Istanbul. Il doppio viaggio
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Istanbul. Il doppio viaggio

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6 settembre 1983 «Le cupole galleggiano leggere, ampie, d'un grigio inaspettato che sfuma nel celeste costellando il profilo della città come una flotta di astronavi planate sul Bosforo…» 12 settembre 2011 «Oggi le moschee sono circa 3000,ma oggi c'è internet e si possono contare … Sono tornata qui perché non l'avevo mai dimenticata, Istanbul». La scoperta fortuita, nel caos del suo archivio personale, di un diario di viaggio scritto quasi trent'anni prima: è questa la molla – un misto di desiderio e rimorso – che spinge Adele Cambria a chiedersi perché avesse lasciato passare tanto tempo «senza Istanbul». Da qui l'urgenza di partire di nuovo, dopo quel lontano settembre 1983… È dunque un doppio viaggio quello che l'autrice compie in queste pagine, con uno sguardo all'indietro sulla Istanbul di allora e gli occhi puntati sulla Istanbul dei giorni nostri. Questa volta, oltre all'inseparabile taccuino, Adele Cambria si fa accompagnare da tre scrittori, o meglio «descrittori»: Edmondo De Amicis, Pierre Loti e Orhan Pamuk. Se De Amicis è un magnifico cronista, e non si può partire per Istanbul senza portarselo in tasca, allo stesso modo non si possono non leggere le pagine di Loti, che fece della Turchia la sua seconda patria, assimilandone i comportamenti, indossandone gli abiti, e, infine, nutrendo un grande amore impossibile per una giovinetta circassa. E poi Pamuk, con il suo sguardo «alla rovescia», il suo conflitto irrisolto con la storia del proprio paese e la sua diffidenza nei confronti dei viaggiatori occidentali, eccetto De Amicis… Ne sortisce un diario all'insegna della migliore «letteratura di viaggio», che oggi, assediata dal turismo di massa, tenta di difendersi e di recuperare il piacere e la verità dello sguardo. E nessuna città come Istanbul, questa meravigliosa signora dei tre mari, si offre alla sapienza di uno sguardo a occhio nudo e della scrittura che può scaturirne. Con l'esperienza di una giornalista di lungo corso, Adele Cambria ci conduce alla scoperta della Istanbul che ogni lettore o viaggiatore ha sete di scoprire, e al contempo ci apre squarci illuminanti sulla cocente attualità politica e culturale di una città che più di altre sperimenta dentro di sé le lacerazioni e i conflitti del nostro presente – quelli tra plurime etnie, tra opposte ideologie, tra modernità e memoria.

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Information

IV.

Davanti al suo enigma

Il tempo corre, non posso lasciarmi sfuggire Istanbul dalle mani, ho paura che svaniscano le sue immagini, i pensieri che mi ha suggerito, giusti o sbagliati che siano: questa è la città che ho inseguito, visto, scritto, e poi seppellito in un archivio, per quasi trent’anni, e che ho ricominciato a scrutare – meno ignara della prima volta – a settembre del 2011; e ancora, tornata a casa, continuo a leggere, a informarmi, ad ascoltare, a cercare di capire; infine devo placarmi, con umiltà, davanti al suo enigma…

