Sei romanzi perfetti. Su Jane Austen
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Liliana Rampello

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Liliana Rampello

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Con Jane Austen non esistono mezze misure.La sua opera divide la critica e i lettori da più di due secoli: autrice di romanzi «per donne», conformistie privi di spessore letterario, tutti trine e sposalizi, o il «genio meraviglioso» intravisto da Vladimir Nabokov, la scrittrice che Virginia Woolf definisce «la più perfetta artista fra le donne»?Liliana Rampello identifica un nuovo tassello del percorso di conoscenza intrapreso dalla grande autrice inglese attraverso la lettura analitica deisuoi «sei romanzi perfetti»: Ragione e sentimento, Orgoglio e pregiudizio, Mansfield Park, Emma, L'abbazia di Northanger e Persuasione. Personaggio,trama e spazio: tre snodi centrali nell'architettura del romanzo classico sono messi a fuoco a partiredalla più originale invenzione di Jane Austen, il romanzo di formazione femminile, in cui l'eroina tradizionale lascia il posto a una giovane donnaprotagonista del proprio destino. Disegnate con spietato rigore verbale, preciso realismo e ironia travolgente, le sue ragazze, pur dovendo imparare a scegliere un buon marito, non dimenticano mai qualcosa di altrettanto essenziale: il proprio desideriodi felicità. E in questa ricerca è da un'altra donna che si fanno accompagnare.Nel solco della tradizione shakespeariana, in Jane Austen il dialogo è un vero e proprio motore narrativo, la conversazione diventa l'unica azione in grado di cambiare il corso della storia personale e collettiva. In tutti e sei i romanzi, Elizabeth, Emma e le altre si muovono in uno spazio narrativo circoscritto, dal salotto al giardino, dalla casapaterna a quella maritale, perimetro di una limitata geografia fisica che si fa ampia geografia morale: qui la loro formazione non rappresenta più, come nella tradizione maschile, un'«avventuradell'io», ma una «trasformazione di sé» in relazione con l'altra e l'altro.In Sei romanzi perfetti, Liliana Rampello fa riecheggiare la voce impietosa e incontenibile di una maestra di libertà femminile, capace di una messa in commedia talvolta crudele ma veritiera, che spolpa il sentimentalismo e mette a nudo la logica raffinata e violenta di una società patriarcale e divisa in classi. La caratteristica leggerezza dei suoi scritti nasconde una verità recondita, che si annida nel dettaglio minimo, in un'emozione trattenuta, in un veloce scambio di battute, in un gesto solo apparentemente casuale. È questo il segreto del successo di Jane Austen, quello per cui ancora oggi la sua opera continua a entusiasmare intere generazioni di lettrici e lettori.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2014
ISBN
9788865763872

La conversazione è azione

Orgoglio e pregiudizio e Mansfield Park
Tra il primo e l’ultimo romanzo, Ragione e sentimento e Persuasione, nella narrativa di Jane Austen si dispongono altre deliziose protagoniste la cui formazione può essere vista, nella prospettiva del ciclo, come momento di ricerca intermedia rispetto alla scoperta definitiva della chiave del nuovo romanzo di formazione femminile; oppure, se guardate nella singola autonomia della loro storia, sono protagoniste che affrontano, ognuna con caratteristiche diverse, la propria personale trasformazione. In questo senso, così come a Elinor e Marianne per me è naturale accostare il tema della condotta e a Anne quello della persuasione, ognuna delle altre, ai miei occhi, lega il proprio nome a una diversa particolarità: Catherine dell’Abbazia di Northanger deve imparare a distinguere tra fantasticheria e realtà, Elizabeth di Orgoglio e pregiudizio deve imparare a correggere le sue prime impressioni, il suo pregiudizio, Fanny di Mansfield Park trova nella modestia la forma della propria libertà interiore, Emma, nell’omonimo romanzo, deve compensare la propria intelligente arguzia, che nasconde un radicato desiderio di potere,1 con un briciolo di buonsenso.
