La forma dello spazio profondo
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La forma dello spazio profondo

Shing-Tung Yau, Steve Nadis

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La forma dello spazio profondo

Shing-Tung Yau, Steve Nadis

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Sembra impossibile che spazi più piccoli di quelli che si possono umanamente immaginare, spazi a sei dimensioni, un milione di milioni di milioni di volte più piccoli di un elettrone, siano in grado di esercitare un'influenza tanto profonda su ogni parte dell'Universo da diventarne un tratto distintivo e caratterizzante. Eppure è così.Per la teoria delle stringhe le dimensioni dell'Universo sono dieci: quattro sono le dimensioni spazio-temporali contemplate dalla teoria della relatività generale, le restanti sei (le cosiddette «dimensioni extra») danno forma alle varietà di Calabi-Yau. Nel 1976 Shing-Tung Yau ha conquistato la Medaglia Fields, il premio Nobel dei matematici, per aver dimostrato l'esistenza di queste forme complesse che portano il suo nome, spazi invisibili la cui geometria può essere la chiave definitiva per comprendere i più importanti fenomeni fisici.La forma dello spazio profondo ripercorre le tappe del percorso scientifico che ha portato Yau alla formulazione di una teoria rivoluzionaria, con una nuova possibile immagine dell'Universo.Troppo bello per essere vero: così, spesso, gli scettici hanno liquidato le astrazioni della nuova geometria. L'ipotesi delle dimensioni extra, che riguarda fisica, matematica e geometria, suggerisce non solo che i nuovi spazi possano essere veri, ma che la realtà, ancora una volta, è più affascinante dell'immaginazione.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2011
ISBN
9788865761434
1. Un Universo marginale
L’invenzione del telescopio e il suo progressivo perfezionamento nel corso degli anni hanno corroborato quello che sarebbe poi divenuto un luogo comune: l’Universo contiene più cose di quante ne possiamo vedere. Infatti, lo stato attuale delle migliori conoscenze disponibili ci porta ad affermare che i tre quarti, circa, di tutto ciò che costituisce il cosmo sono concentrati in una forma misteriosa e invisibile chiamata «energia oscura». Il resto, per la maggior parte – con l’eccezione soltanto di quel 4% che compone la materia ordinaria, compresi noi stessi –, prende il nome di «materia oscura». Mantenendo fede al nome che la denota, tale materia si è dimostrata «oscura» sotto ogni aspetto, difficile com’è da vedere e da investigare.
La porzione di cosmo che siamo in grado di vedere forma una sfera il cui raggio è di circa 13,7 miliardi di anni luce. Ci si riferisce a questa sfera, talvolta, come al «volume di Hubble», ma nessuno crede che questa sia la vera estensione dell’Universo. In base ai migliori dati disponibili, sembra che l’Universo si estenda senza limiti, con linee rette che s’irradiano, letteralmente, di qui all’eternità, in qualunque direzione puntiamo.
C’è tuttavia la possibilità che l’Universo sia, in ultima analisi, curvo e limitato. Ma anche se le cose stessero così, la curvatura consentita è così modesta che, secondo alcune analisi, il volume di Hubble che vediamo è soltanto uno dei tanti volumi di tal fatta che pur devono esistere, almeno un migliaio. Tra qualche anno uno strumento lanciato di recente nello spazio, il telescopio di Planck, potrebbe rivelarci che esiste nel cosmo almeno un milione di volumi di Hubble, oltre al nostro, anche se possiamo accedere a uno solo di essi.1 Su questo punto ho fiducia negli astrofisici; ovviamente mi rendo conto che le cifre sopra riportate possono essere oggetto di discussione. Una cosa, tuttavia, sembra incontrovertibile: ciò che vediamo è soltanto la punta dell’iceberg.
All’altro estremo della scala delle lunghezze, i microscopi, gli acceleratori di particelle e i vari dispositivi di visualizzazione continuano a rivelarci l’Universo su scala miniaturizzata, facendo luce su un mondo finora inaccessibile di cellule, molecole, atomi ed entità ancora più piccole. Così stando le cose, nessuna di queste entità dovrebbe tutto sommato destare sorpresa in noi, non più di tanto. Analogamente, abbiamo tutte le ragioni di sperare che i nostri telescopi siano in grado di sondare sempre più a fondo lo spazio, così come i nostri microscopi e altri strumenti d’indagine portano alla luce sempre più cose finora invisibili.
