e la condivisione di beni intellettuali che altrimenti rimarrebbero riservati. Un fenomeno che, da marginale, è divenuto centrale in vari contesti.L'opera si presenta al lettore in modo chiaro ma non banale. L'autore affronta temi complessi con stile lineare e comprensibile anche ai digiuni di diritto, ma conservando un necessario rigore scientifico, fornendo gli elementi per una teoria generale per la creazione e la promozione di beni intellettuali comuni, o commons.Un approccio rivoluzionario a questa branca del diritto, che capovolge l'uso di strumenti ben noti come il copyright e le licenze, richiedeva l'intervento di un giurista fuori dagli schemi e anticonformista come Piana.

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Information

Publisher
Ledizioni
Year
2018
ISBN
9788867057672
Topic
Law
Index
Law
a Paola e Livia, le mie involontarie cavie intellettuali
Introduzione
Libri sull’open source, software libero, libertà e vari dintorni non mancano, in italiano e in inglese (e probabilmente in cento altre lingue a me più o meno sconosciute!). Simone Aliprandi, col quale ho condiviso alcuni sforzi letterari e divulgativi (con meno successo del summenzionato) dal quale ho saccheggiato parte dei contenuti (soprattutto nel capitolo sulle Creative Commons), si è speso in lungo e in largo.
Altri contributi sono reperibili singolarmente e collettivamente; ad alcuni ho persino dato una mano. Giovanni Ziccardi, Andrea Rossetti, Giovanni Battista Gallus, Francesco Paolo Micozzi, Marco Ciurcina, Marco Ricolfi, Vincenzo Zeno-Zencovich, Luigi Carlo Ubertazzi, Marco Bertani, Flavia Marzano e molti altri (che mi perdoneranno per non averli menzionati tutti) hanno già più che adeguatamente battuto il terreno in Italia. Nel mondo molti altri, che sarebbe troppo lungo qui ricordare, hanno fatto ampia divulgazione, cito solo alcuni coi quali ho la fortuna di interagire di frequente, quali Eben Moglen (Il maestro!), Larry Rosen; Heather Meeker, Pamela Jones con Groklaw, Mark Webbink, e l’immanente Richard Stallman (RMS) hanno più che ampiamente asfaltato un’autostrada su cui modestamente e lentamente mi sono incamminato. E sarebbe impossibile discutere di libertà di software e contenuti senza il contributo essenziale di Lawrence Lessig.
Non è un’area del diritto scarsamente presidiata.
Un libro introduttivo sui concetti di apertura delle licenze per arrivare all’apertura di contenuti – e di qualsiasi cosa sia ristretta da un diritto di esclusiva su beni immateriali –, scritto in modo semplice, immediato e divulgativo, ma sufficientemente rigoroso, sistematico e coerente, in Italiano sull’openness nel diritto, però, come avrei voluto leggere io vent’anni or sono, non c’è. Avevo fatto uno sforzo simile, limitato al campo del software, in uno studio che ho presentato in audizione alla Commissione Giustizia del Parlamento Europeo, durante un workshop sul software libero e open source.1 Ma niente in italiano, né sistematico su tutte le aree di applicazione dell’openness.
Quando la redazione di Tech Economy mi ha chiesto di scrivere in materia di software libero sulla rivista online, mi è parso evidente che si poteva colmare la lacuna in maniera efficiente. Ho iniziato pertanto a scrivere alcuni pezzi avendo in mente di raccoglierli definitivamente, con pochi riadattamenti, in un libercolo in cui anche chi è particolarmente digiuno dei concetti di base possa trovare un concreto avviamento alla materia. Ho testato dunque il capitolo introduttivo (che è stato anche la prima puntata della mia serie di articoli2) con la mia famiglia, e apparentemente dopo molti anni hanno iniziato a capire di cosa mi occupo e cosa ogni tanto cerco di discutere con loro.
Se anche solo due persone, a me particolarmente care, hanno avuto modo di capirci qualcosa, be’, allora sono soddisfatto.
In questa opera non c’è tutto. Non ho parlato di open hardware, per esempio, né di open science, argomenti che mi affascinano e che in certo modo ho anche affrontato. Ma ho cercato di trovare i campi di analisi più rilevanti per una (parolona!) “teoria generale” del diritto dell’openness. Ho cercato di farlo – lo ripeto – in maniera divulgativa e non certamente con un’analisi approfondita (rimando ai numerosi contributi nei vari volumi dell’International Free and Open Source Software Law Review3 per chi volesse approfondire in maniera più articolata). Questo volevo realizzare: dare alcuni fondamenti teorici comuni e spunti di ragionamento a chi volesse raccogliere il testimone e dare un quadro più completo e definitivo.
So far, so good, sono soddisfatto del risultato raggiunto. Alle stampe!
Brevi cenni sull’universo (aperto)
