Il brodo indiano
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Il brodo indiano

Piero Camporesi

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Piero Camporesi

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Vascelli olandesi e inglesi, spagnoli e francesi provenienti dall'estremo Occidente o dal lontano Oriente scaricano sui moli d'Europa casse di prodotti nuovi ed eccitanti: erbe indiane, polveri subtropicali, fiori inquietanti, e ovviamente tabacco e tè, cacao e caffè. Un alfabeto di geroglifi ci commestibili arricchisce con nuove meraviglie le già stipate credenze del vecchio continente. Nel XVIII secolo il regno di Bacco è segnato da un malinconico susseguirsi di rovesci: il caffè conosce una marcia trionfale, la cioccolata – il «brodo indiano» – suscita universali frenesie. Bere non rallegra e non ottunde più, come per millenni avevano fatto vino e birra, ma rende più acuti e attivi.È uno snodo fondamentale della storia e della cultura, quello che racconta Piero Camporesi tra le pagine di Il brodo indiano. La fine del Seicento e l'inizio del Settecento vedono spostarsi l'asse del dominio culturale dal Mediterraneo al Mare del Nord; la crisi della coscienza europea coincide con la crisi della mensa di tradizione medievale, rinascimentale e barocca, della grande scuola romano-fiorentina: i lumi della corte degli ultimi Luigi bandiscono gli eccessi del passato, una cucina riformata condanna la sovraccarica, oppilante intemperanza del secolo precedente. Scompare dalle tavole il barbarico affastellamento, il caotico susseguirsi di gigantesche portate, le grasse e patriarcali processioni di selvaggina di piuma, selvaggina di pelo, carni nere, viscide e pesanti. La «querelle des anciens et des modernes» si trasferisce dallo scrittoio alla tavola: la società galante vuole delicatezza, leggerezza, misura. Questo esprit de finesse s'insinua nelle mense, nelle suppellettili, nei guardaroba, perfino nei letti dei nuovi sibariti. Il buon gusto detta le nuove leggi al nuovo genio dei tempi, inaugura nuovi cerimoniali, prescrive ritmi nuovi per corpi asciutti e scattanti, dispeptiche dame e alacri philosophes.Il Saggiatore continua la ripubblicazione del corpus delle opere di Piero Camporesi – iniziata con Il pane selvaggio e proseguita con Le belle contrade e Il sugo della vita –, l'artista della storiografia e virtuoso della parola che qui si cimenta in un'altra sorprendente, magistrale ricostruzione delle mutazioni della nostra società attraverso i secoli.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2017
ISBN
9788865765890
1. La scienza di saper vivere
La crisi della coscienza europea che Paul Hazard colloca fra il 1680 e il 1715 («anni rudi e densi, tutti pieni di lotte e di allarmi e colmi di pensiero»), anni che videro lo spostarsi dell’asse culturale dal Centrosud europeo al Nordovest, dal Mediterraneo al Mare del Nord, coincise anche con la crisi della mensa di tradizione tardorinascimentale e con la progressiva emarginazione dell’Italia dai centri propulsori di nuove forme di cultura. Per più di due secoli anche la grammatica della cucina europea si articolerà su paradigmi diversi da quelli della grande scuola romano-fiorentina: la luce della corte degli ultimi Luigi si diffonderà anche là dove antichi splendori avevano acceso i grandi fuochi delle raffinate corti rinascimentali italiane.
La Francia dei conquérants, dei bellicosi, collerici Galli, si diede ad esportare, insieme ai vangeli dei nouveaux philosophes, armate di cuochi e di parrucchieri, di sarti e di maestri di ballo, empirici divulgatori e interpreti sociali delle nuove tendenze della sua germogliante civilisation. La «scienza di saper vivere» e «certe delicatezze sociali, che i francesi conoscono così bene, noi italiani e massime nella parte meridionale d’Italia non le conosciamo»1 si lamentava Pietro Verri con una punta di stucchevole provincialismo alla rovescia, fastidiosa allora come oggi.
Non poche cucine nobiliari caddero nelle mani di cuochi francigeni che imposero con altezzoso puntiglio le nuove leggi del codice transalpino. Giuseppe Parini li osservava con malcelato fastidio e ironizzava sulla pomposa messinscena che accompagnava le prodezze dei nuovi maîtres, i quali dalle «ime officine» attendevano a mettere a punto per i nobili palati «arduo solletico» che «molle i nervi scota / e varia seco voluttà conduca».2
In bianche spoglie
s’affrettano a compir la nobil opra
prodi ministri: e lor sue leggi detta
una gran mente, del paese uscita
ove Colbert e Richelieu fur chiari…
… O tu, sagace mastro
di lusinghe al palato, udrai fra poco
