Elogio della rabbia
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Elogio della rabbia

Perché dovremmo incazzarci di più e meglio

Salvatore La Porta

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Elogio della rabbia

Perché dovremmo incazzarci di più e meglio

Salvatore La Porta

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"Viviamo tempi bui. Da sempre. Invidia, rancore, oppressione e gelosia assorbono le nostre energie come una spugna, lasciandoci esausti e rassegnati davanti ai nostri infiniti fallimenti. Un lavoro che non ci soddisfa e il nostro capo che non la smette di umiliarci. L'amore che ci piega con le sue malsane incomprensioni, spingendoci a immaginare mille amanti. Nel frattempo, il telegiornale ci sbatte in faccia vittime e morti di guerre che non capiamo e i partiti politici si fanno forza sparando proiettili di odio verso il nemico, l'intruso, lo straniero. Basta galleggiare per qualche secondo nell'abisso di Facebook, scansando momentaneamente le foto di gattini, per rendersi conto di quanto il mondo sia violento: i commenti sotto i post sono un tripudio di offese e auguri di morte, di razzismo e sessismo; legioni di annoiati e troll si compattano, fanno gruppo per spruzzare sugli altri tutta la loro anonima bile.Eppure non dovrebbe essere così, la rabbia. Questo sentimento luminoso, carico di coraggio, di speranza, che ha permesso a popoli oppressi di conquistare la libertà, a uomini e donne cresciuti ai margini del mondo di diventare santi, artisti, presidenti, e a migliaia di volenterosi di dare voce, ogni giorno, alla loro protesta d'amore.Elogio della rabbia è un manifesto audace: un invito a scrollarci di dosso la catasta di preoccupazioni, ossessioni e isterie che bruciano le nostre vite; ad abbandonare quel bisogno di controllo che esercitiamo verso tutto e tutti – i nostri figli, la nostra poltrona, il telefono della persona che amiamo –; e, infine, a trasformare quell'energia repressa in un'arma per difendere e riconquistare il futuro. All'insegna della giustizia, però, e non del sopruso. In un coro umano che non si faccia confondere da un esercito improvvisato di solitudini avvelenate."

