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Mafiopoli
1.1 In fondo alla Sicilia
Cinisi: distanza da Palermo 30 Km., superficie 3.316 ettari, altitudine da zero ai 986 metri di Montagnalonga.
La tabella indica alcuni dati anagrafici, dal 1951 al 1993:
Si può notare che, a parte la lieve flessione del 1971, causata dall’emigrazione, dovuta all’esproprio delle terre di Punta Raisi, la popolazione è in lenta, ma costante crescita: il biennio ’91-’93 segna gli aumenti più consistenti, ma anche la diminuzione del tasso di natalità, che dal 3,3% (figli per famiglia) dell’87 si abbassa al 2,7% del ’93. L’aumento è causato particolarmente dal fenomeno di espansione dell’area periferica urbana di Palermo, dalla scoperta della vocazione turistica del paese, dal proliferare selvaggio di villette di proprietari palermitani, più o meno messe in sanatoria, e dal conseguente trasferimento di residenze.
Il numero più alto di morti si ha nell’87, momento cruciale della guerra di mafia. Gli ultimi anni segnano anche un costante rientro degli emigrati e, contemporaneamente, un aumento del loro numero. Dal ’78 non si registrano più “nati nel comune” in quanto i parti avvengono presso il vicino ospedale di Carini o a Palermo, dove esercitano molti medici di Cinisi.
L’ultimo rilevamento evidenzia un forte ritorno dell’emigrazione, a fronte di una discreta crescita del numero delle famiglie e dei residenti.
Sembrerebbe trattarsi di un qualsiasi tranquillo comune siciliano, ribattezzato invece “Mafiopoli” da Giuseppe Impastato per il ruolo di primaria importanza da esso assunto nell’ultimo trentennio, soprattutto nel campo della criminalità organizzata:
1.2 Le origini
Per una ricerca sulle origini rimandiamo ai testi indicati da Vito Mangiapani2, il quale rintraccia nei classici della storiografia siciliana3 le prime citazioni sull’esistenza di un casale arabo che, intorno al 1072 oppose, assieme a Giato4 una fiera resistenza all’assedio del Conte Ruggero il Normanno: gli accordi intervenuti consentirono la sopravvivenza dei due insediamenti sino al 1222, quando gli ultimi Arabi furono definitivamente debellati da Federico II e deportati in Puglia.
Da quel momento il borgo scompare e il feudo, attraverso una serie di passaggi, nel 1382 è ceduto, dal suo ultimo proprietario Fazio di Fazio, ai monaci benedettini del Convento di S. Martino delle Scale. L’esistenza della tonnara dell’Ursa non è confortata da quella di un nucleo abitativo, almeno sino ai primi anni del sec. XVII. Nel 1610 il papa Paolo V dava il permesso di potere concedere in enfiteusi parte del territorio, consentendo un incremento della produzione agricola e delle famiglie, le quali trovarono il loro punto di riferimento e di aggregazione intorno al Monastero, la cui costruzione venne avviata nel 1617 dall’abate Andrea da Palermo.
La storia successiva è ricca di contese tra i La Grua, principi del feudo di Carini, e il Monastero, soprattutto per l’ostinata volontà dei monaci nel non voler concedere l’autonomia parrocchiale agli abitanti della limitrofa Terrasini: «la lotta continuò per molto tempo e riprese con maggiore accanimento, quando con decreto reale del 26 settembre 1836 il villaggio di Favarotta, cessando di far parte del comune di Cinisi, restò aggregato a quello di Terrasini»5. Poiché il decreto di Ferdinando III di Borbone diceva: «... salvo restando i diritti di Cinisi», tra i due comuni è continuata, sino ai nostri giorni, sui confini e sulla giurisdizione territoriale, una lotta che ha visto momenti di forte tensione, sia all’epoca della costruzione della stazione ferroviaria, sia, attualmente, per la costruzione e l’ampliamento del porto.
Le testimonianze del passato ci aiutano a delineare un quadro dove il rapporto con la violenza e l’illegalità era abbastanza diffuso e, per molti aspetti, non dissimile da quello che ritroviamo in tempi più recenti: nel 1910 il canonico Mangiapani riportava, nel suo libro, una «Egloga a sua Eccellenza R.ma P. D. Matteu Lucchisi Palli, Decanu Cassinisi e Retturi di Cinisi» «in occasioni d’aviri cull’opira sua e cu li soi maneggi liberatu interamenti lu statu di Cinisi da li latri e malviventi chi da multu tempu l’infestavanu»6; significativo anche il giudizio sui Cinisensi di Giuseppe Navantieri: «Pare che nessuna passione agita e commuove gli abitanti se non le lotte di parte che, in Sicilia, nei paesi di provincia specialmente, sono aspre, vive, lunghe; gli uni e gli altri non stanno senza guerra e il bene dei cittadini si negligenta e solo si pensa a soddisfare le proprie vendette, le proprie ingordigie e ad empire le bramose canne di gloria, di fumo e forse d’altro»7.
Lo stesso Mangiapani rileva che «i reati più recenti sono furti campestri e pascoli abusivi... non mancano gli abigeati, come i danni vandalici sulla proprietà, ragionati dall’odio e dalla vendetta»8, e, poco più avanti: «L’associazione si sconosce completamente, come in molte parti dell’isola, dove la malafede e le frodi continue impediscono l’unione dei capitali. Quindi nessuna società commerciale, benché vi sia molta esportazione di sommacchi, di mandorli, di manna e di carrube; come non esistono cooperative e Casse Rurali. La vita sociale si svolge come un secolo addietro»9.