…Andiamo per titoli successivi

Dolmabahçe

Dolmabahçe, la seconda volta. La sua visione, dal Bosforo, non ha perso il candore monumentale che ne esalta il fascino. Ritrovo, all’interno del palazzo di oltre 280 stanze, le scale e le balaustre di cristallo di rocca intatte, il fastoso lampadario di cristallo di Boemia, regalo della regina Vittoria (tutte accese le 360 lampadine, senza badare a spese, ora che la Turchia è, dicono gli economisti, un paese ricco); il lampadario, appeso alla vertiginosa cupola della Sala del trono più vasta, dicono, del mondo, immagino – ma dov’è finito il mio femminismo? – che illuminasse la balconata dalla quale si mostravano le più belle donne dell’harem, per la meraviglia degli ambasciatori di Francia, d’Inghilterra, degli zar; e poi, l’uno in fila all’altro, gli innumerevoli salotti in cui il sultano si intratteneva, a turno, con le odalische prescelte (spesso dalla madre, la Valide), godendo delle loro danze e della loro musica… Tutto è come prima, ma niente lo è… Nel 1983, abbagliate dall’estremo lusso della smisurata reggia, non visitammo l’appartamento in cui aveva vissuto gli ultimi anni solitari e tristi Mustafa Kemal Atatürk, il Padre dei turchi, soltanto pro forma, a quel punto, presidente della Repubblica. Probabilmente quelle stanze, nel 1983, non erano aperte ai visitatori: in una di esse, nel 1928, un quarantasettenne vigoroso ed elegante, lui stesso, scrisse per la prima volta sulla lavagna, davanti a una classe di scolari delle elementari, la pagina di un poeta turco, sostituendo la grafia araba con quella occidentale. Dieci anni dopo, Atatürk morì di cirrosi epatica: era il 10 novembre del 1938, ed erano le 9.10 del mattino. E su quell’ora fatale sono bloccati da 74 anni tutti gli orologi, 15 000, della preziosa collezione della Torre degli orologi che gli architetti Balyan, padre e figlio (Karabet e Nikogos), ritennero indispensabile a completare la loro opera monumentale; mentre la piccola Moschea di Ortaköy, la moschea del Palazzo, «d’una impressionante eleganza barocca» (sempre firmata dai due Balyan), si direbbe che immerga civettuola i piedi nel blu del Bosforo.