Protagoniste in rapporto a protagonisti, ragazzi o uomini fatti, dai quali imparano alcune cose e ai quali ne insegnano altre, di nuovo a sottolineare che in amore esiste un piano dello scambio e del conflitto, che l’amore non è un semplice sentire ma un complesso piano di relazioni, del sentimento della ragione del giudizio e dell’interesse, una linea di continuo attraversamento dal privato al pubblico, dall’interiorità all’esteriorità, e viceversa, con norme e regole da ricalibrare di continuo in ordine all’esperienza concreta. Questi non sono che accenni, volutamente lasciati tali, di «caratteri» romanzeschi inventati in una lingua che ne moltiplica lo spettro significante, e li rende sempre animati di brio ed eleganza, mentre si muovono all’interno della trama cui devono dare solidità ed esistenza.
Già, la trama, non più il personaggio, ora mi preme. Che in Jane Austen non pare propriamente si sviluppi, così come normalmente si intende quando la si individua come plot, come intreccio; piuttosto pare si annodi e si snodi attorno a un certo numero di conversazioni. Innanzitutto perché queste storie non prevedono ardimentose avventure in giro per il mondo, improvvise e inaudite scalate sociali, inaspettate agnizioni, sbalorditive svolte e così via, bensì la bellezza del quieto e banale avvicendarsi del quotidiano in una piccola contea inglese. Come mostrare, stilisticamente e non solo per via contenutistica, il diverso modo che ha una donna nell’affrontare l’esperienza del mondo, come significare la differenza nella propria formazione?
Ancora una volta la mossa è apparentemente semplice, ma cambia tutto; l’autrice sceglie, infatti, di far progredire la trama del suo racconto usando, come fossero vere e proprie azioni, le conversazioni. (Amava Shakespeare e il teatro, lo conosceva bene, non c’è dubbio.) Non c’è qualcosa da fare chissà quando e chissà dove, ma c’è qualcosa da dire, che va detto, esattamente in quel tempo, che sono i giorni, e in quel luogo, il salotto, il giardino, una stradina di campagna; e va detto, per di più, come ci ricorda Lia Cigarini, sempre rigorosamente in presenza di una donna, sotto il suo sguardo.2 Questo è il senso profondo che la Austen ha inteso dell’uso simbolico della lingua come momento di trasformazione personale e sociale; e la maestria politica, che sembra sgorgare con la più grande naturalezza dalla sua penna, è quella di mostrare due soggetti differenti, entrambi attivi nello scambio, in grado di neutralizzare, perché entrambi in scena e parlanti, ogni pretesa monologante e monologica del maschile universale. Parola come chiave di modificazione significa, poi, non solo non ignorare i molti usi e le varie declinazioni che essa può avere, ma proprio per questo individuarla ed esaltarla, come elemento centrale del discorso umano, quando si fa vera conversazione a due. Intendo dire che nei romanzi austeniani lo spettro della parola va dal monologo al soliloquio, dalla confidenza al pettegolezzo, dalla diceria al battibecco, dal sottinteso al frainteso, e lo spettro si diffrange fino a caratterizzare linguisticamente alcuni suoi personaggi come veri e propri tipi, da Lady Bertram di Mansfield Park a Miss Bates di Emma, o all’impagabile Sir Walter Elliot di Persuasione. «I suoi buffoni, i suoi pedanti, i suoi mondani» scrive Virginia Woolf «nascono avvolti nel colpo di frusta di una frase che, all’atto di circoscriverli, ritaglia per sempre la loro sagoma.»3 La parola mescola e colora tutti gli e le abitanti del suo mondo, si accompagna al gesto esplicito, trattenuto, prudente o sfuggente, partecipa dello sguardo, timido o irridente, o del semplice movimento delle labbra, ma esplode nella sua potenza trasformativa solo nel dialogo che, per questa via, diventa forma dell’azione.
La conversazione non è chiacchiera, anzi, fa passare la voce, attraverso il flusso dialogico, dal vocìo alla parola – e quante chiacchiere e quanto vocìo si sentono sempre in sottofondo, come in un attento contrappunto, sociale e familiare, dentro e fuori dal suo romanzo stesso. La conversazione si fa figura da vicino, da lontano, sfiora, attacca e tocca, come i corpi nella contraddanza, e nelle parole stesse si configura un vero e proprio ritmo. Figure, ritmo dei corpi e parola, in un movimento che raddoppia il piacere della seduzione. Parlare significa, per tutti e per ognuna, stabilire in che modo si sa e si vuole stare al mondo, comunicare all’altro e con l’altro la propria unica e singolare esperienza del mondo, mettendola appunto in comune.