1.3 Dal fascismo al dopoguerra
Sino agli anni ’60 il paese, malgrado la vicinanza del mare, è rimasto legato alla sua tradizionale struttura economica agro-pastorale, alla quale erano collegati una serie di mestieri: intaccatori di frassino, potatori di agrumeti e di oliveti, carrettieri, mietitori, carbonai, pastori, contadini e lavoratori giornalieri formavano un settore produttivo, ricercato anche nelle zone vicine, ma insufficiente ad arginare un vasto flusso emigratorio, principalmente verso gli U.S.A. e in particolare verso Brooklyn, Saint Louis, Detroit, Chicago.
Quasi l’80% degli abitanti di Cinisi ha parenti in America: l’esodo ha avuto una prima grande ondata intorno agli anni ’20, dopo la prima guerra mondiale e in seguito all’attività repressiva del fascismo, è ripreso nel secondo dopoguerra e si è ripresentato dopo il ’68, a causa degli espropri per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi. Le difficoltà per il rilascio del passaporto, in seguito alle norme restrittive adottate dagli U.S.A. negli anni ’60, facevano apparire l’America come una sorta di Eldorado, ma le rimesse degli emigrati e l’invio di pacchi di abiti smessi e di scarti inutili del capitalismo americano non riuscivano a risolvere i problemi più urgenti della fame e della crisi d’occupazione. Non si può non rilevare l’errore di chi sostiene che il fascismo sia riuscito a sgominare la mafia: la repressione del prefetto Mori si rivolse essenzialmente contro i piccoli e medi gabelloti e contro le punte più appariscenti di cronica criminalità, lasciando confluire all’interno del regime i soggetti emergenti di quelle classi sociali che secolarmente detenevano la capacità di controllo del territorio e dei suoi settori produttivi: a costoro vennero affidati posti di potere e la gestione di un ordine pubblico più apparente che reale, mentre le punte delinquenziali più fastidiose e refrattarie a un’intesa continuarono il flusso migratorio. Una serie di delinquenti, disoccupati, borghesi d’incerta posizione economica, ma non privi d’intraprendenza, finì col piantare salde radici in America, inserendosi negli ambienti del gangsterismo e avviando una serie di traffici di contrabbando con i nuclei rimasti in paese.
La liberazione e i conseguenti accordi tra alleati ed esponenti mafiosi aprirono nuovi spazi d’azione alla pratica dell’illegalità e della prevaricazione: non a caso, nel suo ultimo processo in America, Gaetano Badalamenti affermava di essere stato un benemerito dell’antifascismo e non a caso, a nome di Salvatore Badalamenti, fratello di Gaetano, presunto partigiano (ma, per le poche notizie che siamo riusciti a raccogliere, fucilato dagli stessi partigiani per un furto in fureria), è ancora intestata una strada del Comune di Cinisi.
A dirigere il paese venne allora “installato”, come sindaco, il cavaliere Giunta, ricco proprietario terriero: per avere un’idea sul personaggio basti questa testimonianza dell’allora locale segretario del P.C.I. Stefano Venuti:
La “chiurma” del Cavaliere era formata da un solo uomo, “Annaloru”, il terzo e il quarto venivano assunti allo stesso modo, con cifre sempre più basse, sino ad arrivare a 400 lire al giorno.
Il nuovo mestiere nato in quegli anni era quello dell’“intrallazzista”, che viveva di continui espedienti giornalieri, spesso ai margini della legalità e si arrangiava portando merce a Palermo, vino, formaggi, carni macellate clandestinamente, cercando di eludere il dazio: «L’intrallazzista commerciava di tutto, dimostrando un’abilità insospettata in chi, tempo prima, si era dedicato a un lavoro normale ben diverso. Egli si serviva dell’unico treno esistente: partiva alle sei del mattino, ritornava alle otto di sera. Era interessante quel treno: affollatissimo di studenti, impiegati, operai: le donne portavano valigie e ceste contenenti un po’ di tutto... intrallazzisti di più alto livello trafficavano sigarette, caffè, zucchero, farmaci introvabili nelle farmacie»10. L’arte di arrangiarsi diventava anche arte del sapere imbrogliare, di ricorrere al furto e alla violenza, di vivere comunque in una condizione parassitaria, che è anche quella che caratterizza l’economia mafiosa, di avere contatti con altri gruppi che praticavano gli stessi metodi.
Il primo omicidio avvenne a Cinisi proprio all’indomani dell’occupazione alleata: da quella data ad oggi, se si esclude una lieve stasi negli anni ’70, si sono susseguiti circa duecento omicidi, senza che sia mai stato trovato un colpevole.
La mafia di allora venne ad incrociarsi con il banditismo e con le complesse articolazioni politiche che gli stavano dietro: era di casa a Cinisi l’on. Cusumano Geloso, di cui si parla ampiamente nel quarto volume degli Atti della Commissione Antimafia e sul quale Gaspare Pisciotta, al processo di Viterbo ebbe a dire:
Le montagne circostanti, da Piano Margi a Palmeto, da Carini a Montelepre, da Sagana a Borgetto, costituivano nascondigli ideali per latitanti e banditi che operavano più o meno in sintonia con altre bande del Partinicense.
Malgrado il riemergere dei vecchi capimafia, tenuti sotto controllo dal fascismo, quali Luigi Palazzolo, don Tomasi Impastato, don Peppino Badalamenti, quest’ultimo ben presto eliminato, cominciava a farsi largo una generazione di “nuova mafia”, spesso non controllabile e particolarmente violenta, con la quale convivevano alcuni “cani sciolti”, cioè banditi solitari, temibili per la loro crudeltà, ma anche ...