Atatürk, il fascino e il mistero dell’uomo

…È stato quasi uno choc, questa volta, il passaggio dal fasto del Dolmabahçe – persino il sultano Abdül Mecit, che lo aveva voluto, entrandovi per la prima volta, nel 1850, ammise: «Avrebbe potuto essere più semplice!» – alle austere malinconiche stanze di Mustafa Kemal, l’inventore della repubblica; un eroe ormai «inutile», confinato su una carrozzella? Atrocemente analogo sembrerebbe il suo destino a quello dei sultani costretti al suicidio dai loro eredi, come Abdul Aziz, o, sempre in tempi «protomoderni», affidati alle cure o insipienti o complici dei medici, e quindi imprigionati, come avvenne a Murat III, con diagnosi di irrecuperabile alcolismo, nel Palazzo Çırağan sul Bosforo.
Ma Atatürk era di altra stoffa. Nel 1937, per quanto fosse evidente che la sua salute era peggiorata, la sua mente era ancora lucida: lo preoccupava la debolezza della Francia nell’imminenza della guerra; aveva paragonato la linea Maginot alla turbe di un famoso cantastorie turco, Nasreddin Hoca, di cui era stata eretta soltanto la grandiosa facciata. In un’altra occasione, parlando con il generale Gamelin, aveva emesso questa sentenza: «Se la Francia continuerà ad essere governata da questi uomini – alludeva al Fronte popolare e al suo leader socialista Léon Blum – sarà distrutta».
…Passò qualche mese, i medici confermarono la diagnosi di cirrosi epatica. Fu richiamato, da Parigi, il dottor Fissinger, il luminare che invano gli aveva ordinato un riposo di tre mesi, una dieta adatta e niente alcool. Fissinger lo visitò, confermò la gravità della situazione e gli annunciò che sarebbe tornato a Parigi. A chi, nel palazzo, insisteva perché restasse vicino all’ammalato, il medico rispose: «Se resto anche un solo giorno di più, finirà che sarò io ad obbedire a lui. La sua volontà è troppo forte».
«Ma come mai aveva così pochi libri, Atatürk?», mi chiede sottovoce W. allungando il suo sguardo di lettore accanito alla semivuota libreria dello studio dove c’è ancora la carrozzella dell’invalido. Ma Serkan ha sentito e spiega: «Quasi tutto è stato donato…».
Il 5 settembre del 1938 Atatürk aveva voluto un notaio per fare testamento. E chiese anche a chi gli stava vicino di essere aiutato a vestirsi con dignità. Un pigiama di seta, una vestaglia di broccato rosso, rosso anche il foulard di seta annodato attorno al collo. Scrisse il testamento di suo pugno: tutte le sue proprietà venivano donate al Partito del Popolo e sarebbero state amministrate al fine di sostenere l’educazione dei cittadini, attraverso due Società: quella linguistica e quella storica. (Ecco dunque dove sono andate a finire le biblioteche di Atatürk). Nelle ultime disposizioni erano ricordate, con lasciti separati, le sei figlie adottive del presidente e naturalmente l’unica sorella Makbule.
Ma chi era davvero l’uomo che si avviava alla morte ad appena 57 anni?
…Non sta certo a me azzardare il profilo del personaggio che è stato un mito della prima metà del Novecento in Eurasia, e oggi ambiguamente contestato da chi governa la Repubblica della Turchia, il premier islamista moderato, Recep Tayyip Erdoğan, e dal suo entourage. Si fa circolare l’idea che le tante statue sparse ovunque dell’eroe nazionale turco, del Padre della Patria, di Atatürk, sanno d’anticaglia in un paese che invece galoppa (sia pure a modo suo) verso la «Modernità». (Atatürk come Stalin? Non ci credo…).
E poi ho visto una sua statua bellissima, nient’affatto retorica, semmai elegantemente rétro… Se ricordo bene rappresenta una figura virile in eleganti abiti occidentali, che guarda l’Asia dalla riva europea del Bosforo, sul lungomare del signorile quartiere di Beşiktaş… E che i suoi occhi erano azzurri e, da bambino, i capelli li aveva biondi, lo so persino io…
Mustafa Kemal, questo il suo nome (i cognomi non esistevano in Turchia, li impose lui) nacque il 18 maggio del 1881 a Salonicco. Il padre era turco – Ali Riza Kemal – la madre, Zübeyde Hanım, era nata in un villaggio tra le montagne del Tauro, e si mostrava orgogliosa di discendere da una delle prime tribù nomadi, gli Yürük, che si erano stabilite nella regione. Il matrimonio di Ali e Zübeyde stava per andare a monte, perché lo sposo, un piccolo impiegato, figlio di un maestro di scuola, non aveva abbastanza danaro per pagare la dote richiesta, secondo il costume delle tribù, dalla famiglia della sposa. Anche questo è un tassello significativo nella biografia di Atatürk; e attingo a quella, ricca di documentazione ma anche di aneddoti vivaci e poi, in finale, di narrazioni dolorose, scritta da Lord Kinross, un celebre giornalista britannico, e pubblicata per la prima volta nel 1964 a Londra, con il titolo The Rebirth of a Nation (La rinascita di una nazione).