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2019
ISBN
9788865767276
1. L’amore è una guerra
Un’inestirpabile illusione
L’amore può lasciare indifferente il mondo.
Anzi, è del tutto probabile che venga accolto con un certo fastidio: ne vediamo sprecato molto, ogni giorno. Intorno a noi, sui giornali, in televisione, tra i post ridondanti e pieni di echi che rimbalzano sulle pareti dei social network: benevolenze esauste, affetti ipocriti, dichiarazioni eterne appassite sul nascere. Si amano gli animali, la donna o l’uomo della propria vita, la giusta squadra di calcio, il cibo, la letteratura, la musica, un paio di scarpe, la propria console; e per ognuno di questi dichiariamo la nostra fedeltà, esaltiamo la purezza dei nostri affetti, portiamo la mano sul cuore e ci alziamo in piedi commossi. Ci agitiamo, a dire il vero, in maniera sospetta: somigliamo a chi, nel buio, fa rumore per non sentire il vuoto intorno.
Avete scelto un libro sulla rabbia ed ecco: vi parlo di altro. Ma non sto cercando di ingannarvi, giuro. A volte, quando bisogna caratterizzare un personaggio, il modo più efficace è concentrarsi sul suo antagonista. Il protagonista, così, viene fuori per contrasto, e ogni cosa nel suo carattere è più evidente. Si descrive il cattivo per spiegare l’eroe. E chi potrebbe mai negare che il cattivo di questa storia sia l’amore?
Cerchiamo di riempire la nostra vita con questo sentimento perché pensiamo che qualsiasi altro sia disdicevole. La sensualità è vergognosa, la noia deprimente, l’odio è antisociale; crediamo che ci sia concesso esagerare soltanto con l’affetto: pochi sopporterebbero, infatti, la continua messa in scena di qualcos’altro.
A volte, nella vita capita di amare veramente. Succede a tutti di gettare dalla finestra un bel po’ di questo sentimento durante i nostri anni migliori: è proprio il nostro amore che, come un gusto eccessivamente forte, ha stancato la persona che desideravamo; l’abbiamo vista allontanarsi attratta dall’indifferenza di un altro, e quell’indifferenza non si nutriva forse della passione di lei, alimentandola? Ci convinciamo di amare chi ci sfugge, proiettando su di lei ogni nostra fantasia – la mente infiammata dal desiderio di una persona inesistente. A volte riusciamo ad afferrare la preda e spendiamo anni a divorarla lentamente, scavandone i connotati fino a sfigurarla, nel tentativo di scovarvi quel che avevamo fantasticato di trovare; finiamo per deformarla, iniziamo a disprezzarla. Ci chiediamo che fine abbia fatto la persona che amavamo. Bene: non è mai esistita.
Conosciamo tutti il malessere sottile che s’infiltra tra le crepe dell’amore. Sono passati soltanto pochi anni, a volte una manciata di mesi, e già cominciamo a interrogarci sui nostri sentimenti. Abbiamo trovato una bella casa, il quartiere è gradevolissimo. Tutto va per il verso giusto. Bisogna soltanto abituarsi l’uno all’altro: l’amore, dicono, va costruito. Stiamo già mentendo a noi stessi? I gesti della persona che abbiamo accanto, al mattino, suonano più irritanti di una cattiva sveglia; la maniera in cui il suo corpo si mostra, sfatto e denudato di ogni passione, ci ossessiona come un presagio di morte. E avremo tempo di invecchiare ancora: le carni rovinate, grasse, deformate dalla consuetudine, dall’ansia, dalle preoccupazioni. Dalle malattie.
Quanti nuovi desideri, allora, finché possiamo ancora avere una scelta. Gli occhi sconosciuti del passante che si soffermano su di noi per qualche secondo, il suo gesto elegante, ancora sconosciuto, nel bere il caffè: com’è doloroso confrontare il suo profumo con i miasmi della nostra quotidianità, la dissonanza sconcertante tra l’immagine della persona amata e la sua inerte realtà. Allora quella figura esile e misteriosa ci pare talmente carica di grazia; è un’apparizione, un fainomai; i greci avrebbero pensato ad Afrodite, noi ci chiediamo: e se fosse lei? se fosse lui?
Forse stiamo ricominciando con la sconosciuta quel gioco di proiezioni che ci ha già illuso la prima volta. La troviamo così aderente ai nostri desideri che non abbiamo più dubbi: dovevamo aspettare e siamo stati impazienti. Non dovevamo legarci: adesso è tardi, e la perderemo come si può perdere una coincidenza; rimarremo bloccati nella squallida stazione della nostra vita sentimentale. Minuscola, decadente, senza via d’uscita; avremo un bel guardare i binari: non portano da nessuna parte, e non sono previsti altri treni; lei si è già allontanata, dissolvendosi nella città.
Torniamo a casa pieni di domande, sviamo gli sguardi di chi ci aspetta. Abbiamo dimenticato di comprare il pane. Ne nasce un litigio. L’ennesimo.
