Sul pragmatismo. L'eredità di Peirce, James e Dewey nel pensiero contemporaneo
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Richard J. Bernstein

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Richard J. Bernstein

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Per alcuni il pragmatismo è soprattutto una scuola di pensiero peculiarmente statunitense. Eppure, moltissimi dei più fruttuosi contributi della filosofia occidentale contemporanea – su entrambe le sponde dell'Atlantico – non sono che sviluppi o variazioni sui temi cari a questa tradizione, che vede in Charles S. Peirce, William James e John Dewey i propri fondatori. Per dimostrarlo, Richard J. Bernstein non si limita a prendere in esame i classici del pragmatismo di fine Ottocento, ma dipana i variegati fili che da allora intrecciano il lungo cammino delle idee, fino agli anni più recenti. Emerge così tutta l'attualità di un modo di praticare la filosofia che fa del primato dell'esperienza, della comprensione del mondo sociale e delle politiche di costruzione attiva di un ordine realmente democratico la posta in gioco del pensiero. Il pragmatismo prende le mosse da una critica radicale del cartesianismo, e dunque dal rifiuto di ogni netta separazione tra mente e corpo, soggetto e oggetto, e di ogni illusoria «ricerca della certezza». Nega l'esistenza di una conoscenza «autentica» con fondamenta indubitabili, e che sia possibile mettere da parte tutti i pregiudizi grazie al dubbio metodico. Quella pragmatista è al contrario una concezione non-fondazionale e autocorrettiva della ricerca filosofica, che rinuncia a ogni astrattezza e si basa sulla comprensione del modo in cui gli esseri umani sono formati dalle pratiche sociali normative e contribuiscono a definirle. Perfino in pensatori che non conoscevano i testi pragmatisti, come Wittgenstein e Heidegger, si rintraccia l'eredità di questa impostazione, che ha assorbito e poi trasformato la «svolta linguistica» influenzando alcune delle posizioni filosofi che più originali e feconde degli ultimi cinquant'anni: dal «pragmatismo kantiano» di Jürgen Habermas all'umanesimo profondo di Richard Rorty, alle riflessioni su fatto e valore di Hilary Putnam. Sul pragmatismo è un'indagine lucida e completa sulla diffusione globale e la continuità degli argomenti pragmatisti, ma rappresenta anche un'esortazione a riscoprire il ruolo critico della filosofia nel guidare le nostre scelte, nell'arricchire la nostra esperienza quotidiana e nel promuovere quella che Dewey chiamava «democrazia creativa».

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2015
ISBN
9788865764633

1. La critica di Charles S. Peirce al cartesianismo

Quando nel 1868-69 Peirce pubblicò una serie di dirompenti articoli nel Journal of Speculative Philosophy, una rivista da poco fondata, non aveva ancora trent’anni.1 Questi articoli precedettero di un decennio gli altri, più noti, pubblicati nella rivista Popular Science Monthly e intitolati «Il fissarsi della credenza» e «Come rendere chiare le nostre idee». Se vogliamo comprendere la versione peirciana del pragmatismo, con il suo esteso progetto filosofico, dobbiamo esaminare da vicino i temi chiave indagati in questi primi articoli. Nel Prologo ho citato il suo secondo articolo, in cui sostiene che «Descartes è il padre della filosofia moderna, e lo spirito del cartesianismo, cioè quello che soprattutto lo distingue dalla Scolastica che esso ha soppiantato, può essere sintetizzato come segue» (Peirce 1980, p. 44). Peirce procede elencando quattro punti di contrasto tra il cartesianismo e la Scolastica, per poi affermare che «senza voler ritornare alla Scolastica, mi sembra che la scienza moderna e la logica moderna richiedano princìpi molto diversi da quelli del cartesianismo» (p. 45).
Qui esaminerò il modo in cui Peirce spiega i quattro punti critici riguardanti le debolezze del cartesianismo.