Ma per vedere se la direzione è buona, cominciamo con l’accostare il nostro orecchio a quel magistrale capolavoro di piacere e leggerezza, quel concreto multiversum che ha per titolo Orgoglio e pregiudizio.4

Orgoglio e pregiudizio

Diviso nelle tre classiche parti, O&P sembra davvero ricalcato sulle figure del ballo; ne è sempre segnato, e letteralmente su una festa, di fatto, si apre, rendendo possibile un primo incontro fra due coppie di protagonisti, Elizabeth con Darcy e Jane con Bingley (le due sorelle Bennet e due amici fraterni). Ora, per riattraversare il romanzo seguendo la mia ipotesi, devo abbandonare la linearità del racconto e tentare uno schema delle conversazioni più significative, che lo taglia sul filo della sua quasi esatta metà, come fa Jane Austen, che colloca la dichiarazione d’amore di Darcy a Elizabeth, e la sua conseguente richiesta di matrimonio, nell’undicesimo capitolo della seconda parte, rendendola un evento spartiacque. Che agisce in modo retrospettivo, organizzando il senso delle più sottili svolte delle pagine precedenti, dovute alle conversazioni di Elizabeth rispettivamente con Darcy, con Jane e con Wickham, e anticipando le «azioni» seguenti, a partire dalla visita a Pemberley, vera e propria epifania di una proprietà che incarna il suo padrone e viceversa. Questo cambiamento di scena e di scenario chiude la seconda parte con quell’«eccoli dunque in partenza, diretti a Pemberley» – si tratta di Elizabeth con gli zii, i coniugi Gardiner –, che è perfetta introduzione agli snodi della terza e ultima, in cui le conversazioni sono tutte intese a sbrogliare definitivamente ogni pregiudizio e ridefinire il senso di ogni orgoglio, quasi ripescando un primo indizio abbandonato come traccia in quel titolo, First Impressions, del 1796, che è bene non dimenticare, in quanto utilissima bussola di lettura.
E cominciamo dunque proprio dalle ultime battute di questo affilato duetto, che occupa l’intero capitolo, vero e proprio duello verbale fra Elizabeth e Darcy, di forte tensione erotica e colmo, dietro l’apparente compostezza, di sentimenti e reazioni violente e ben espresse dal volto e dai corpi di entrambi, così ripartiti: per lei incredulo stupore, freddezza, esasperazione, rossore, offesa, indignazione, rabbia, finta compostezza, che finiranno in un gran tumulto interiore e in un pianto di «una buona mezz’ora»; per lui agitazione, nervosismo, sicurezza di sé, sorpresa, rancore, pallore, turbamento, vampe di gelosia, incredulità, meraviglia, vergogna e umiliazione finali. Ecco le parole con cui Elizabeth conclude il colloquio: «Fin dal principio, potrei dire, fin dal momento in cui vi ho conosciuto, sono stata colpita dai vostri modi e mi sono convinta della vostra assoluta arroganza, della vostra superbia, del vostro disprezzo egoista per i sentimenti degli altri; così, è andato formandosi in me quel senso di disapprovazione che con il tempo e gli eventi si è trasformato in irremovibile antipatia; vi conoscevo da meno di un mese e già sentivo che nemmeno se foste stato l’ultimo uomo sulla faccia della terra mi sarei lasciata tentare di sposarvi». Un rifiuto dall’aria definitiva e irrevocabile, perché fa risalire il peso di tutta la ragionevole rabbia e la comprensibile offesa, fino a questo momento espresse in risposta ai «modi» presenti della dichiarazione di Darcy, a quel fin dal principio che non si basa su comportamenti ed «eventi», ma su un’indubitabile apparenza di arroganza, superbia ed egoismo.
L’importanza di queste impressioni, che in tutta la prima parte si erano confermate con insistenza, mi pare stia nella loro duplice valenza: da un lato mostrano un errore di valutazione, dall’altro, proprio in quanto errore, lasciano aperta la strada per un ravvedimento, una correzione di giudizio, che altrimenti sembrerebbe, anche in seguito, poco verosimile. (Tanto più che questa «impressione» è anche frutto della vanità femminile, offesa da quel «passabile, ma non abbastanza bella da tentare uno come me», freddamente sibilato da Darcy, durante il ballo a Meryton, in cui aveva visto Elizabeth per la prima volta, un commento immediatamente riferito da lei alle amiche con tono scherzoso e ironico – tono tipico delle pennellate che sempre disegnano il suo carattere.)