Le ragazze da marito, dunque, venivano «vendute», e senza dubbio Mustafa, ragazzino precoce, seppe presto che era venuto al mondo soltanto perché lo zio Hüseyin, fratello della madre, aveva fatto un prestito ad Ali Riza Kemal, impiegato comunale senza prospettive di carriera (forse perché laico e socialista) in un ufficio preposto al controllo e all’amministrazione delle Opere pie. Quell’umiliazione subita da entrambi i genitori sarebbe stata elaborata nel tempo da Mustafa, e probabilmente fu il seme da cui sarebbe cresciuto il suo impegno per l’emancipazione delle donne turche.
«Il cui stato – scrive Lord Kinross – quando fu proclamata la Repubblica Turca non era granché mutato dai tempi di Maometto». Forse esagerava; come sappiamo da Edmondo De Amicis, Costantinopoli, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, era popolata di belle donne, truccate alla perfezione, e vestite con fogge e colori che ne esaltavano il fascino agli occhi dei viaggiatori occidentali; quindi la visione delle loro passeggiate in carrozza, o a piedi, o ai bagni delle acque dolci – ma sempre debitamente scortate da eunuchi e schiave, e mai da mariti, fratelli o padri – offrivano un quadro d’epoca che veniva preso alla lettera dagli artisti europei… Domenico Morelli, grande pittore napoletano – che mai aveva messo piede in quella magica città – dipinse infatti La sultana che torna dal bagno: ecco l’abito bianco voluminoso della sultana, il volto sfiorato da un velo trasparente, l’ombrellino rosso sorretto rispettosamente dall’eunuco africano, e il corteo delle schiave «velate»…
Ma le altre? Mustafa Kemal – arrivato al potere – denunciava spesso la condizione delle donne turche delle campagne: erano analfabete (anche sua madre sapeva appena leggere e scrivere) e, nelle fatiche dei campi, erano loro a sostituire i mariti, emigranti o soldati, erano loro a caricare e scaricare gli asini, l’unico mezzo di trasporto di cui la famiglia disponeva; nelle guerre, poi, seguivano le truppe a piedi guidando i cammelli con le salmerie.
Ma ecco le parole di uno dei primi discorsi di Kemal Atatürk – presidente della Repubblica – a donne e uomini, riuniti in un cinema di Ankara. Indirizzandosi alle donne disse: «Vincete per tutti noi la vostra battaglia per l’istruzione e avrete fatto per la vostra patria più di ciò che abbiamo fatto noi!». E agli uomini: «Se nell’immediato futuro le donne non condivideranno la vita sociale della nazione, non raggiungeremo mai un pieno sviluppo».
Non sembrano concetti che risuonano ahimè identici oggi, nel 2012, alle nostre orecchie italiane, con l’unica eccezione (per fortuna) che sono principalmente le donne a rivendicarli? (E gli uomini, perlopiù, fingono di convalidarli…).
Kemal Atatürk concludeva incalzante: «Resteremo irreparabilmente indietro all’Occidente, incapaci di creare una civilizzazione compatibile con quella occidentale». E rivolgendosi agli ascoltatori di sesso maschile: «Se rifiutate di entrare risolutamente nella vita moderna, se non obbedite alle regole che essa impone, diventerete i paria del mondo, isolati nella vostra ostinazione, con le vostre tradizioni di un’altra epoca… Restate voi stessi, ma imparate dall’Occidente ciò che è indispensabile ad un popolo evoluto».
…Nei giorni scorsi chiacchieravo con un vecchio amico, Lionello Massobrio, scrittore, film-maker, editore del quotidiano «Lotta Continua». Lionello nel 1997 era andato in Turchia a raccogliere testimonianze sulle giovani donne curde che, fingendosi incinte, si lasciavano esplodere davanti alle caserme o ai posti di blocco turchi; ora mi ha portato quel suo articolo, pubblicato il 29 gennaio 1997 sul «Diario della Settimana» diretto da Enrico Deaglio. C’è anche la lettera della prima delle tre suicide di cui gli avevano parlato. Eccola: «Il mio nome è Zeynep Kınacı: ho compiuto i miei studi all’Università, poi ho trovato lavoro nell’Ospedale statale… Il mio interesse per il movimento di liberazione curdo ha le sue radici nell’identità nazionale della mia famiglia, che appartiene alla tribù Mamureki… Il nemico conduce contro di noi una guerra totale».