1. Noi non possiamo cominciare con il dubbio totale. Dobbiamo cominciare con tutti i pregiudizi che agiscono in noi nel momento in cui intraprendiamo lo studio della filosofia. Questi pregiudizi non li possiamo eliminare con una massima, poiché sono tali che non ci è mai venuto in mente di poterli mettere in discussione. […] È vero che nel corso dei suoi studi una persona può trovare ragione di dubitare di cose a cui in principio credeva; ma in questo caso dubita perché ha una ragione positiva per farlo, e non certo in considerazione della massima cartesiana. Non si pretenda dunque di dubitare in filosofia di ciò di cui non dubitiamo dentro di noi. (p. 46)
Peirce parla dei nostri pregiudizi quando intraprendiamo lo studio della filosofia, anche se afferma che ogni indagine inizia con pregiudizi di fondo. Non ce ne sbarazziamo fingendo di dubitare o dicendo di dubitare. Dobbiamo così distinguere tra l’affermazione del dubbio (paper doubt) e il dubbio reale, per il quale abbiamo delle ragioni positive. Il dubbio non è dunque un mero stato psicologico; è un concetto normativo, perché richiede delle ragioni positive.2 Ma Peirce presenta un argomento ancora più forte, perché pone attenzione alle connotazioni negative della parola «pregiudizio». In opposizione al cartesianismo e a ciò che Hans-Georg Gadamer chiama «pregiudizio illuministico contro il pregiudizio», Peirce insiste sul fatto che ogni indagine, comprese quelle scientifiche e filosofiche, prende avvio con taciti pregiudizi e precomprensioni.3 Questi offrono uno sfondo necessario e un orientamento. Nel corso di una particolare indagine possiamo giungere al rifiuto di alcuni pregiudizi, ma non sfuggiamo mai alle tacite precomprensioni, che formano il nostro sfondo e che non mettiamo in questione. Ordinare i pregiudizi separando quelli che devono essere criticati da quelli che devono essere rifiutati non è il punto iniziale della ricerca, ma il suo approdo finale, un risultato dell’indagine. Karl Popper – che considerava Peirce «uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi» (cit. in Peirce 1992, p. XX) – fornisce un analogo, convincente argomento. Popper fa eco alla critica peirciana del cartesianismo nell’attaccare la ricerca delle origini dell’epistemologia che ha dominato una parte consistente della filosofia moderna. Come Peirce, anch’egli afferma che questa ricerca, caratteristica sia delle tendenze razionaliste sia di quelle empiriste della filosofia moderna, è sbagliata. Quando scrive (1963) che l’indagine critica consiste nel congetturare e nel sottoporre a critica, nel ricercare le prove e nel tentare di confutarle, Popper presenta nuovamente la concezione di indagine critica definita da Peirce. Peirce sposta la nostra attenzione dalle origini delle idee e delle ipotesi alle conseguenze che hanno sulla nostra condotta. In una fase successiva della sua ricerca intellettuale, Peirce concepì una teoria del «senso comune critico». Christopher Hookway sintetizza tre punti della filosofia scozzese del senso comune che Peirce fece propri.
Primo, la giustificazione «dovrà arrivare a un punto d’arresto», e fondarsi su alcune opinioni accettate senza fondamento o senza giustificazione. Secondo, le credenze che offrono «il fondamento della verità» sono indubitabili, e vanno al di là del sostegno razionale e del criticismo. Terzo, «esse devono essere considerate come la verità in sé», e la nostra fiducia in loro non lascerà la nostra conoscenza priva di fondamenta certe. Con questo spirito, Peirce scrisse che «se non si dubita assolutamente di una proposizione […] è chiaro che non c’è spazio per desiderare nient’altro». (6.498; Hookway 1985, p. 229)4
A prima vista, queste affermazioni sembrano entrare in conflitto con la critica peirciana dell’appello cartesiano al dubbio universale. Ma Peirce in seguito chiarì e perfezionò la propria idea. Ci sono credenze che noi prendiamo per certe e indubitabili. Per il nostro senso comune esistono numerose credenze di cui non dubitiamo e che ci forniscono «il fondamento della verità». Ma il senso comune di Peirce è critico. Ciò che è indubitabile non dev’essere identificato con ciò che è incorreggibile. Come dice Peirce, «ciò che è indubitabile un giorno è stato spesso provato essere falso il giorno dopo» (5.514).5 Non sfuggiamo alla situazione in cui partiamo con alcuni pregiudizi (pregiudizi e precomprensioni) che prendiamo come indubitabili. In