Grazie agli sviluppi della fisica teorica, oltre che ai progressi registrati nel campo della geometria, nei quali ho avuto la fortuna di avere una qualche parte, negli ultimi decenni si è acquisito un altro punto fermo, ancora più sorprendente: non soltanto l’Universo contiene più cose di quante ne vediamo, ma possono esserci anche più dimensioni, probabilmente un po’ più delle tre dimensioni spaziali con le quali abbiamo grande dimestichezza.
È un brutto rospo da inghiottire, dal momento che se c’è una cosa che conosciamo del nostro mondo, qualcosa che i nostri sensi ci hanno comunicato fin dai primi istanti in cui abbiamo avuto consapevolezza delle cose, quando le esploravamo a tentoni, ebbene, questo è il numero delle dimensioni spaziali. Le quali sono, appunto, tre. Non tre, più o meno, per così dire, ma esattamente tre. Almeno così ci è sembrato, da sempre. Ma potrebbe essere – dico: potrebbe essere – che esistano altre dimensioni, così piccole da essere invariabilmente sfuggite alla nostra osservazione. Nonostante la loro modesta estensione, potrebbero svolgere un ruolo importante in una prospettiva che potremmo non avere compreso dal nostro punto di vista tridimensionale, così angusto.
Questo punto di vista può essere difficile da accettare, eppure sappiamo, ormai dal secolo precedente, che tutte le volte che ci allontaniamo dall’ambito dell’esperienza quotidiana l’intuizione può giocarci brutti tiri. Così la relatività speciale ci dice che il tempo rallenta, se viaggiamo a una velocità molto elevata: una cosa che difficilmente riusciamo a intuire facendo affidamento sul senso comune. D’altra parte, se prendiamo un oggetto estremamente piccolo, in base alle leggi della meccanica quantistica non possiamo dire dove esso si trovi esattamente. Se nel corso di un esperimento vogliamo sapere dove sia andato a finire un certo oggetto (molto piccolo), dietro la porticina A o dietro la porticina B, troviamo che non si trova né qui né là, nel senso che l’oggetto non ha una posizione assoluta (e talvolta può trovarsi contemporaneamente in un posto e nell’altro!). In altre parole, potremmo assistere a qualcosa d’imprevisto, e di fatto qualcosa avverrà: ed è anche possibile che fra le cose impreviste possa annoverarsi l’emergere di altre dimensioni, piccole e nascoste.
Se questa ipotesi di esistenza di dimensioni nascoste è fondata, potrebbe esistere una sorta di Universo marginale: diciamo un lotto molto importante di una proprietà immobiliare, ma posto come in disparte, fuori della portata dei nostri sensi. Siamo di fronte a qualcosa di rivoluzionario, su due diversi piani. La sola esistenza delle dimensioni extra – per più di cent’anni un ingrediente della fantascienza – sarebbe sorprendente di per sé: potrebbe essere classificata come una delle scoperte più grandi della storia della fisica. Ma tale scoperta sarebbe in verità un punto di partenza, piuttosto che un punto d’arrivo in sé e per sé. Infatti, come un generale può farsi un quadro più preciso del campo di battaglia osservando le manovre dall’alto di una collina o di una torre, avvantaggiandosi cioè della dimensione verticale, così moltissime leggi della fisica possono acquisire una nuova evidenza, e una nuova possibilità di più immediata comprensione, se considerate da un osservatorio privilegiato pluridimensionale.
Gli spostamenti in tre direzioni fondamentali sono per noi ordinaria amministrazione: ovest-est, nord-sud (o, analogamente, sinistra-destra, avanti-indietro) e giù-su. Solitamente ci muoviamo in qualche combinazione di queste tre direzioni indipendenti: non importa se siamo alla guida dell’automobile per andare dal droghiere o se ci troviamo a bordo di un aereo che ci porta a Tahiti. Abbiamo una tale dimestichezza con le tre dimensioni spaziali che ci sembra impossibile concepirne un’altra, per non dire della difficoltà di capire dove esattamente la nuova dimensione andrebbe a parare. Da tempo immemorabile nutriamo la convinzione che ciò che vediamo è tutto ciò che è alla nostra portata. Ed è così che, più di duemila anni fa, Aristotele nel trattato Del cielo argomentava: «Tra le grandezze, quella che si estende su una dimensione è una linea, quella che si estende su due è una superficie, quella che si estende su tre è un corpo. Non esiste nessun’altra grandezza [dimensione] oltre a queste, dal momento che “tre” equivale a “tutti”».2 L’astronomo e matematico Tolomeo provò a dimostrare, nel 150 d.C., che quattro dimensioni sono impossibili, insistendo sul fatto che non si possono tracciare quattro linee perpendicolari fra loro. Una quarta perpendicolare – sosteneva – sarebbe «completamente priva di misura e definizione».3 Il suo argomento tuttavia più che una prova rigorosa era una riflessione sulla nostra incapacità di visualizzare e tracciare linee in quattro dimensioni.
