Nona sinfonia
(in Re minore op. 125, Corale)
1. Ritorno alla sinfonia e «terzo stile».
Non si intende bene la natura della Nona sinfonia di Beethoven se non si considera che essa si realizza dopo una frattura di più di undici anni dall’epoca di quel periodo sinfonico, detto anche «eroico», che aveva visto nascere in un blocco tutto sommato omogeneo e continuo le Sinfonie dalla Prima all’Ottava. La Nona ha qualcosa di postumo, di un ritorno a forme già provate a fondo e poi messe da parte: giacché la sinfonia non è un genere adatto a qualsiasi contenuto, e altre istanze, avvenimenti e interessi si erano affacciati alla mente di Beethoven dopo il 1816 circa, dopo il tramonto dell’epopea napoleonica e durante gli anni del Congresso di Vienna.
Nel frattempo cambia anche la vita privata di Beethoven: la sordità lo invade in modo completo, costringendolo dal 1818 in poi a servirsi dei «quaderni di conversazione», dove i suoi interlocutori scrivevano le domande cui lui rispondeva a voce; con la morte del fratello Kaspar Karl nel 1815, diviene tutore del nipote, occasione di aspri contrasti con la cognata e liti che finiscono in tribunale. Per altro il suo cammino creativo continua indisturbato, unicamente dipendente dalla sua volontà artistica; mentre le sue Sinfonie circolano regolarmente nei programmi dei concerti pubblici in patria e fuori, Beethoven si addentra in un mondo espressivo nuovo, dove è venuto meno quel comune denominatore sinfonico per cui una sinfonia, una sonata per pianoforte o un quartetto d’archi potevano tutti avere in comune la stessa apertura alare, la stessa unità di azione; è questo il mondo ramificato del così detto «terzo stile» (come è stato definito per distinguerlo dal secondo o «eroico»), che sembra dividersi fra una tendenza a scavare nella più segreta intimità, specialmente in opere cameristiche, e un’altra a indagare, più ancora che in passato, forme storiche, come la fuga e la variazione, in opere grandiose e sistematiche. Nuove zone della vita affettiva vengono in luce con le preromantiche fantasie della Sonata op. 101, delle due Sonate per violoncello e pianoforte op. 102, dei Quartetti op. 74 e op. 95, del ciclo liederistico An die ferne Geliebte («All’amata lontana») del 1816; ma sul fronte delle grandi opere tiene dietro nel 1818 la monumentale Sonata per pianoforte op. 106, mentre nel 1819 era già incominciata l’elaborazione della Messa solenne e delle 33 Variazioni su un valzer di Diabelli: Beethoven lavora quindi all’interno di quelle due sfere, la monumentalità e l’analisi psicologica, che segneranno le principali vie artistiche del secondo Ottocento.
2. Un’offerta da Londra.
Nel 1821, in due righe un tantino maligne, un giornale di Lipsia scriveva che «Beethoven, come Haydn un tempo, lavora attorno a motivi di canti scozzesi; per lavori più grandi sembra abbia chiuso del tutto»; come osserva Wolfgang Stähr (Ulm 1994, p. 246) quella notizia oltre che tendenziosa era falsa perché proprio in quegli anni, non ostante i problemi di salute e le avvilenti beghe famigliari, Beethoven era più che mai occupato sul fronte di lavori di vasto respiro.
Sulle diminuite capacità produttive di Beethoven ci sarebbe anche da ricordare una sua stessa ammissione nel corso di una conversazione con Friedrich Rochlitz: «Da qualche tempo non mi viene più tanto facile scrivere. Siedo e penso e ripenso; l’ho già qui (la cosa da dire): ma non vuole venir fuori sulla carta. Mi spaventa incominciare lavori molto grandi; ma quando mi ci metto, allora la cosa cammina»; l’affidabile Rochlitz, nel suo articolo pubblicato sull’«AmZ» il 2 gennaio 1828, riferisce certo frasi di Beethoven, ma il tono sembra un po’ intellettualizzato per convincerci del tutto dell’autenticità di quella dichiarazione.