Lo capisco: è una visione immatura dell’amore. Un rapporto di coppia va coltivato e gestito, è fatto di compromessi, è una crescita comune. A volte è vero. Ma, nuovamente: quante imitazioni spacciate sottobanco dal destino, e quanto è difficile ammettere di aver fatto un acquisto avventato. Non avendo il coraggio di riportare indietro la merce, spesso ne soffriamo per tutta la vita.
Ovviamente non è il caso del lettore, ne sono sicuro. Ma sono altrettanto sicuro che sia in grado di riconoscere quel che sto descrivendo: nel dire queste cose sto parlando un linguaggio universale; l’amore è rarissimo e, vista quanta gente ne fa sfoggio, i conti non tornano affatto.
Se fosse una valuta potremmo essere certi che il mercato pullula di falsari.
Inoltre, proprio perché istintivamente ne riconosciamo la rarità, diventiamo cauti. L’estraneo che si mostra cortese ci insospettisce. L’amante che si fa prendere dalla passione troppo in fretta ci spaventa. Intimamente ognuno di noi sa quanto sia difficile scovare quel sentimento e, andando avanti negli anni, ci riduciamo come gli avari nei racconti di Charles Dickens: mordiamo le monete con cui ci pagano le emozioni per capire se sono davvero d’oro.
Quasi sempre, si tratta di rame.
Il partito dell’amore professa odio
L’amore è anche inefficace: provate a fondare una campagna politica su questo sentimento, cercate di convincere la gente che la vostra passione per i più deboli è sincera. Otterrete un bel po’ d’insulti; il più frequente sarà l’accusa di essere un ipocrita. Se dobbiamo essere sinceri, spesso è così: l’umanità non abbonda negli uomini di potere, e a dettare certi comportamenti addolorati è quasi sempre un pessimo consulente d’immagine. Anche nella religione l’amore non è un gran catalizzatore di passioni, al Nuovo Testamento si preferisce quasi sempre il Vecchio, e tra gli infiniti nomi di Allah non sempre si ricorda quello di Misericordioso. L’amore di Gesù è magnifico se, insieme al suo perdono, si concentra su di noi: per gli altri preferiamo il dio degli eserciti e ci indigna vedere le nostre belle chiese barocche contaminate dalla sagoma accasciata di un senzatetto.
Viene il sospetto che l’amore non esista: ogni volta che lo sperimentiamo lo troviamo spurio e annacquato, lordato dalle nostre ossessioni, dal possesso, dalle illusioni, dall’egoismo, fino al punto da temere che, ripulendolo, non rimanga altro che un liquido insapore. Se non fosse che, a volte, amiamo sinceramente, e quelle volte rimangono impresse nella nostra mente come eventi decisivi della nostra esistenza, nodi nel tessuto del nostro destino: non è un indizio anche questo, in fondo? Davvero, non saprei.
La rabbia, invece: dietro lo scenario fragile che l’amore mette in scena c’è l’architettura solida e innegabile di questo sentimento. A prima vista sembrano agli antipodi, e l’ira che ci fa stringere i pugni appare distante da quel che ossessiona il nostro cuore. Di certo questo sentimento esiste – e non ha un buon rapporto con i falsari di emozioni – chi potrebbe mai dubitare della sua sincerità? Che arma fenomenale è questa: forse la sua arma più efficace. Anche i luoghi della nostra cultura frequentati da questi due sentimenti sembrano lontanissimi: oltre quella privata c’è una dimensione politica, nella rabbia, che la tenerezza ha avuto raramente – e quasi sempre in maniera fallimentare.
In questi giorni lo vediamo bene: migliaia di fascisti si fanno largo in ogni società europea, sfilano tra le strade senza alcuna vergogna, pieni di ferocia contro i migranti, contro la società multietnica, contro chi ha gusti sessuali diversi dalla norma eterosessuale, e il loro sentimento è sincero, privo di dubbi: erompe dal loro animo senza ombre e conquista la gente proprio perché è un sentiero dritto e luminoso, lontano dai labirinti del pensiero problematico. Deve essere meraviglioso trovarsi in un gruppo di camerati dalle spalle larghe, così solidi nelle movenze, le gole gonfie di slogan, lo sguardo talmente limpido; lasciar perdere l’ipocrisia dell’amore, le sue continue, estenuanti indecisioni, i sensi di colpa, la costante sensazione di aver sbagliato qualcosa o di essere sul punto di fare l’ennesimo passo falso. La rabbia non chiede verifiche, non ha dubbi, non può tradire chi la prova: come un abito tagliato su misura, aderisce perfettamente al nostro animo; più tardi potremo anche cambiare idea, pentirci di esserci fatti prendere la mano, ma in quello specifico momento noi esprimiamo esattamente la nostra essenza, senza incertezze, senza remore. Siamo completamente in noi. Solitamente si pensa il contrario, che chi viene preso dall’ira perda se