Un detto piuttosto famoso recita più o meno “chi ha come unico strumento un martello, tende a vedere qualsiasi problema come un chiodo”. Sembrerebbe questa la ragione per cui un giurista tenda a vedere qualsiasi tema come un tema giuridico. Mi dichiaro allora colpevole del reato ascritto: vedo l’“open” dal punto di vista giuridico. In questo capitolo discuterò dell’openness, apertura, in tecnologia, in senso generale, per fornire una piccola teoria generale che possa funzionare come guida intellettuale per tutti i capitoli successivi. Mi occuperò in seguito di tutte le sfaccettature dell’open, dall’open source / software libero all’open content, dagli open data agli open standard, dall’open hardware all’open whatever. Questo capitolo è dunque da leggere obbligatoriamente per capire – quale fil rouge – tutto il resto della discussione.
Ma cos’èopen”?
Un altro detto famoso recita “non so cos’è la pornografia, ma la riconosco quando la vedo”. Molti pensano di sapere cosa sia l’open-qualcosa soltanto guardandolo. Ma, pur essendoci qualche affinità di concetti tra la pornografia e i diversi tipi di apertura di cui ci occupiamo, le cose non funzionano così. Per riconoscere cosa è “open” occorre saper riconoscere cosa è “chiuso” e dunque sapere in che modo qualcosa di immateriale possa essere chiuso. Guarda caso, e qui torniamo al punto di partenza, la gran parte dei modi nei quali ciò di cui ci occupiamo viene “chiuso” è una norma giuridica, si chiami esso “copyright”, “brevetto”, “diritto sui generis”, “segreto”. Pertanto, stabilire se quel qualcosa sia aperto, significa stabilire se ricada, o non ricada, in – o sia sufficientemente libero da – vincoli giuridici che ne rendono difficoltoso o impossibile l’uso, la replicazione, la modifica, la diffusione secondo i dettami dell’openness.
Ecco dimostrato: è una questione giuridica.
Ecce homo restrictivus!
Diciamo la verità, l’uomo tende a rendersi comoda la vita. Non che questa sia una tendenza irragionevole o nefasta, intendiamoci. L’innovazione tecnologica e il progresso nascono da questa spinta. A volte però l’uomo tende a usare qualche espediente per ritrovarsi in una situazione protetta. Fino a non molto tempo fa, diciamo fino al nascere della borghesia e alla rivoluzione industriale, l’ambito della protezione promanava da chi deteneva il potere, fosse esso politico o religioso. Alcuni ambiti della vita e dell’iniziativa economica erano strettamente riservati al titolare del potere, il quale aveva pertanto la facoltà di concedere graziosamente (= per grazia) diritti e guarentigie. Risale a questo periodo il concetto di “patente”, come “permesso”, da cui deriverà il termine “patent”, “brevetto”. Inclusa la nefanda “patente da corsa”, che non abilitava a guidare veicoli sportivi in circuiti motoristici, ma a depredare altre navi in nome del Re.
Nelle scienze liberali e nella tecnica, invece, vigeva, da un punto di vista dell’iniziativa economica, una larga libertà. Potere temporale e potere religioso si affiancavano – è vero – nel controllare la libera espressione del pensiero, e anche nella scienza, il professare certe teorie non portava alcunché di buono. Tuttavia, nei rapporti tra “pari” non vi era alcun limite nell’utilizzo di beni intellettuali altrui. Anzi, il concetto dibene intellettuale” non esisteva, non esisteva dunque neanche il concetto di “bene intellettuale altrui”. Addirittura, nel sistema delle botteghe, neppure il diritto morale di essere riconosciuto autore esisteva, le opere erano naturalmente collettive. Se poi uno voleva dipingere un San Sebastiano o una Deposizione dalla Croce, lo faceva prendendo a modello, molto spesso sostanzialmente copiando, pezzi di lavoro di qualcun altro. Se uno voleva creare un tessuto identico a quello visto in un viaggio nelle Fiandre, lo poteva fare, se ne era capace. Il rinascimento nacque così, senza copyright, senza brevetti, in parte senza marchi, senza design, senza diritti sui generis, senza modelli di utilità, eccetera eccetera.
È solo con l’invenzione e la diffusione della stampa a caratteri mobili che si affronta per la prima volta il problema derivante dal fatto che un rilevante investimento, come quello effettuato per l’edizione di un libro, possa venire appropriato da qualcuno che si limiti a copiarlo, con poca spesa. Con la riduzione dei costi di stampa, si rende per la prima volta palese il valore “intellettuale” di creazione dell’opera rispetto al costo materiale di produrre il singolo esemplare. Prima, hai voglia copiare Leonardo o Raffaello dipingendo come Leonardo e Raffaello! Ecco che nasce i...

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