Comunque sia, il progetto di un nuovo lavoro sinfonico, dopo la Settima e l’Ottava sinfonia, si affaccia già nel 1811, e abbozzi in questo senso s’intensificano fra il 1815 e il 1816; quando nell’estate del 1817 arriva dalla Società filarmonica di Londra l’invito a recarsi nella città a dirigere o presentare opere sue, la richiesta viene a dare l’ultima spinta a una tendenza che già occupava la mente del compositore. Che Beethoven avesse voglia di tornare alla sinfonia dopo tanto tempo si vede dall’entusiasmo con cui aderisce alla proposta: si impegna addirittura per due sinfonie diverse, progetto grandioso e forse infattibile, per il quale incomincia a riempire pagine di abbozzi e schizzi preparatori. È singolare che ancora nei primi mesi del 1822 il compositore pensasse alla realizzazione di due sinfonie distinte: una in Re minore interamente strumentale, comprendente un Allegro, uno Scherzo, un Andante quasi Minuetto e un Finale; dell’altra si sa solo quello che dice la traccia di un programma generale conservato in un foglio volante del 1818 contenente abbozzi della Sonata op. 106: «Adagio cantique: canto pio in una sinfonia nei modi antichi (Signore Iddio, Ti lodiamo – alleluja), autonomo oppure come introduzione a una Fuga. Forse tutta la seconda sinfonia caratterizzata a questo modo, facendo allora entrare le voci nell’ultimo brano o già nell’Adagio. I violini ecc. nell’ultimo brano sono decuplicati. Oppure l’Adagio si ripete in qualche modo nell’ultimo brano, in cui ecco che i cantanti entrano via via. Nell’Adagio testo [da] mito greco – Cantique Eclesiastique – nell’Allegro festa di Bacco» (Bekker 1912, p. 268).
Ma nel fervore di tanti progetti, sulla scrivania di Beethoven ne spunta un altro, ripescato nei ricordi della giovinezza: cogliere finalmente l’occasione di mettere in musica l’Ode alla gioia di Schiller, un’aspirazione che Beethoven portava dentro di sé dagli anni di Bonn, risalendo indietro almeno fino al 1793; più volte ci si era provato, o ci era andato vicino, l’ultima ancora nel 1815 con l’idea di inserire qualche passo del testo di quella poesia nell’Ouverture op. 115 pensata per l’onomastico dell’imperatore. Ora, la possibilità di saldare i conti con l’antico sogno, di ritrovarsi a fronte i versi di un poeta tanto amato quanto famigliare (invece di quella nebulosa mescolanza di medioevo cristiano e mitologia greca) deve aver sgombrato la strada per risolvere il problema del finale con voci, e persino per fondere i due progetti distinti in una sinfonia sola. Che assumerà così questo assetto definitivo: primo e secondo movimento sono quelli della sinfonia strumentale in Re minore; l’Adagio Cantique della seconda sinfonia progettata passa nella prima, conservando il clima religioso e portando con sé l’Andante in tempo di Minuetto previsto per la sinfonia strumentale; nel finale entrano le voci, quattro solisti e il coro, non per festeggiare Bacco, ma per cantare l’ode di Schiller.
3. Confluenze e sguardi all’indietro.
Il 6 luglio 1822 Beethoven scrive al suo ex allievo Ferdinand Ries, da anni ormai residente a Londra: «che onorario mi potrebbe offrire la Società filarmonica per una grande sinfonia? Continuo a pensare di venire a Londra, se solo la salute me lo permette, forse la primavera prossima?!» (Epistolario, IV, p. 584). Il lavoro alla «grande sinfonia» doveva essere appena incominciato, per proseguire nella sua fase più intensa nel periodo fra l’autunno del 1822 e il febbraio del 1824; solo attorno all’Eroica, vent’anni prima, Beethoven aveva dedicato tanto spazio e tanta assiduità alla composizione di una sinfonia.