questo senso possiamo parlare di una fondazione da cui ogni ricerca prende le mosse. L’argomento di Peirce è sottile e importante. È un antifondazionalista nella misura in cui il fondazionalismo è concepito come una teoria che afferma l’esistenza di verità fondamentali e incorreggibili, le quali non sono soggette a revisione. Ma non nega – in realtà afferma – che ogni conoscenza abbia una fondazione, nel senso che esistono delle credenze conservate tacitamente, delle quali non dubitiamo e che vanno considerate il fondamento della verità. Peirce avrebbe certamente sostenuto la famosa frase di Wilfrid Sellars: «La ragione di quello è che la conoscenza empirica, al pari della scienza che ne costituisce un’elaborata estensione, è razionale non perché ha un fondamento, ma perché è un’impresa che si autocorregge, capace di mettere in discussione una qualsiasi delle proprie tesi, ma non tutte simultaneamente» (Sellars 2004, p. 56). Peirce avrebbe aggiunto che ciò è vero per qualsiasi ricerca, comprese quelle logiche, matematiche e filosofiche. Peirce elabora così la sua seconda critica al cartesianismo:
2. Lo stesso formalismo compare nel criterio cartesiano di verità che si riduce a questa regola: «Tutto ciò di cui sono chiaramente convinto è vero». Se io fossi realmente convinto, tale mia convinzione sarebbe frutto di ragionamento e non avrei bisogno di nessuna ulteriore prova di certezza. Ma rendere così i singoli individui giudici assoluti di verità è molto dannoso. Un atteggiamento cartesiano comporterà che i metafisici saranno tutti d’accordo che la metafisica abbia raggiunto un grado di certezza di gran lunga superiore a quello delle scienze fisiche. Ma essi potranno andare d’accordo soltanto su questo punto e su nient’altro. In quelle scienze in cui accade che gli uomini finiscono per concordare, quando una teoria è stata varata, essa è considerata provvisoria e in prova finché non si raggiunge un accordo; ma dopo che tale accordo è stato raggiunto, la questione della certezza diviene oziosa, perché non c’è più nessuno che ne dubita. Noi, come singoli individui, non possiamo ragionevolmente sperare di raggiungere la filosofia definitiva che perseguiamo; possiamo soltanto cercarla, dunque, attraverso la comunità dei filosofi. Quindi, se menti disciplinate e in buona fede esaminano scrupolosamente una teoria e rifiutano di accettarla, questo dovrebbe creare dubbi all’autore stesso della teoria. (Peirce 1980, pp. 46-47)
Ci sono molti punti di questo passo, assai denso, che desidero segnalare.
a) Non credo che sia del tutto esatto o accurato dire che il criterio cartesiano di verità si riduca all’affermazione «Tutto ciò di cui sono chiaramente convinto è vero». Comunque, nonostante Descartes avesse compiuto dei coraggiosi tentativi di specificare con precisione ciò che intendeva per «chiaro e distinto», non riuscì a offrire dei rigorosi criteri di distinzione tra ciò che sembra chiaro e distinto da ciò che realmente lo è. Il convincimento soggettivo, come l’indubitabilità – non importa quanto sia forte e salda –, non è un criterio sufficiente di verità. Quello che consideriamo chiaro e distinto potrebbe rivelarsi falso.
b) L’insoddisfazione per la concezione cartesiana della chiarezza e della distinzione fornisce, in parte, a Peirce la motivazione che lo porta a formulare la massima ripresa in seguito dal pragmatismo. In «Come rendere chiare le nostre idee» Peirce dichiara: «L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un abito; e le diverse credenze si distinguono per i diversi modi d’azione che fanno sorgere» (p. 113).6 Peirce distingue tre gradi di chiarezza. La regola per raggiungere il terzo grado è questa: «Consideriamo quali effetti che potrebbero concepibilmente avere conseguenze pratiche noi concepiamo che gli oggetti della nostra concezione abbiano» (p. 116).7 Commenterò più avanti la formulazione apparentemente strana di questa massima e i tentativi successivi, fatti da Peirce, di chiarirne il significato. Sinceramente penso che sia esagerato ritenere che la comprensione del pragmatismo dipenda dal significato di questa massima. Dobbiamo però notare che Peirce la introduce per chiarire il significato dei concetti e delle credenze, e non la verità di queste ultime. La questione della verità e della falsità non può essere propriamente sollevata, finché non avremo dapprima chiarito il significato dei concetti e delle credenze.