Per «dimensione» un matematico intende «grado di libertà», cioè una modalità di movimento indipendente nello spazio. Una mosca che ronza sopra la nostra testa è libera di muoversi nello spazio in qualunque direzione consentita. Supponiamo che nello spazio occupato dalla mosca non siano presenti ostacoli: i gradi di libertà sono allora tre. Immaginiamo ora che la mosca si posi sulla piazzola di un parcheggio e che rimanga invischiata in una pezza d’asfalto fresco. Finché è impossibilitata a muoversi, i suoi gradi di libertà sono zero: infatti, è confinata a stare ferma su un singolo punto, in un mondo zerodimensionale. Ma la mosca è ostinata: perciò, dopo essersi dibattuta un po’, riesce finalmente a strapparsi dall’asfalto, anche a costo di rimetterci un’ala. Impossibilitata a volare, adesso dispone di due gradi di libertà: perciò può spostarsi in lungo e in largo sulla superficie dell’area di parcheggio. Quando si accorge che un predatore – per esempio una rana – è lì lì per attentare alla sua esistenza, ecco che la protagonista della nostra storia va a cercare rifugio in un tubo di scappamento arrugginito, abbandonato in un canto del parcheggio. A questo punto la mosca dispone di un solo grado di libertà, essendo – almeno per il momento – intrappolata in un tubo lungo e stretto, ovvero in un mondo lineare (caratterizzato, cioè, come le linee, da una sola dimensione).
Ma la storia non finisce qui. Una mosca che ronza nell’aria, o che – aderendo all’asfalto – è costretta a spostarsi in piano, o che ancora si fa strada procedendo all’interno di un tubo rappresenta tutte le possibili modalità di movimento immaginabili? Aristotele o Tolomeo avrebbero risposto affermativamente. Però, se questa risposta può essere soddisfacente per una mosca non terribilmente intraprendente, non è tuttavia l’ultima parola per i matematici di oggi, i quali tipicamente sono del parere che non vi sia alcuna buona ragione perché ci si debba limitare a tre dimensioni soltanto. Noi matematici siamo convinti che per comprendere appieno un concetto geometrico, come quello di curvatura o di distanza, dobbiamo considerarlo in tutte le sue possibili dimensioni, da zero a n, con n grande quanto si vuole. Non potremo afferrare completamente quel concetto se ci fermiamo a sole tre dimensioni: il punto è che un enunciato – una regola o una legge di natura – che sia vero in uno spazio caratterizzato da un numero qualsiasi di dimensioni, è più potente, verisimilmente anche più fondamentale, di un altro enunciato valido in una sola particolare configurazione dimensionale.
Anche se il problema con il quale si è alle prese è definito nell’ambito di appena due o tre dimensioni, è possibile che utili indizi per la sua soluzione possano scaturire da uno studio in un ambito superiore di dimensioni. Torniamo all’esempio della mosca che svolazza nello spazio tridimensionale, per la quale sono possibili tre direzioni di movimento: la mosca è dotata di tre gradi di libertà. Quindi pensiamo a una seconda mosca la quale, muovendosi liberamente nello stesso spazio, gode ancora di tre gradi di libertà: però il suo ambiente, in complesso, è passato improvvisamente da tre a sei dimensioni, dunque sei sono le possibilità di movimento indipendente. Con un ulteriore sforzo d’immaginazione, pensiamo quindi a più mosche che attraversano lo spazio spostandosi a zigzag. Ciascuna mosca si muove per conto proprio, indipendentemente dalle altre: ecco che la complessità del sistema aumenta con l’aumentare della dimensionalità.
Un vantaggio derivante dalla possibilità di far riferimento a sistemi con un maggior numero di dimensioni è precisamente l’affacciarsi di strutture la cui percezione sarebbe impossibile in uno spazio ambiente più semplice. Nel prossimo capitolo, per esempio, discuteremo il fatto che in un pianeta sferico, ipoteticamente sommerso da un oceano enorme, l’acqua non può defluire tutta nella stessa direzione – per esempio, da ovest a est – in ogni punto del pianeta. Ci devono essere punti dove l’acqua è ferma. Pur applicandosi a una superficie bidimensionale (nel senso che per specificare la posizione di una particella d’acqua sono sufficienti latitudine e longitudine, N.d.T.), questa regola può essere compresa in tutte le sue sfaccettature considerando il problema nell’ambito di un sistema comprendente un numero superiore di dimensioni, idoneo allo studio di tutte le possibili configurazioni, di tutti i possibili movimenti superficiali delle particelle d’acqua. Questa è la ragione per cui insistiamo nel voler spostare l’indagine su un numero superiore di dimensioni: per vedere a quale risultato si potrebbe approdare e che cosa potremmo eventualmente apprendere.