stesso, si lasci trascinare oltre le proprie reali convinzioni; e invece è proprio nel momento della furia che mostriamo appieno chi siamo e cosa pensiamo; scardinando i timori del futuro e allontanandoci dalla diplomazia del passato, la rabbia denuda il nostro presente. Pochi minuti più tardi saremo già un’altra persona, forse pentiti di esserci mostrati con tanta chiarezza, di aver fissato nella mente della gente quell’attimo del nostro essere con tanta forza, avremo paura di aver ancorato in loro un’immagine di noi che è già obsoleta. Di solito facciamo molta attenzione: ricordiamo quante volte abbiamo cambiato idea, quante volte ci siamo sbagliati. E temiamo il futuro, perché sappiamo quanto sia mutevole il nostro essere e come sia facile, invece, scolpirne un’immagine statica nel mondo. Prudenza e timore avvolgono il nostro presente, sono una forma di sfiducia in noi stessi. Non staremo sbagliando? E se, anche essendo nel giusto, le conseguenze delle nostre azioni fossero irrimediabili? Potremmo far del male a qualcuno, o perdere chi amiamo. È impossibile fidarci completamente di noi stessi. Il codice della rabbia, invece, non comprende timori o preoccupazioni. Per questo conquista le persone, e ne conquista parecchie: nel suo luminoso antro, senza chiaroscuri né punti ciechi, in milioni si ammassano senza pensieri, abbandonando ogni dubbio.
Tutti odiamo qualcosa: il nostro capo, il Boca Juniors o il River Plate, la donna o l’uomo che ci umiliano, il vicino rumoroso, noi stessi o la nostra vita, il nostro computer, la macchia di umidità che insiste a spuntare sul tetto del nostro soggiorno, il mutuo che abbiamo acceso per questa casa dissestata, la piega che ha preso la vita dei nostri figli, a volte la luce del giorno. Quel che ci riempie di rabbia è il destino, la necessità che, nonostante ogni nostro sforzo, miserabile promessa di cambiare, continua a martellarci con le stesse sconfitte, l’ennesima frustrante ripetizione nel copione della nostra vita. Ci esaspera fallire sempre nella stessa maniera, vedere i nostri errori ripetersi come entità indipendenti dalla nostra volontà, da ogni nostro buon proposito: e mentre la melodia della nostra vita si trasforma in una marcetta di ripetitivi passi falsi, sopportiamo a stento la differenza tra la sinfonia maestosa che avevamo immaginato da adolescenti e il misero spartito che ci martella le orecchie durante la vita adulta.
Se soltanto non fosse colpa nostra. Potrebbe non essere colpa nostra: non abbiamo promesso a noi stessi, centinaia di volte, che la volta successiva saremmo stati diversi, che avremmo imparato dai nostri errori, che avremmo voltato la pagina di questo spartito? E allora come potremmo essere noi, la causa di questa rabbia? Se soltanto trovassimo un colpevole, un fattore esterno, un dio da bestemmiare. Più facilmente, un estraneo da incolpare: sarebbe la soluzione migliore. Un popolo intero, una categoria, una classe sociale verso cui rivolgere questo fiume furente di frustrazione. Aspettiamo che qualcuno ce lo indichi.
Ce ne indicano un bel po’, da anni. Nella storia dell’umanità, a dire il vero, non è mai mancato un capro espiatorio; ma in determinati periodi l’uomo sembra non cercare altro. Adesso, all’inizio del millennio, certamente ne abbiamo un gran desiderio: ci ammassiamo, allora, mondati dal peccato della nostra inettitudine; un altro s’è preso il peso dei nostri fallimenti e noi siamo liberi di urlare contro di lui tutto il nostro odio.
Decisamente, non c’è bisogno di argomentare molto sull’esistenza della rabbia; è ovunque, e la peggiore ci viene propinata da chi ama con forza: la patria, l’onore, i confini, ogni cosa in cui possa identificarsi escludendo il resto del mondo dal suo sguardo. Escludendo ogni cosa che venga dall’esterno, dai confini della contea, dall’oltremare.
Ce n’era parecchia nel porto della mia città, dove è approdata una nave della Guardia Costiera con a bordo centosettanta migranti. Il ministro dell’Interno ha vietato lo sbarco dei naufraghi, e davanti al molo di levante si sono radunati centinaia di cittadini per chiedere la liberazione di chi da giorni, dopo le torture e gli stupri subiti in Libia, dormiva sul ponte di una nave militare sotto la pioggia e il caldo feroce dell’estate siciliana.
Non è una vicenda locale: i giornali europei hanno scritto di quella città povera, una sorta di frontiera del mondo mediterraneo, che spesso diventa il simbolo della nostra cattiva coscienza e nella quale mi ritrovo a vivere. Non è la prima nave di disperati che viene condannata a questo limbo dalle diplomazi...

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