c) Quando Peirce dichiara che «rendere così i singoli individui giudici assoluti di verità è molto dannoso», formula una delle tesi più importanti della sua filosofia. Criticando senza tregua il soggettivismo, alla base di buona parte dell’epistemologia moderna, Peirce sviluppa una comprensione intersoggettiva (sociale) della ricerca, della conoscenza, della comunicazione e della logica. Jürgen Habermas ha affermato che con il XX secolo si è avuto un mutamento di paradigma da una «filosofia della soggettività» o da una «filosofia della coscienza» a un modello intersoggettivo (sociale) e comunicativo di comprensione dell’azione e della razionalità. È evidente come una delle principali fonti di questo mutamento sia ravvisabile nei primi scritti di Peirce. Inoltre, il passo sopracitato anticipa la centralità che il pragmatismo peirciano attribuisce alla comunità dei ricercatori. Le pratiche e le norme della comunità dei ricercatori che operano criticamente sono l’ambito in cui le nostre ipotesi e le nostre teorie vengono perfezionate, messe alla prova e convalidate. Dire che la ricerca si autoregola significa dire che una comunità di ricercatori che opera criticamente possiede le risorse intellettuali per autoregolarsi. Più avanti, nello stesso articolo, Peirce collega strettamente i concetti di conoscenza, realtà e comunità.
Il reale, dunque, è ciò in cui, presto o tardi, alla fine si risolveranno le informazioni e il ragionamento, e che è quindi indipendente dagli erramenti di ogni singolo individuo. Così, l’autentica origine del concetto di realtà mostra che questo concetto implica essenzialmente la nozione di una COMUNITÀ senza limiti definiti, e capace di un incremento indefinito di conoscenza […]. Non vi è niente, dunque, che ci impedisca di conoscere le cose esterne come realmente sono, ed è assai probabile che le conosciamo proprio così in innumerevoli casi, sebbene non possiamo mai essere assolutamente certi di conoscerle effettivamente così in nessun caso specifico. (p. 81-82)
La nozione di comunità di ricerca è pure strettamente legata alle riflessioni di Peirce sull’inevitabilità dei pregiudizi e delle precomprensioni. È solo sottoponendo i nostri pregiudizi, le nostre ipotesi e le nostre domande a una critica pubblica, di fronte a un’ampia comunità di ricerca, che possiamo sperare di sfuggire alle nostre prospettive limitate, di comprovare le nostre credenze e di contribuire alla crescita della conoscenza.8
d) Possiamo anche anticipare la teoria del fallibilismo in Peirce. Fallibilismo significa che ogni asserzione di conoscenza – e, più in generale, ogni asserzione di validità – è aperta alla sfida, alla revisione, alla correzione e anche al rigetto. Il fallibilismo non dev’essere confuso con lo scetticismo epistemologico. Peirce distingue attentamente tra la nostra conoscenza delle «cose come sono» (di cui egli non dubita) e «l’essere assolutamente certi che sia così in un qualche caso particolare». Il fallibilismo comporta una concezione della ricerca come «un’impresa che si autocorregge, capace di mettere in discussione una qualsiasi delle proprie tesi, ma non tutte simultaneamente». Lo scetticismo epistemologico si nutre dell’illusione che la conoscenza «autentica» non possa essere corretta. Se ogni asserzione di conoscenza potesse rivelarsi falsa, presumibilmente non saremmo mai nella posizione di poter dire di «conoscere realmente» alcunché. Ma la tesi forte di Peirce è che ogni idea di conoscenza assoluta e non correggibile è incoerente e deve essere abbandonata. Qualsiasi scienziato ammetterà (e dovrebbe insistere) che la maggior parte delle nostre ipotesi e delle nostre teorie attuali sarà rivista in futuro. In altre parole, in senso stretto, esse stanno attualmente in piedi perché sono «false». Sarebbe però assurdo concludere che, poiché dobbiamo rivedere o abbandonare le ipotesi e le teorie attuali, non conosciamo affatto il mondo. Dovremmo sempre cercare di esaminare le nostre asserzioni di conoscenza con le più cristalline prove possibili e con gli argomenti più forti, ma con un senso di onestà e di umana fallibilità. F.H. Bradley presenta un’idea simile nel criticare la metafora della fondazione.
Qui troviamo una teoria falsa che dipende soprattutto da una metafora fuorviante. Il mondo conosciuto è considerato una costruzione realizzata su certe fondamenta. Si ritiene pertanto che essa sia per principio una struttura edificata su tali fondamenta. Senza dubbio si può procedere per accumulazione, ma solo fino a quando le fondamenta resistono; quando non resistono più, l’intero edificio collassa. Tuttavia, devo contestare, la teoria non regge, e la metafora non risulta più applicabile. La fondazione della verità è solo provvisoria. Per poter avviare la mia costruzione devo considerarla assoluta, e fino a quel punto è certamente vera. Ma non ne segue la conclusione che la mia costruzione continui a reggersi sui princìpi della mia conoscenza. Non segue che l’intero edificio collassi, se si accetta che gli inizi siano fallibili. Infatti, è in un altro senso ch...

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