La dichiarazione d’amore di Darcy non arriva certo inaspettata per chi legge; quasi subito infatti lui si accorge della «splendida espressione dei suoi occhi neri», che illuminano «quel viso di una straordinaria intelligenza», della figura snella e aggraziata, della disinvolta allegria di Elizabeth in tutte le situazioni e, pagina dopo pagina, incontro dopo incontro, vediamo il suo sguardo fissarla di continuo, e lo osserviamo mentre comincia a sentire che mai nessuna lo aveva tanto «incantato». È un crescendo inesorabile di osservazioni di questo genere, di riflessioni interiori e considerazioni positive espresse nella cerchia degli amici (e soprattutto delle sue amiche, gelosissime, e pour cause), che mostrano un’ammirazione esplicita per ogni forma di quella libertà divertita e spesso impertinente con cui Lizzy abita il suo mondo. Tutto questo spiega le prime, nervose parole con cui Darcy le si rivolge, dichiarandosi: «Ho cercato inutilmente di resistere. È inutile. Non ce la faccio più a reprimere i miei sentimenti. Voi dovete consentirmi di dire quanto vi ammiro e vi amo». Mescolando orgoglio e tenerezza, la spiegazione della resistenza opposta ai suoi stessi sentimenti viene presto chiarita; Darcy è perfettamente consapevole che si tratta di una vera e propria mésalliance, che la proposta umilia la sua origine di classe, data la condizione decisamente inferiore di lei, con l’afflizione aggiunta di una famiglia, e in particolare di una madre, impresentabili, ma è ormai tanto pronto a lasciar vincere i suoi sentimenti di superiorità da non mettere in dubbio di poter essere accettato. Una formulazione così «appropriata», frutto di un evidente contrasto tra amore e dover essere, non può che far infuriare una ragazza come Elizabeth, la cui ricerca della felicità fino a questo momento si è confrontata solo con la spontaneità del piacere e la purezza dell’ideale amoroso (la prima conosciuta nell’incontro con Wickham, la seconda nel rifiuto opposto alla proposta matrimoniale del reverendo Collins, come vedremo fra poco).
Sono queste due esperienze a farle rigettare d’impulso la lusinga implicita nell’offerta di Darcy, e anzi a tramutare la compassione per il possibile dolore di lui di fronte al suo rifiuto, in collera. Insopportabile, addirittura insultante è, infatti, per lei sentire di piacergli «a dispetto» della sua volontà, ragione e persino temperamento, ed è per questo che gli risponderà chiarendo tutte le ragioni che la portano a «pensare male» di lui. Prima di tutto, naturalmente, essere stato proprio lui la causa della rovina della sua amatissima sorella Jane, in quanto artefice di quella separazione da Bingley che l’aveva resa tanto infelice, e poi l’aver avuto indubitabile notizia, dal signor Wickham, di un suo pessimo carattere, maturato negli anni, e del comportamento poco da «gentiluomo» messo in atto nei diretti confronti di quest’ultimo. Di fronte a due accuse così pesanti e circostanziate, che ostacolano ogni forma di stima, prima ancora che di amore reciproco (e proprio in questo ordine, come sempre in Austen), Darcy si ritrae, non senza aver sottolineato però quanto l’onestà della sua confessione, «riguardo agli scrupoli che mi hanno a lungo impedito di prendere una decisione seria», abbiano in realtà ferito, a suo avviso, l’orgoglio di Elizabeth. (Stoccata intelligente, l’orgoglio, come ho appena ricordato, era già stato ferito al primo incontro, per l’invito al ballo da lui negatole, e lei stessa lo aveva commentato tempo dopo proprio così: «Potrei facilmente perdonare il suo orgoglio, se non avesse offeso il mio».)