E poi: «Voglio essere l’espressione della lotta per la libertà del mio popolo… Voglio accendere una bomba nel mio corpo… Il motivo di questa azione è il mio amore per la vita».
«Se ti serve usala», mi dice Massobrio col suo solito tono ruvido. Lo ringrazio e infilo le fotocopie nel mio dossier curdo, vorrei che nessuna donna al mondo fosse costretta a partorire bombe, invece che bambini, ma arrivano brutte notizie dalla Turchia, ho appena ricevuto una mail della Commissione straordinaria dei Diritti umani del Senato, presieduta da Pietro Marcenaro; insieme alla Federazione italiana della stampa e alla Federazione europea dei giornalisti hanno organizzato una conferenza stampa intitolata Quando la redazione va in galera; i giornalisti curdi sono il 45% dei 102 giornalisti incarcerati nella Repubblica turca.
…Ma intanto dico a Lionello che mi sto occupando di Atatürk, di cui non sapevo quasi nulla: «Lo sai che è nato a Salonicco? È stata una sorpresa!».
«Non è possibile, era un turco!», ha reagito Lionello.
E ha ragione. Mustafa Kemal era un turco, nato in una città che ha all’incirca la stessa età di Roma, fondata dal re dei Macedoni, Cassandro, nel 315 a.C.…
E non a caso il primo capitolo della sua biografia si intitola «Nascita di un macedone».
I genitori del futuro Padre della Patria si erano sposati a Salonicco, e qui era nato Mustafa – terzo figlio e l’unico sopravvissuto, insieme a una sorella, Makbule, dei sei bambini partoriti da Zübeyde. Le condizioni in cui si nasceva, all’epoca, in Turchia come in Calabria, non erano certo le più felici… Morivano i bambini della povera gente, ma anche quelli delle famiglie benestanti, per la scarsa igiene e l’ignoranza della fisiologia della madre e del neonato.
Ma Salonicco era una città cosmopolita, con un porto commerciale che le dava ricchezza e vivacità (ricordate Samuele, il marinaio forse greco, forse italiano, che si votò a Pierre Loti, e ne protesse l’amore con l’odalisca circassa?)… La città, dunque, ha una storia più che bimillenaria. Nel 146 a.C., dopo la caduta del regno di Macedonia, anche Salonicco – in greco Thessaloniki, in turco Saloniki – entrò a far parte dell’Impero romano e i Romani costruirono la via Ignazia che collegava Bisanzio (Costantinopoli e poi Stanbul) con Durriachium, l’odierna Durazzo, in Albania.
La città era un coacervo di etnie: macedoni, greci, albanesi, romani, le prime tribù turche vi si stabilirono nel 904 d.C. e comunque qui visse e prosperò la più popolosa comunità ebraica europea, almeno fino alla prima guerra mondiale (1914-18). Ma già quando l’Impero romano cristianizzato si sdoppiò tra Roma e la Nuova Roma, la Salonicco bizantina ebbe il titolo onorario di Symbasilevousa, quindi co-capitale di Costantinopoli, e perciò gemella della città caput mundi dell’Impero cristiano d’Oriente.
In quanto al piccolo Mustafa, molto legato alla madre – alla quale somigliava nel colore degli occhi e nella carnagione chiara – è lui stesso, asceso al potere dopo una brillante carriera militare, a evocare, non senza ironia, la cerimonia di iniziazione religiosa, cui fu sottoposto (ma non nomina la circoncisione) per compiacere la mamma: «Fui vestito a festa da mia madre, tutto in bianco e con un turbante ornato di lustrini d’oro, in una mano reggevo un ramo di palma dorato… Il Maestro (hoja) arrivò davanti alla nostra porta di casa, decorata di rami verdi, insieme ai suoi allievi. Dopo aver pregato tutti insieme, seguendo le istruzioni di mia madre e di mio padre, portai la punta delle dita sul petto e quindi baciai la mano dei miei genitori e quella del Maestro. Subito dopo, partimmo in un’allegra processione con tutti i miei nuovi compagni, e percorrendo la strada principale della città arrivammo alla scuola (madrasa) e poi nella moschea. Qui un’altra preghiera fu ripetuta in coro, poi il Maestro mi portò per mano in una nuda stanza e al centro di essa, sotto la volta, mi fu rivelata la sacra parola del Corano».
Così gli scrupoli religiosi di Zübeyde furono soddisfatti, e lei, ora, poteva guardare negli occhi, e a testa alta, i vicini di casa… Ma la scuola coranica non piaceva affatto a suo figlio. Al contrario, gior...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I. Un viaggio d’evasione
  6. II. Ahimè, la Geografia…
  7. III. Il sorriso del müezzin, poi l’Armenia
  8. IV. Davanti al suo enigma
  9. Ringraziamenti