sonar le lodi tue dall’alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar pur macchia
nel tuo lavoro?3
Il «primo cuoco fatto venire a posta da Parigi», il «bravo primo offiziale francese di cucina» (come lo chiamava nelle Lettere capricciose il marchese-commediografo bolognese Francesco Albergati Capacelli), divenne un personaggio centrale, un riverito dignitario, responsabile manovratore del complesso ingranaggio della macchina dalla quale uscivano di ora in ora, nella lunga giornata dei nobili, amabili consolazioni per bocche svagate e difficili.
Non tutti però riconoscevano alla Francia il primato e la primogenitura nel dirozzamento dei costumi e nel raffinamento delle forme di vita. Un grande e squisito viaggiatore che era di casa a Parigi come a Berlino, a Pietroburgo come a Londra, il conte Francesco Algarotti, commensale a Potsdam di Federico ii e di Voltaire, scrivendo nel 1752 a Carlo Innocenzo Frugoni, poeta all’ombra della corte parmense dei Borboni, gli faceva osservare che
nelle dilicatezze medesime della vita, dove e’ sono altrettanti Petronj Arbitri, è forza che i Francesi ne salutino precettori. Montaigne in uno de’ suoi Saggi parla di uno scalco del cardinal Caraffa, gran dottore nella scienza dei manicaretti delle salse e di ogni altro argomento, con cui risvegliare l’appetito il più difficile e il più erudito, e il quale ben sapea
Quo gestu lepores, et quo gallina secetur.
E riferisce ancora in un altro luogo, che i Francesi al tempo suo andavano in Italia ad imparare il ballo, i bei modi, ogni maniera di gentilezza, come ci vengono ora gl’Inglesi per istudiare le opere del Palladio e le reliquie degli antichi edifizi. E ben si può dire, quando e’ sparlan di noi, che il fanciullo batte la balia, per servirmi di una loro espressione.
Fatto è, che dopo la comune barbarie di Europa gl’Italiani apriron gli occhi prima delle altre nazioni. Quando gli altri dormivan ancora, noi eravam desti.4
Il processo di modernizzazione avviato dall’Italia era stato così intenso che (debellata dai «lumi») la «barbarie» aveva reso irriconoscibile anche il nostro Paese. Ritornando sulla Penisola dal Regno delle Ombre «dopo ben quattro secoli»5 d’assenza in compagnia d’Amore, Francesco Petrarca redivivo era rimasto turbato da tanto inimmaginabile e «strano sconvolgimento». Ogni cosa era cambiata dal tempo in cui «tutto era gotico allor, cioè tedesco».6 Scendendo dal cielo in terra – la fantasia di Saverio Bettinelli raggiunge vertici grotteschi, imprevedibili e inattesi proprio nel «secolo delle cose»7 e dell’abuso delle formule geometriche applicate anche ai misteri dell’aldilà, quando venivano «composti, se non predicati, dei sermoni per via di lemmi e teoremi giusta il metodo wolfiano»8 – l’ombra di Petrarca era rimasta stupefatta dai «mirabili progressi»9 che sfilavano davanti ai suoi occhi di sbalordito viaggiatore, catapultato dalla sua «rozza età» in un mondo irriconoscibile. «Il parlare, vestire, alloggiare, conversare, convivere, l’arti, le leggi, i costumi, il culto stesso» esclama il pur raffinato cantore di Laura «quanto è diverso da quel d’un tempo!».10 Guardandosi attorno egli scorgeva un paesaggio urbano aperto, dolce, aggraziato nel quale, invece di «castelli e torrioni», di «merli e bertesche» eretti da feroci «potenti» che vivevano rintanati nei loro manieri e «chiusi ed anzi sepolti anche nelle città», si alzavano snelli, eleganti «palagi ornati ad oro, a stucchi, a dipinture con porte ed atri marmorei, con ampie facciate e gran finestre a cristalli tagliate sino al pavimento a render più lucide le belle stanze in lunga fila ordinate».11
Lucide, luminose suites di stanze ariose dai soffitti dorati e dalle ampie, sinuose finestre. La nuova architettura civile, accogliente e serena, accentuava il distacco dal passato gotico irto di paure, di fantasime, di visioni tetre, di agguati cruenti, di «orrori». Le scale, soprattutto, sembravano affascinare Petrarca, le «magnifiche», morbide, aeree scale settecentesche tanto diverse da quelle «sì anguste e scure» che aveva conosciuto ai suoi giorni. E gli interni apparivano così accoglienti e leggiadri da strappargli gridi d’ammirazione.
E quai mobili, quai suppellettili di sedie ampie e soffici, di letti a strati e padiglioni, di pareti a bei drappi vestite, di vasellami, oh quanto ricchi e lucidi! Alcun detto di porcellana io temea sin di toccarlo. Tutto incanto pareami e sogno…12
Il lusso più raffinato si accompagnava a una inimitabile squisitezza nella moda:
somma eleganza è pure nel lo...

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