Per Romain Rolland (1966, p. 875) «La Nona sinfonia è un luogo di confluenze, dove si congiungono e si mescolano numerose correnti venute dalle regioni più lontane e diverse […]. E si potrebbe anche dire che, a differenza delle altre otto Sinfonie, essa è un Rückblick – uno sguardo all’indietro, librandosi da una cima su tutto il passato»; ma a proposito di sguardo all’indietro l’osservazione era già stata fatta con molta acutezza da Paul Bekker (1966, p. 266) come «unica possibilità», una volta preso atto che avanzare ancora sulla via che aveva portato dall’Eroica all’Ottava sinfonia non era più possibile: «non l’immediata comunicazione di una esperienza di vita, ma un momento riflessivo dà l’impulso alla creazione della Nona […]. Non è la vita stessa che viene imprigionata e rappresentata nei suoni, ma una sua reviviscenza concettuale amplificata dalla forza poetica, che nel passato vede solo ciò che significa, ciò che rimane, e dalla cerchia ristretta dell’esperienza personale lo consegna alla più ampia sfera dell’esperienza universale».
Oltre a queste eccitanti novità di contenuto spirituale, quasi inaudite nei casi della musica, la Nona è una sinfonia tutta particolare anche nel suo aspetto esteriore e non bisogna dimenticare che la sua composizione si intreccia con quella della Messa solenne, incominciata già nel 1818, ma giunta alla fase decisiva e al completamento soltanto nel 1823: la presenza delle voci nel finale, la collocazione di certi episodi nel quadro generale e lo stesso carattere di alcune parti puramente strumentali della sinfonia, trovano riscontri illuminanti nella vicina esperienza creativa della Messa. Il ritorno di fiamma dello «stile eroico», provocato dal riprendere in mano il genere sinfonico, non poteva nel nuovo Beethoven degli anni venti che prendere forme inconsuete, condizionate dai tempi nuovi e al principio imprevedibili dallo stesso autore. La voga di grandi composizioni sinfonico-corali, innestata a Vienna fin dagli oratori di Haydn, l’ammirazione di Beethoven per Händel, la ricerca nella musica antica, con l’idea di attingere nella messa la «vera» musica religiosa: tutto ciò fermenta in una volontà compendiaria, che tutto vuole penetrare e riassumere; per cui lo spirito enciclopedico dell’Ottocento, costruzione sistematica di uno, e non più collaborazione di molti come nel secolo precedente, la visione ciclica che tante tracce lascerà nel romanzo, nel dramma musicale e nella sinfonia del tardo Ottocento, hanno nell’ultima sinfonia di Beethoven una prima e vincolante affermazione.
4. 7 maggio 1824.
Quando, nel marzo 1824, Beethoven arrivò alla fine della composizione i copisti erano già al lavoro per consentire la prima esecuzione della sinfonia, in programma per il 7 maggio; l’eventualità di presentare l’opera alla Società filarmonica che l’aveva commissionata sfumò assieme all’ipotesi di un viaggio a Londra; anche la mezza idea di una presentazione a Berlino fece la stessa fine, e la «prima» sarebbe dunque avvenuta a Vienna, patria adottiva di Beethoven, come per tutte le altre Sinfonie. Esecuzione come d’abitudine su partitura e singole parti manoscritte, la stampa della partitura sarà pubblicata da Schott a Mainz nell’agosto 1826, con dedica al re di Prussia Federico Guglielmo III. Sede decisa per la manifestazione: il reale e imperiale Teatro di corte di Porta Carinzia, in una «Grande accademia musicale» che oltre alla Nona doveva comprendere l’Ouverture op. 124 assieme a tre parti della Messa solenne op. 123, Kyrie, Credo e Agnus Dei, secondo l’uso nominate genericamente Inni per rispetto religioso.