Le ragioni dell’una e dell’altro sono ora chiare ai nostri occhi, e di entrambi sentiamo la verità, quella piccola ala di sincerità che permetterà loro di prendere il volo superando sia l’orgoglio, sia il pregiudizio. Che saranno adeguatamente redistribuiti in capo a ciascuno, tenendo anche ben ferma una distinzione fra orgoglio e vanità messa in bocca, nelle primissime pagine, alla più piccola delle sorelle Bennet, Mary (l’unica «che si faceva vanto delle sue riflessioni» e delle sue letture): i due termini non sono affatto sinonimi, perché «l’orgoglio ha a che fare con l’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità con l’opinione che vorremmo che gli altri avessero di noi».
Riprendiamo ora il filo delle conversazioni di tutta la prima parte del romanzo, in cui protagonisti e comprimari vengono messi sulla scena della loro vita quotidiana con mano esperta e a volte feroce. Tra le famiglie del villaggio quella dei Bennet è una vera cartina di tornasole dell’economia che governa la piccola gentry, un capofamiglia senza eredi maschi, una madre che deve trovare marito a ben cinque figlie, tutte con una rendita assai modesta, l’erede maschio di un ramo laterale della famiglia che, alla morte del padre, può entrare in possesso della casa e della proprietà. La bellezza del famoso inizio di O&P – «È verità universalmente riconosciuta che un giovanotto in possesso di una discreta fortuna abbia bisogno di sposarsi» – è indubbiamente dovuta al tocco di perfetta ironia ma anche, dal punto di vista strettamente costruttivo, all’irruzione fulminante del fattore che agiterà l’intera trama, le acque dell’intero racconto. Quella «discreta fortuna» sarà la preda fieramente cacciata dalla signora Bennet per la primogenita Jane, la figlia più bella, la sua favorita, e il ragazzo che la possiede diventerà l’objet d’amour spontaneo e tenero di quest’ultima. D’altronde, la verità simmetrica a questa è quella tranquillamente espressa dalla Austen alla nipote Fanny, in una lettera del marzo 1817, ovvero che «le donne sole hanno una spaventosa tendenza a essere povere – fortissimo argomento a favore del matrimonio», una verità animata in tutti i suoi romanzi da qualche figura minore, che perfettamente l’incarna (da Charlotte Lucas, per esempio, proprio in O&P).
Visto che due sono le accuse imputate da Elizabeth a Darcy in questo colloquio che imprime una svolta decisiva al romanzo, è meglio ora recuperare le tracce del loro formarsi, inseguendole là dove si sono determinate in modo conclusivo, ovvero all’interno di una serie di dialoghi, a riprova che non sono prioritariamente i fatti o gli eventi a modificare la trama, ma le opinioni che si formano intorno ai fatti. Conversando. Si tratta della parte avuta da Darcy nella separazione di Jane da Bingley e della sua cattiva condotta nei confronti di Wickham, quindi è utile riattraversare la relazione fra Elizabeth e questi due personaggi per capire il fondamento del suo giudizio. Cominciamo intanto col sentire cosa si dicono le due sorelle, Elizabeth e Jane, di ritorno nella loro casa di Longbourn, appena rimangono sole dopo il primo ballo e la prima conoscenza con i due amici, Darcy e Bingley, da poco arrivati in campagna. È la prima confidenza di molte cui assisteremo, e serve all’autrice per definire i loro caratteri con una nettezza che non sarà mai smentita; chiacchierando della serata, ricordandone lusinghe e piaceri, dichiarando Jane senza timori la sua preferenza per Bingley, quasi sorpresa, nonostante la sua incontestabile bellezza, delle attenzioni di lui, scopriamo il suo tratto più caratteristico, un candore e una benevolenza che non diventano mai ostentata ingenuità, ma sono profondamente radicati in una natura fiduciosa e priva sia di orgoglio sia di pregiudizio. Da subito, al contrario, la brillante intelligenza di Elizabeth e il suo spirito di osservazione la mostrano più disincantata e capace di decifrare i segni ambigui di molte attenzioni mondane.