Un numero superiore di dimensioni comporta una complessità maggiore. In topologia, la disciplina che classifica gli oggetti in termini di forma, nel significato più generale di questa parola, ci sono soltanto due generi di spazio unidimensionale: linea aperta (una curva nella quale sono individuabili due estremità) o ciclo (una curva chiusa, senza estremità). Non si danno altre possibilità. Naturalmente la linea aperta può essere spezzata, o un ciclo avere una forma allungata: ma è una questione di geometria, non di topologia. La differenza tra geometria e topologia è un po’ come la differenza che corre tra il guardare la Terra con una lente d’ingrandimento e salire su una navicella spaziale, per considerarla come un tutto. Perciò dobbiamo scegliere se insistere nel voler conoscere ogni minimo dettaglio – ogni crinale, ogni ondulazione e ogni crepaccio della superficie terrestre – o se vogliamo dirci soddisfatti di un quadro d’insieme («un volume sferico molto grande»). Mentre i matematici-geometri hanno il problema – spesso – di stabilire quale sia la forma esatta e la curvatura di un oggetto, i matematici-topologi s’interessano soltanto della forma globale. In questo senso, è possibile affermare che la topologia è una disciplina olistica, in netto contrasto con altre discipline matematiche, nelle quali si procede prendendo in considerazione oggetti di una certa complessità, analizzandoli e riportandoli a una configurazione di un certo numero di frammenti, più piccoli e più semplici.
Relativamente alla nostra discussione sulla dimensionalità, in topologia le forme unidimensionali fondamentali – come si è detto – sono soltanto due: infatti, una linea diritta (o, per essere più precisi, un segmento di retta) è assimilabile a una linea sinuosa; parimenti un cerchio è assimilabile a un qualunque «ciclo» possibile e immaginabile: allungato, con lati curvilinei o anche quadrato. Analogamente, il numero di forme bidimensionali si riduce a due tipologie fondamentali: sfera o ciambella. Per un topologo ogni superficie bidimensionale senza fori equivale a una sfera: rientrano in questa classificazione forme geometriche ben note, per esempio quelle dei cubi, dei prismi, delle piramidi, o anche quelle di oggetti allungati come un cocomero (ellissoide).
figura
Figura 1.1 – In topologia, ci sono soltanto due tipi di spazio unidimensionale, distinti fondamentalmente uno dall’altro: linea aperta e ciclo. Si può trasformare un cerchio in un ciclo di qualsiasi tipo, ma non in una linea aperta, a meno di non sezionare il cerchio.
Le superfici bidimensionali orientabili – nel senso che presentano due facce, come un pallone da spiaggia, che ha una faccia esterna e una interna, invece di un lato solo, come per esempio il nastro di Möbius – possono essere classificate in base al genus, che possiamo pensare, in parole povere, come il numero di fori. Una sfera, di genus zero, cioè senza fori, si presenta fondamentalmente diversa rispetto a una ciambella di genus 1, che presenta un foro. Come nel caso del cerchio rispetto alla linea aperta, non è possibile trasformare una sfera in una ciambella, a meno...

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Yau, S.-T., & Nadis, S. (2011). La forma dello spazio profondo ([edition unavailable]). Il Saggiatore. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1096055/la-forma-dello-spazio-profondo-pdf (Original work published 2011)

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Yau, Shing-Tung, and Steve Nadis. (2011) 2011. La Forma Dello Spazio Profondo. [Edition unavailable]. Il Saggiatore. https://www.perlego.com/book/1096055/la-forma-dello-spazio-profondo-pdf.

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Yau, S.-T. and Nadis, S. (2011) La forma dello spazio profondo. [edition unavailable]. Il Saggiatore. Available at: https://www.perlego.com/book/1096055/la-forma-dello-spazio-profondo-pdf (Accessed: 14 October 2022).

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Yau, Shing-Tung, and Steve Nadis. La Forma Dello Spazio Profondo. [edition unavailable]. Il Saggiatore, 2011. Web. 14 Oct. 2022.