Per la riuscita della serata, ultima trionfale manifestazione pubblica di Beethoven, l’ambiente musicale della città prodigò ogni energia e alla «grande accademia» non fu estraneo un carattere di orgogliosa affermazione tedesca, contro la fortuna crescente di Rossini che da qualche anno stava conquistando il pubblico di Vienna. Le voci ingaggiate erano Henriette Sontag, soprano diciassettenne che sei mesi prima era stata protagonista nel debutto dell’Euryanthe di Weber, il contralto Caroline Unger, ventun’anni, destinata a una lunga e brillante carriera nell’opera italiana, il tenore Anton Haizinger e il basso Joseph Seipelt, scelti fra le forze stabili dei teatri viennesi. La direzione dell’orchestra era stata affidata a Ignaz Schuppanzigh, cori e voci al maestro di cappella Michael Umlauf; recitava una locandina che «Herr Ludwig van Beethoven stesso prenderà parte alla guida del tutto», ma il violinista Joseph Michael Böhm, che prese parte al concerto, ricorderà poi che gli sguardi di tutta l’orchestra erano concentrati su Michael Umlauf, più che sulle gesticolazioni di Beethoven, che pareva «volesse da solo suonare tutti gli strumenti e cantare tutte le voci del coro» (Ulm 1994, p. 249). Dopo appena due prove d’assieme è probabile che l’esecuzione non fosse all’altezza dell’attesa; ma già lo Scherzo, all’entrata del timpano solo, fu interrotto dagli applausi e la fine della sinfonia accolta da un trionfo con grida di «Vivat!». Beethoven era talmente eccitato che, rimasto con gli occhi sulla partitura, non si accorgeva di nulla, come nulla aveva potuto materialmente sentire della sua composizione; toccò a Caroline Unger prenderlo per la manica e girarlo verso la sala che agitava cappelli e fazzoletti; e, davanti a quel tripudio, l’autore della Nona sinfonia come imbarazzato accennò un lieve inchino di ringraziamento (Thayer 1973, p. 909).
5. Temi multiformi.
L’attacco della Nona ha qualcosa di iniziatico; è uno dei passi più famosi e commentati dell’opera per l’originalità intrinseca e l’influenza esercitata sulla musica futura. Ci troviamo in presenza di una introduzione, come nelle sinfonie classiche, ma compresa nel movimento da introdurre; non è più un portale distaccato in tempo lento: il tempo è lo stesso del movimento, Allegro, ma non troppo, un poco maestoso, in cui l’idea dell’introduzione viene incorporata. La prima sensazione è quella di una musica che viene da lontano, numinosa, dai tratti ancora incerti: la quinta vuota La-Mi, pianissimo, tenuta da due corni, violini secondi e violoncelli, può essere l’alba di qualunque evento; sopra e sotto, altri archi «sotto voce» arpeggiano le stesse due note Mi-La o La-Mi, come guizzi di un ago sulla fissità della quinta di partenza. È l’idea che con altra retorica e prosopopea riprenderà Wagner per il principio dell’Oro del Reno a rappresentare l’origine della vita; anche qui si assiste al costituirsi del tema principale, un modo di procedere tipico dell’ultimo Beethoven che specialmente Brahms farà suo: mettere preventivamente sul tavolo le idee, gli utensili con cui procederà il lavoro; in questa introduzione le premesse si saldano in un crescendo al fortissimo, che piomba sulla tonalità base di Re minore con i colpi di maglio del tema principale.
Questo tema spazia in non meno di 19 battute ed è importante definire i motivi secondari che lo compongono come un unico tratto: il primo (bb. 17-19) si distende sull’arpeggio discendente della tonalità di Re minore; il secondo (bb. 19-21) è una variazione del primo, e in termini sonatistici è quello che «lavora» di più: è distinto da una impennata verso la dominante che ricade pesantemente sulla tonica; il terzo motivo (bb. 21-27) è una scala ascendente che arricchisce il quadro con nuove armonie (di sottodominante), mentre il quarto (b. 27) è una semplice figura ritmica, uno scatto militaresco, che agirà come pungolo diffusamente presente. La multiforme presenza di queste figure riempie di sé l’Allegro, ma non troppo, un poco maestoso; ma non più al modo della Terza o della Quinta sinfonia, perché qui gli stessi temi possono assumere significati diversi per una nuova angolazione luminosa, per il nuovo luogo occupato nell’ordine di successione. Siamo ancora alla consueta forma sonata per spartizione di aree tonali, per successione di esposizione, sviluppo e ripresa, ma non c’è più la continuità drammatica come nei paradigmi precedenti; basta vedere come manchi un contrasto con il secondo o secondario gruppo tematico, che scorre parallelo al primo in un suo autonomo percorso di immagini.
Anche qui abbiamo da fare con un gruppo di temi che esplorano la tradizionale zona cantabile, rassenerata, riservata al secondo tema di sonata; l’esplorazione incomincia con un tema in armonia di dominante di Si bemolle maggiore (bb. 74-76) intonato dai legni per terze, come nel cantare popola...