Tutta questa conversazione è impastata di un affetto che rende autentico il loro scambio, ma la differenza di fondo è presto chiara: mentre Jane, in ogni circostanza, dà credito all’altro, e tende a volerne vedere sempre il bene, Elizabeth ha l’ardire pronto di un giudizio più irruente e conclusivo, a volte aderente alla verità della situazione, a volte aderente invece, all’idea di quanto lei crede comunque giusto e vero. E se certo la malizia velocissima dell’una è più affascinante della modestia misurata dell’altra, serve lo sguardo di entrambe per decifrare appieno il senso di quanto loro avviene. Se prendiamo per esempio la vicenda della relazione fra Jane e Bingley, la faccenda è presto detta: arrivato abbastanza per caso a Netherfield Park per distrarsi un po’ in campagna, Bingley non perde occasione per corteggiare Jane Bennet, la più bella, semplice e dolce delle ragazze del piccolo villaggio, ma, di fronte all’insistenza della propria sorella, Caroline, e dell’amico Darcy, preoccupati per questo flirt ai loro occhi privo di prospettive sensate, si fa facilmente convincere a ritornare a Londra per passare l’inverno fra i divertimenti e i balli della stagione. Siamo già nel penultimo capitolo della prima parte quando Jane è informata, da una lettera di Caroline, di questa decisione inaspettata, e proprio sull’interpretazione di questa lettera, in cui si prospetta anche il desiderio che Bingley sposi la giovanissima sorella di Darcy, i giudizi delle due sorelle saranno nuovamente in conflitto. Di fronte allo sbigottimento già rassegnato di Jane, che legge fra le righe due verità, ovvero che Caroline non desidera affatto imparentarsi con lei e che il fratello è indifferente, Elizabeth non si fa scrupolo di dire tutt’altro, rovesciando l’interpretazione dell’intera lettera: «Sarò breve. La signorina Bingley si accorge che suo fratello è innamorato di te, ma vuole che sposi la Darcy. Allora lo segue a Londra nella speranza di trattenercelo, e intanto cerca di convincere te della sua indifferenza».
La questione dell’indifferenza, vera o presunta, è una chiave di manipolazione e fraintendimento molto importante e sottile perché un affetto sbocci o sfiorisca più o meno in fretta, dato che in quel tempo, e in quella società, pochissime erano le situazioni di possibile incontro fra giovanotti e signorine, se si eccettuano gli inviti tra famiglie, i balli, la cui durata per fortuna favoriva, prevedeva e obbligava alla conversazione, e qualche passeggiata o gita in cui al massimo ci si poteva allontanare di pochi passi dalla compagnia. Difficile, ma essenziale, è dunque bene intendere i segnali di interesse, conoscere minutamente i codici, decifrare i comportamenti verbali e non verbali e, da parte di una ragazza, esercitare soprattutto una capacità di esatta misura nel mostrare i propri sentimenti, né troppo, né troppo poco, per evitare ogni chiacchiera maliziosa. Ma forse il carattere di Jane, che istintivamente affida il silenzio a una bellezza che parla da sola, può aver sottovalutato lo sforzo necessario per trasformare un leggero invaghimento in amore. È Charlotte Lucas, l’amica più cara di Elizabeth, a sottolineare con sofisticata precisione la riflessione che fa intendere il peso di ogni elemento della condotta femminile in questo tipo di frangenti. Mentre l’ammirazione di Bingley per Jane non è più un segreto per nessuno, lei, che pure «era sulla buona strada per innamorarsi davvero», «univa a una grande intensità di sentimenti una compostezza di modi e un buon umore costante che l’avrebbero tenuta al riparo dal sospetto degli impertinenti». Degli impertinenti, certo, ma anche forse dello stesso Bingley, se la dissimulazione diventa eccessiva; e con buon senso Charlotte afferma che, «se una donna nasconde il proprio affetto altrettanto bene a chi l’ha suscitato, rischia di perdere l’occasione di conquistarlo e allora sarebbe un ben magro conforto sapere che il mondo è comunque all’oscuro di tutto. Quasi ogni amore deve così tanto alla gratitudine e alla vanità che non sarebbe prudente abbandonarlo a se stesso. […] In nove casi su dieci, le donne farebbero meglio a mostrare più di quel che sentono. A Bingley tua sorella piace, non c’è dubbio, ma se lei non lo aiuta, potrebbe anche non andare oltre».5 Troppa prudenza non va bene, secondo Charlotte, anzi; per Elizabeth, al contrario, questi sarebbero piani da mettere in atto solo in caso una voglia trovarsi «un marito ricco, o un marito qualunque». Caroline Bingley, però, lavora proprio sulla dissimulazione, e mentre insinua a Jane l’indifferenza del fratello...

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